Il Tempo, grande artista. Tracce per un’estetica dell’invecchiamento
Si sollevano gli anni alle mie spalle
a sciami. Non fu vano, è questa l’opera
che si compie ciascuno e tutti insieme
i vivi i morti1
Le Temps qui d’habitude n’est pas visible, pour le devenir cherche des corps et, partout où il les rencontre, s’en empare pour montrer sur eux sa lanterne magique2
Il tempo del cosmo
Tempo è ogni cosa che invecchia. Questa affermazione, tanto ovvia quanto complessa da argomentare, è in realtà confermata anche dalle ultime acquisizioni della fisica. O almeno da una certa fisica. La fisica relativistica non accetta il divenire e recupera l’ontologia di Parmenide per cui il fluire delle cose non esiste ed è semmai soltanto il frutto delle nostre percezioni, che si ingannano3. Ci sarebbero solo fluttuazioni gravitazionali all’interno dello spazio-tempo, estroflessioni della materia che vengono percepite da una coscienza che li coglie come il risultato illusorio di una freccia del tempo puntata solo apparentemente verso il futuro. Dall’altro lato, si pongono le cosiddette scienze del divenire4, le quali invece problematizzano le teorie relativistiche affermando con forza la realtà del fluire delle cose, avvalendosi del secondo principio della termodinamica, per cui ogni sistema tende a uno stato di maggiore disordine e la configurazione iniziale è impossibile da ristabilire, da cui appunto l’irreversibilità del divenire di enti, eventi e processi.
La filosofia antica, ad esempio quella atomistica e di matrice epicurea di Lucrezio, affermava convintamente l’esistenza del divenire. Nei suoi mirabili versi, il poeta latino compone una vera e propria fenomenologia del divenire, dei suoi effetti nefasti per la vita e gli artefatti umani, ma insieme a ciò anche della sua potenza. Il tempo vince ogni cosa e la destina al niente da cui è emersa, a convergere in altre configurazioni materiche, organiche e non: «E ancora, non vediamo i monumenti degli eroi crollati / Chiedere se tu credi che essi a loro volta invecchiano?»5. Lucrezio descrive l’invecchiamento, il morire delle cose che una volta venute all’essere devono cedere il passo al rigoglio del Tempo cosmico. Persino Galileo, probabilmente il più grande uomo di scienza del Seicento – e per alcuni anche il più grande scrittore in lingua italiana6 –, rifacendosi al De generatione et corruptione di Aristotele per bocca del peripatetico Simplicio, va in questa stessa direzione: «Veggo in Terra continuamente generarsi e corrompersi erbe, piante, animali, suscitarsi venti, pioggie, tempeste, procelle, ed in somma esser questo aspetto della Terra in una perpetua metamorfosi»7. Lo scienziato pisano introduce concettualmente il divenire negli astri, nei corpi celesti sin da Aristotele ritenuti incorruttibili e divini, e invece di svilire il cielo consegnandolo alla morte e al decadimento inesorabile eleva la Terra al cielo, ponendola come stella tra le stelle.
Ai nostri giorni, con i sistemi di rilevazione e le tecnologie più avanzate, utilizzate per provare le più svariate teorie cosmologiche, alcuni fisici convengono sul fatto che il divenire cosmico è reale, che anche le stelle, per così dire, invecchiano, che la materia stessa si trasforma incessantemente8, e ciò non ha niente a che fare con la gnoseologia, il modo parziale di conoscere il mondo dal punto di vista di un singolo ente ancorché avveduto di sé, bensì con l’ontologia: quella dell’invecchiamento è infatti una legge basale all’essere, al tutto, una sua funzione primaria.
Ci chiediamo allora, partendo da questo assunto ontologico, cosa questa legge metafisica dell’universo, dell’essere in quanto tale, implichi in termini esistenziali. Più precisamente quando questa consapevolezza si esteriorizza e si fa fenomeno, estetica, si trasferisce in concetti. Come con Lucrezio e Galileo, che al rigore scientifico hanno saputo unire in modo unico e bellissimo il brio e la leggerezza della parola, il primo in versi e dunque in musica, il secondo con metafore e quindi in immagini, possiamo rivolgere la nostra attenzione ai maestri della figura, pittori, scultori e cineasti, provando a definire l’arte come quel movimento che rende plasticamente il concetto, con una forza e un’incisività altrimenti irraggiungibili.
Se è vero che l’invecchiamento, il procedere di un ente verso la propria fine, è ontologico e universale, restringendo il campo alle cosiddette arti figurative come rappresentazione di questa dinamica interrogheremo alcune opere ascrivibili a questi generi. L’invecchiamento generale delle cose si può intuire dal passare delle stagioni, dall’abbassamento delle montagne, dal rovinare degli edifici, dal diradarsi delle capigliature, dall’incurvarsi delle schiene, dal rimpicciolirsi della statura, dall’odore corporeo che con gli anni diviene sempre più forte. Tutti fenomeni, questi, dal respiro di ere geologiche o dalla durata di un’intera vita, sicché diventa spesso difficile prenderne pienamente consapevolezza. L’arte invece, nei casi che commenteremo, li rende perspicui e li pone nella visibilità in cui meglio non avrebbero potuto darsi ed essere compresi.
Il tempo della scultura
Un formidabile esempio di quanto andiamo cercando lo ricaviamo da un breve ma adamantino testo di Marguerite Yourcenar, Le Temps, ce grand sculpteur, in cui la scrittrice francese compone una fenomenologia dell’invecchiamento materico a partire dalla statuaria classica, in particolare quella greca. Uno degli elementi di maggiore fascino dell’arte antica è sicuramente la permanenza, la capacità di resistere al tempo distruttore ergendosi quasi a vessillo di vittoria. Benché deturpati dagli anni, dalle intemperie, dalle ruberie e dalla miseria umana, questi monumenti ancora esistono, e fieramente si impongono alla vista come motivo di vanto e orgoglio. Talché portare alla luce un reperto che giaceva dimenticato negli abissi del mare, come nel caso di una statua bronzea rinvenuta e riportata in superficie (si pensi ai Bronzi di Riace o al Satiro danzante di Mazara del Vallo), è ragione di grande emozione: artefatti umani che possono sperare di durare, anche per millenni, molto di più dei loro stessi creatori. Esibiscono quindi con chiarezza due fattori: la resistenza come tale al tempo e ai suoi effetti; la forza intrinseca, pur nel deterioramento, di salvarsi dal divenire. Come scolpisce anche Heidegger nel marmo pario del concetto, in un formidabile passaggio di Sein und Zeit riguardante un tempio greco: «Was eine “Geschichte hat”, steht im Zusammenhang eines Werdens. Die “Entwicklung” ist dabei bald Aufstieg, bald Verfall»9.
Scrive allora Yourcenar che, dopo l’effettiva realizzazione di un manufatto, nel nostro caso di una statua, essa comincia una nuova vita, potremmo dire quella che impiegherà per ritornare alla materia informe da cui l’artista l’aveva tratta: «Ora una seconda fase, nel corso dei secoli, attraverso un alternarsi di adorazione, di ammirazione, di amore, di spregio o di indifferenza, per gradi successivi di erosione e di usura, la ricondurrà a poco a poco allo stato di minerale informe a cui l’aveva sottratta lo scultore»10. A volte capita che rispetto a una copia molto più integra la maggiore dignità di un’opera sia data dal suo essere antica, dal tempo che separa noi uomini del presente, e che la osserviamo rapiti e ammirati, dagli uomini di quell’epoca distante migliaia di anni. Sospettiamo questo in virtù, come dicevamo, della nuova aura che l’opera assume grazie al tempo che si sedimenta in lei e che la rende coraggiosa testimonianza di tale oltranzismo cronologico.
Più in generale, il concetto metafisico oggetto della riflessione di Yourcenar è il tempo stesso in quanto scultore molto più capace di qualunque ingegno umano. Con le sue mosse imprevedibili, il tempo sia umano che naturale interviene migliorando con contributi inediti e apprezzabilissimi l’opera di partenza, redendola più bella, sublime: «Talune di queste modificazioni sono sublimi. Alla bellezza come l’ha voluta un cervello umano, un’epoca, una particolare forma di società, aggiungono una bellezza involontaria, associata ai casi della Storia, dovuta agli effetti delle cause naturali e del tempo»11. Ma nella metafisica temporale che riguarda gli enti, di cui le opere d’arte sono lo spicco come investimento di senso più rilevante compiuto dall’umano, la materia della quale sono composti, inclusa quella delle statue, finirà per tornare alla sua condizione primitiva. «Qui è tutto l’uomo, la sua collaborazione intelligente con l’universo, la sua lotta contro di esso, e la disfatta finale ove lo spirito e la materia che gli fa da sostegno periscono pressappoco insieme. Il suo disegno si afferma sin in fondo nella rovina delle cose»12. L’umano esperto d’arte antica vi collabora riconoscendo nei manufatti sottratti fortunosamente all’oblio dei secoli la mano di un suo simile che vi aveva lavorato ma, e qui Yourcenar lo sottolinea in modo eccellente, si tratta anche di una lotta, il cui esito è già scritto poiché intrinseco alla dinamica universale dei processi cosmici, all’ontologia delle cose, e cioè perire. Una forma di morte che corrisponde non all’annichilimento materico di cui l’ente è costituito, ma della sua configurazione, talché il tempo-scultore farà in modo che alla fine i tratti della statua, anche se ben protetta e custodita tra le mura amiche di un museo, vengano rimossi ed essa diverrà indiscernibile rispetto a un qualsiasi pezzo di marmo, granito o basalto.
E tuttavia, pur venendo meno la sua forma artistica, l’opera non perderà la propria bellezza, chiaro segno di quel processo che dall’artificiale conduce al naturale, allo stesso modo di un corpo organico che al termine della propria vita, a causa delle costanti del tempo, ritorna all’inorganico secondo giustizia, «quella appunto della materia consegnata alle sue leggi»13. Il punto di Yourcenar è che noi contemporanei abbiamo disimparato ad apprezzare l’arte del tempo, o forse non siamo abbastanza intelligenti e avveduti per rendercene conto: dovremmo accettare la bellezza delle mutilazioni che il tempo provoca invece di bollarle come imperfezioni che il restauro può scongiurare. Ma l’effetto filosofico, in ogni caso, rimane innegabile.
È in un altro testo, Sixtine, in cui è in scena il più grande degli scultori, Michelangelo, che Yourcenar esprime al meglio questo concetto:
Il bronzo della tomba di mio padre volge al verderame nel chiostro di una chiesa rustica, l’immagine del giovane di Firenze andrà scrostandosi sulle volte da me dipinte, i miei carmi per la donna che amavo, fra pochi anni, non saranno più capiti, e questo, per la poesia, è un modo di morire. Voler pietrificare la vita, è la dannazione dello scultore. Appunto in questo, forse, tutta la mia opera è contro natura. Il marmo, in cui crediamo di fissare una forma della vita peritura, riprende ad ogni istante il proprio posto nella natura, per l’erosione, la patina, e i giochi della luce e dell’ombra su piani che si ritenevano astratti, ma che non sono tuttavia se non la superficie di una pietra. Così, l’eterna mobilità dell’universo provoca indubbiamente lo stupore del Creatore14.
Stupore al quale, per necessità, deve seguire la corretta comprensione. Con la parola poetica di Wisława Szymborska, tolta da una poesia tra le sue più notevoli e dal titolo per noi assolutamente evocativo e convergente di Statua greca, si può affermare: «Con l’aiuto degli uomini e di altri elementi / il tempo si è dato un gran da fare intorno a lei», a cui si aggiunge la clemenza del tempo verso le cose umane che vengono messe al riparo dalla sua azione implacabile, sicché: «Anche il tempo qui merita una menzione di lode, / poiché ha smesso di lavorare / e ha lasciato qualcosa per dopo»15. E in questo dopo l’umanità, e l’arte tutta, si mantengono.
Il tempo della pittura
Un caso veramente emblematico è dato dalla figura umana che, con Walter Benjamin, «è il signore delle creature, ma resta creatura»16, ovvero il re del dramma barocco. E certamente Filippo IV di Spagna è da annoverarsi in questa schiera. Il rey Planeta, personaggio di sicuro fascino ancorché non ricordato dalla storia come i suoi predecessori Carlo V e Filippo II, è stato chiamato in molti modi: tra i vari appellativi il più esatto e rispondente al suo carattere fu quello di melanconico. Il Barocco, infatti, tra apoteosi, stucchi e infingimenti artistici di ogni tipo, fu la temperie della malinconia. Non è un caso che proprio in questo secolo sia comparso il trattato The anatomy of Melancholy di Robert Burton, pubblicato nello stesso anno in cui Filippo IV salì al trono (1621), circostanza ovviamente estrinseca di per sé ma come nota Aurelio Musi assai significativa per il futuro regno del todopoderoso spagnolo17. Una malinconia, letta ancora con Benjamin, che tradisce la colpa creaturale post-edenica e la consapevolezza della morte come orizzonte ultimo e inaggirabile dell’esistenza. A cui si affianca, ovviamente, una sensibilità filosofica per il tempo, più precisamente per il tempo del proprio finire.
La grandezza di Filippo IV e l’interesse teoretico che gli rivolgiamo nascono in realtà da una vera e propria catena che lo legò al suo perfetto alter ego, il pittore di corte, e tra i più grandi di ogni epoca, Diego Velázquez, il quale dipinse il re e la sua famiglia praticamente per tutta la vita. Sono due allora i filoni che possiamo seguire per la definizione del nostro concetto, quello dei ritratti del re (che Velázquez realizzò da quando Filippo aveva diciott’anni) e quello che è ritenuto il suo capolavoro, secondo Luca Giordano, anche lui pittore di corte ma più tardo di Diego, la «teologia della pittura», Las meninas. Questi due filoni, in corrispondenza delle Meninas, si intersecano, oppure, cambiando prospettiva, divengono il primo il sotto-testo del secondo. Michel Foucault, nelle pagine celeberrime di Les Mots et les Choses, descrive il quadro come una sorta di rompicapo prospettico, in cui l’osservatore viene dipinto dall’artista, che a sua volta si autoritrae nell’opera facendo un passo indietro dalla tela, in un gioco di specchi e di ricorsività senza fine18. Lo stesso Carl Justi, richiamandosi a Palomino, il biografo settecentesco di Velázquez, sottolinea l’istante della posa del re e della regina e l’esatto momento che si presentava dinanzi agli occhi di Filippo: «Affascinato dalla scena che sembrava un quadro, il sovrano sente il desiderio di conservarne l’immagine e prega il pittore di eseguirne subito il disegno per “recuerdo”»19. Un momento dunque quotidiano, assolutamente casuale, privato e umilissimo, che per volere di Filippo diventerà un quadro di grandi dimensioni.
È comunque l’attimo della posa a importare per i nostri fini. Attimo che viene segnalato con decisione e buoni argomenti da Tomaso Montanari20, il quale, in una proposta ermeneutica sicuramente coraggiosa ma suggestiva, vede nel quadro l’insostenibilità della posa da parte del sovrano poiché indisposto dal rituale. E ciò perché Filippo si sentiva vecchio. In un rarissimo carteggio intrattenuto con Suor Luisa Enríquez Manrique de Lara, contessa di Parédes, uno dei pochi in cui Filippo si spinge al punto da fare confidenze altrimenti impossibili con qualcuno all’interno della corte, il re confessa alla religiosa di non farcela più a posare dinanzi alla flemma di Velázquez, di prestarsi al cerimoniale del ritratto, alla lentezza necessaria affinché il pittore possa realizzare un’immagine veritiera del modello. Il tempo della posa è quello della solitudine, della noia, della malinconia, è il tempo in cui il tempo è più reale, insiste maggiormente sull’esserci e lo angoscia, lo inquieta, lo tramortisce.
Considerato inoltre che era stato ritratto, per motivi ufficiali e non, lungamente durante la sua vita, tra l’altro in un’epoca priva della fotografia, Filippo poteva contare su un curioso privilegio, o su una condanna, che soltanto a un sovrano poteva essere accordato: vedere nell’arte, in una galleria di sommi ritratti, i progressi della sua stessa carne. Ancora Justi, pur essendo a più di un secolo un punto di riferimento imprescindibile negli studi su Velázquez, e pur avendo avuto una solidissima formazione filosofica, formula un giudizio abbastanza ingeneroso su Filippo, parteggiando chiaramente per il Diego artista. Filippo, benché re, è figura umana indifferente secondo Justi per l’arte del sivigliano, qualcosa di assolutamente accessorio. Cionondimeno, il critico indica in modo splendidamente esatto il concetto che qui si sta tentando di enucleare:
Dipinse quasi esclusivamente per il re che egli accompagnò sempre e dappertutto dal diciottesimo fino al sessantesimo anno e lo ritrasse più spesso di qualsiasi altro pittore di corte che abbia ritratto il suo signore. Se fosse possibile mettere l’uno accanto all’altro tutti questi dipinti, ne risulterebbe una serie ben lunga e interessante; una serie non priva di interesse, nonostante la sua monotonia per uno studioso che si senta attratto dalla possibilità di seguire i cambiamenti degli anni, le tracce delle alternanti vicende intrecciate col maturarsi dello stile dell’artista21.
A cui segue:
Fu una strana sorte essere l’Apelle di questo Achille indolente, e dipingere per più di un trentennio sempre lo stesso quadro, poiché la fisionomia di Filippo conservò in questi trentasette anni una desolante uniformità.
[…]
La fisionomia, è vero, si trasforma dal viso magro, fresco e liscio del giovane in quello consumato dalle passioni dell’uomo e poi in quello gonfio e rigido del vecchio, ma anche da lontano rimane sempre riconoscibile. È sempre lo stesso ovale allungato e pallido dallo sguardo freddo e flemmatico, dai grandi occhi azzurri sotto la fronte alta, dalle labbra forti e piatte e dal mento massiccio: il tutto animato dall’espressione di un orgoglio che respingeva ogni familiarità22.
Justi, nella sapienza mediale del critico d’arte, il cui lavoro si risolve in definitiva nella parola, non manca, e lo si vede chiaramente, di descrivere l’essenza di un essere umano nel modo in cui un artista ce la lascia vedere.
Filippo riporta comunque a Suor Luisa di essersi rifiutato a Velázquez nel fare altri ritratti, perché, umanissimo tra i mortali, non voleva vedersi mentre invecchiava. Dovrà sottoporsi un’ultima volta al supplizio del pennello sempre per ragioni di Stato, essendo il ritratto oggetto di potere a tutti gli effetti: ne usciranno due vertici assoluti, i due ritratti adesso al Museo del Prado e alla National Gallery di Londra, in cui si può osservare, in tutta la sua magnificenza, avendo sempre in mente i ritratti precedenti di gioventù di Filippo, l’immagine più reale di un uomo in cui il tempo, letteralmente, aveva fatto la sua opera. Nei ritratti di Filippo agisce infatti un altro artista, più bravo e implacabile dell’incolpevole Velázquez, perfino più prodigioso della sua mano di pittore eccelso dell’arte universale: il tempo, che in Filippo, creatura tra le creature, aveva compiuto il suo capolavoro.
Facendo un salto di più di due secoli, un altro strenuo oppositore e nichilista temporale nel senso di negatore del tempo come divenire nel modo in cui lo stiamo articolando23, e che fa di un quadro l’oggetto molto più che simbolico ma materialmente vivo di questa resistenza turpe e peccaminosa, è il Dorian Gray wildiano. Per Wilde il tempo è la cifra ontologica dell’essere, la metafisica basale al romanzo è la stessa che si era vista all’inizio, mentre il suo protagonista rappresenta la più perfetta e ostinata raffigurazione di un negatore del tempo. Il Picture è infatti molto di più che un Portrait, un ritratto, è l’immagine di un desiderio irriducibile per gli umani, vivere in eterno ed eternamente giovani per evitare la ripugnanza della vecchiaia e della morte, inneggiando a un concetto di estetica come sublimazione e soddisfazione dei sensi in tutte le maniere in cui è possibile farlo: droghe, abiti, moda, cibo, passioni, lussuria. Il romanzo di Wilde, l’unico che scrisse, cela infatti una fortissima concezione filosofica di fondo, una profonda convinzione teoretica per cui il tempo è signore di tutte le cose, l’arte è maggiore della vita e piegarla ai propri scopi, del resto peccaminosi poiché contro la legge universale del finire di tutte le cose, è semplicemente abominio, più segnatamente sacrilegio.
Ripercorrendo la storia ormai famosa e sedimentata nell’immaginario, quel volto sarà il sogno di una realizzazione artistica di cui la vita stessa sarà l’assassina. Sobillato dai suadenti argomenti di Harry, Dorian si smarca dal tema del dipinto, nel quale con gioia si riconosce per la prima volta24, e da lì in avanti vivrà mettendo in pratica i precetti di questo maestro del profano. La prima conversazione del libro tra i tre uomini, il giovane indemoniato, il fabbro dell’opera e il consigliere fraudolento, è il luogo teoretico più importante, l’inizio di tutti i mali. Dorian Gray è una creatura eccezionale: bello come un dio, la promessa di una giovinezza eterna il cui solo peccato risiede nella condanna a svanire. Ma se fosse l’arte, invero, la promessa fatta dagli dèi agli umani per vivere in un’eterna giovinezza? Se fosse il ritratto la traccia dell’eternità che Dorian ha ispirato in Basil e che rimarrà per sempre, dopo l’accanimento degli anni sul suo volto, la sua pelle e i suoi bei capelli dorati? L’arte, contrariamente a quanto espresso nella Prefazione al romanzo, non è completamente inutile, essa dà la giovinezza, concede il senzatempo. Così Lord Henry a Dorian: «Perché possedete una splendida giovinezza, e la giovinezza è l’unica cosa che val la pena di possedere»25. La giovinezza, sia anche splendida, non è per definizione possedibile, essa scorre via, è la bellezza in transito che l’arte di Basil ha arrestato nel dipinto e che sarà giovane più a lungo della vita, del suo finire, del tempo che la farà invecchiare. Quel tempo che è «geloso di voi, e nemico dei vostri gigli e delle vostre rose»26, che è il padre venerando e terribile di tutte le cose e che vorrebbe possedere per sempre i giovani di cui è innamorato; e difatti, concesso qualche attimo di serena gioia, li prende a sé senza fallire un rapimento.
Nella conclusione si dice: «Avrebbe ucciso il passato, e morto questo sarebbe stato libero. Avrebbe ucciso questa mostruosa vita dell’anima, e senza i suoi infami avvertimenti avrebbe trovato la pace»27. Come d’incanto, il sortilegio si rompe. Dorian aveva affondato il coltello nel suo stesso cuore, nell’anima del dipinto. Gli uomini accorsi a causa dell’agghiacciante grido di agonia «scorsero sulla parete uno splendido ritratto del loro padrone – così come l’avevano visto l’ultima volta, in tutto l’incanto di quella squisita bellezza. Sul pavimento giaceva un uomo, in abito da sera, con un coltello piantato nel cuore. Era avvizzito, coperto di rughe, con un volto ripugnante. Fu solo dopo aver guardato gli anelli che riconobbero chi era»28. Dorian è irriconoscibile, talmente traviato dalla sua violenza da renderlo uno sconosciuto. Il suo ritratto, invece, bello come lo era all’inizio, è forte, incolume, indifferente. Il Tempo, nella specialissima ottica morale di Wilde, nel malfondato estetismo che ha fatto del vecchio deforme sul pavimento un peccatore metafisico, ha infine punito Dorian. Il Tempo è il divenire inarrestabile, è negli enti, nei corpi organici, orologi perfetti del suo mostrarsi e a cui Dorian si era maledettamente sottratto. Non esiste fuga dalla stretta temporale di Ἀνάγκη.
Il tempo del cinema
Finora abbiamo passato in rassegna alcuni casi di scultura, pittura e letteratura (ma con la pittura anche quest’ultima ha da fare), in ogni caso tutte forme d’arte intensificate teoreticamente. Un altro genere che si fonda essenzialmente sul tempo come divenire, come ebbe a dire Gilles Deleuze nei suoi contributi sul campo, è il cinema29. La pellicola cinematografica ha infatti il pregio di condensare, o per meglio dire di montare, la distensione temporale di molti anni in poche ore, anche in una manciata di minuti, soprattutto se si adoperano come nei film più recenti effetti speciali di irresistibile resa e fascinazione. Suscita interesse per il nostro argomento, ad esempio, C’eravamo tanto amati di Ettore Scola (1974), in cui la vicenda dei protagonisti, quasi tutta la loro vita, viene ripercorsa, tra amori e altre vicissitudini, sullo sfondo della storia italiana degli anni successivi alla Seconda guerra mondiale. Un attraversamento lungo più di due decenni, tra alti e bassi, tra arte e società, di tre uomini affratellati dai tempi della Guerra, uniti da un’amicizia altalenante e da una donna che si innamora a turno di ciascuno di loro30.
C’è certamente The Curious Case of Benjamin Button di David Fincher (2009), che riprende liberamente l’omonimo racconto di Francis Scott Fitzgerald. La trama è molto nota: nell’invecchiamento alla rovescia di Benjamin, nella maledizione di ringiovanire fino a morire da neonato, cogliamo benissimo le conseguenze del tempo, mediate da effetti speciali premiati con un Academy Award, che in modo contrastivo ed efficace si palesano in tutta la loro evidenza nel rapporto Benjamin-Daisy, il primo che ringiovanisce e la seconda che invecchia. Il tempo, per Benjamin, scorre al contrario, come l’orologio della stazione costruito da un orologiaio cieco che per protesta contro i potenti e la società civile realizza il meccanismo in modo che vada a ritroso, ma il tempo della vita, degli enti e dell’universo, quello scorre ugualmente anche per lui. Si può vivere pure all’inverso, ma non si può sfuggire al richiamo della morte, sintetizzato dalla tagline del film Nothing lasts, niente dura.
Merita una diversa considerazione un laboratorio artistico nel senso che indaghiamo raffinatissimo. Parliamo della produzione di Richard Linklater, di cui la lungimiranza, la serietà e la dedizione artistica sono dal nostro punto di vista encomiabili. Il regista statunitense si era cimentato in questo progetto, per certi versi simile a quello di Scola, già negli anni Novanta, con la trilogia iniziata con Before Sunrise e proseguita e conclusasi con Before Sunset e Before Midnight. Al di là di cosa avviene nei film e della loro trama, nella fattispecie la relazione quasi ventennale (dal 1995 al 2013) tra Jessie e Céline, è l’impianto a essere ragguardevole e profondo. Diversamente dal film di Scola, in questa trilogia sono gli attori a invecchiare naturalmente e a riprendere i panni dei personaggi che avevano lasciato nel film precedente, con un risultato, anche in questo caso, di finissima commozione, anche soltanto per il semplice scorrere del tempo che il cinema, con questo accorgimento sostanziale, rende sensibile. Così come degno di lode è l’altro progetto temporale di Linklater, Boyhood, un film costruito per rendere comprensibile l’adolescenza di un bambino-ragazzo, dai primi anni di vita fino al college. Ogni anno tutti gli attori si ritrovavano sul set per aggiungere una scena alla crescita, al tempo esistenziale del protagonista Mason.
Come con Proust, Yourcenar, Velázquez e Wilde, capiamo che il tempo è nei corpi, anzi, che il tempo è i corpi, la materia di cui sono fatti. E questo film lo mostra e dimostra. In 12 anni di lavorazione vengono ripercorse le principali tappe esistenziali di Mason e della sua famiglia: l’adolescenza di un bambino del Texas con molte difficoltà in famiglia, con gli amici, nella burrascosa bonaccia della crescita. Il montaggio delle riprese mostra in modo accelerato e sensibile il tempo che passa, che è insieme maturazione e invecchiamento. I genitori divorziati, i due mariti alcolisti e maneschi della madre, i numerosi traslochi, le prime cotte, i primi baci, le prime bevute e fumate, la prima ragazza, l’angoscia per il futuro e su ciò che si vuole diventare, tutto raccolto in poco meno di tre ore, nell’emozione del tempo che si condensa nel pianto finale di Olivia, la quale si vede sola dopo tanti anni in un appartamento svuotato dai figli in partenza per il college. Dice che avrebbe voluto avere più tempo, che le tappe fondamentali della sua vita si sono susseguite troppo rapidamente, i bambini, la laurea, il divorzio, i figli divenuti grandi che ora vanno via da casa. È straordinario che un film durato ore ma lungo più di un decennio si concluda con Mason e Nicole, una ragazza conosciuta appena arrivato nel dormitorio, che discutono dell’attimo. Tra i due c’è già sintonia. Lei dice che non siamo noi a cogliere l’attimo bensì il contrario, che è l’attimo a cogliere noi. Il tempo è infatti anche questo, vedere la vita in un attimo e in quello stesso attimo, tra i tanti che Mason fotografa con la sua macchina, scorgere la pienezza di ciò che è passato, il tempo che siamo diventati, la grazia che abbiamo vissuto.
Note
1 M. Luzi, «Nell’imminenza dei quarant’anni», in Le poesie, Garzanti, Milano 2020, vv. 21-26, p. 239.
2 M. Proust, «Le Temps retrouvé», in À la recherche du temps perdu, édition publiée sous la direction de J.-Y. Tadié [1987-89], coll. «Quarto», Gallimard, Paris 2019, p. 2307. La riflessione di Proust sull’invecchiamento è centrale dal punto di vista filosofico ma la lasceremo sullo sfondo poiché affrontata più nel dettaglio in un altro mio lavoro, a cui mi permetto di rimandare: E. Palma, «L’invecchiamento come emozione del tempo nella Recherche di Marcel Proust», in Siculorum Gymnasium. A Journal for the Humanities, LXXII, V, 2019, pp. 313-330.
3 Cfr. ad esempio C. Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, Milano 2017.
4 Cfr. L. Smolin, La rinascita del tempo. Dalla crisi della fisica al futuro dell’universo [Time reborn. From the crisis of physics to the future of the universe, 2013], trad. di S. Frediani, Einaudi, Torino 2014, p. X.
5 Tito Lucrezio Caro, La natura, trad. di F. Giancotti, Garzanti, Milano 2012, V, vv. 311-312, p. 277.
6 Mi riferisco al giudizio espresso da I. Calvino in «Occhi al cielo» [1967], in Una pietra sopra, Mondadori, Milano 2023, p. 223.
7 G. Galilei, Dialogo dei Massimi Sistemi, a cura di F. Flora, Mondadori, Milano 2016, p. 55.
8 Cfr. G. Tonelli, Materia. La magnifica illusione, Feltrinelli, Milano 2023, pp. 178-179.
9 M. Heidegger, Sein und Zeit, in Gesamtausgabe. Band 2, hrsg. von F.-W. von Herrmann, Vittorio Klostermann, Frankfurt a. M., 1977, § 73, pp. 378-379. «Ciò che ha una storia sta in relazione con un divenire. L’evoluzione è ora un’ascesa, ora una rovina» [T.d.A.]. Per una considerazione heideggeriana riferita al tempio come opera d’arte che rimanda a un’altra epoca e a un mondo passato cfr. Id., «L’origine dell’opera d’arte», in Sentieri interrotti [Holzwege, 1950], a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 27-28.
10 M. Yourcenar, Il tempo, grande scultore [Le Temps, ce grand sculpteur, 1983], trad. di G. Guglielmi, Einaudi, Torino 1994 p. 51. Per una riflessione, anche di contestazione, sul testo di Yourcenar, cfr. l’arguto saggio di M. Centanni, Il tempo (non è) un grande scultore, in «La rivista di Engramma», 180, marzo-aprile 2021, pp. 230-251. Al di là dell’acume e della profondità dello scritto, la chiusa di Centanni è condivisibile: «Senza l’artista, senza il poeta, al Tempo stesso mancherebbero immagini, nomi divini, e a noi mancherebbero i modi di dirlo e di rappresentarlo. Un grande artista, Lisippo, ha inventato il nome divino e l’immagine stessa di Kairos. È l’artista che inventa il tempo. E noi forse, senza l’opera d’arte, del tempo non sapremmo nulla», ivi, p. 249.
11 M. Yourcenar, Il tempo, grande scultore, cit., pp. 51-52.
12 Ivi, p. 52.
13 Ivi, p. 55.
14 Ivi, pp. 18-19.
15 W. Szymborska, «Statua greca», in La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945- 2009), trad. di P. Marchesani, Adelphi, Milano 2009, vv. 1-2 e 25-27, p. 675.
16 W. Benjamin, Origine del dramma barocco tedesco [Ursprung des deutschen Trauerspiels, 1928], a cura di A. Barale, Carocci, Roma 2018, p. 135.
17 Cfr. A. Musi, Filippo IV. El rey Planeta imperatore malinconico di due mondi tra sfarzo e declino, Salerno Editrice, Roma 2021, p. 7. Su Filippo e Velázquez si vedano le pp. 100, 159, 241 dello stesso volume.
18 Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane [Les Mots et les Choses. Une archéologie des sciences humaines, 1966], trad. di E. Panaitescu, Rizzoli, Milano 2013, pp. 17-30.
19 C. Justi, Velázquez e il suo tempo [Velázquez und sein Jahrhundert, 1888], trad. di M. Bacci, Sansoni, Firenze 1958, p. 775.
20 Su Las meninas cfr. T. Montanari, Il Barocco, Einaudi, Torino 2012 e Id., Velázquez e il ritratto barocco, Einaudi, Torino 2018. Ricaviamo questa interpretazione dalla terza puntata del ciclo di documentari, dal notevole valore sia scientifico che divulgativo, Velázquez. L’ombra della vita intitolata «Mucha alma en carne viva» (https://www.raiplay.it/video/2019/02/Velazquez—Lombra-della-vita—E3- ce51d8ef-6911-41f7-9a2d-0dbf2e59deab.html, dal minuto 39 al minuto 60).
21 C. Justi, Velázquez e il suo tempo, cit., p. 202.
22 Ivi, p. 208.
23 E anche nel senso in cui viene argomentato in A.G. Biuso, Temporalità e Differenza, Leo S. Olschki Editore, Firenze 2013.
24 Cfr. O. Wilde, Il ritratto di Dorian Gray [The Picture of Dorian Gray, 1890], a cura di B. Bini, Feltrinelli, Milano 2006, p. 37.
25 Ivi, p. 34.
26 Ivi, p. 35.
27 Ivi, p. 236. Il corsivo è mio.
28 Ivi, p. 237.
29 Mi riferisco ovviamente a G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2 [Cinéma 2. L’Image-temps, 1985], trad. di L. Rampello, Einaudi, Torino 2017.
30 Cambia interpretazione la rielaborazione di Gabriele Muccino del 2020 dal titolo Gli anni più belli, una rievocazione del tempo passato la cui bellezza è data dalla nostalgia e dalla soddisfazione delle poche promesse per il futuro che ci si era fatti tra i protagonisti.
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