I venditori di una dolce polvere. Repubblica delle Lettere e potere politico in uno scritto di Leibniz
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Gli scritti di Leibniz includono migliaia di pagine di opere, opuscoli, frammenti, lettere, note personali. Prendere un singolo passo comporta sempre il rischio di immobilizzare un pensiero in movimento, traendone conseguenze unilaterali. Pur consapevole di questo rischio, in queste pagine discuterò un frammento brevissimo, un tentativo di allegoria schizzato nel 1675. Il suo obiettivo è reso palese dalla data: in questo periodo il ventinovenne Leibniz era a Parigi – dove stava creando il calcolo infinitesimale – e sperava di attirare su di sé l’attenzione della corte di Luigi XIV per restare a Parigi come membro stipendiato dell’Académie des Sciences. Vi sono due ragioni per discutere questo breve passo. La prima è di natura edonistica: il frammento è divertente e propone immagini inconsuete, difficili da decifrare. La seconda è che il protagonista di esso è la “Repubblica delle Lettere”, una rappresentazione del mondo dei dotti che nasce in età umanistica e che all’epoca di Leibniz era largamente diffusa1. Leibniz prende alla lettera la metafora della “repubblica” e ne fa la base della propria allegoria (come egli ben sa, un’allegoria non è se non una “metafora continuata”) che discute dei rapporti tra intellettuali e potere:
La Repubblica delle Lettere è una colonia dell’altro mondo [L’America] che un avventuriero greco di nome Pitagora vi ha condotto dal nostro. Proprio lui ha iniziato a disboscare una parte del paese e a piantarvi una certa droga che Mercurio gli aveva mostrato, che noi chiamiamo “gloria”. Questa droga somiglia al tabacco perché nutre di fumo, ma ha la dolcezza dello zucchero quando è presa in polvere. Ecco perché questa colonia prese presto il sopravvento su tutte le piantagioni dell’America e, poiché l’Europa ci aveva preso gusto, si stabilì un grande commercio tra questo paese e il nostro. Ma, in seguito, il commercio venne turbato dai selvaggi che provenivano dalla terra ferma dell’Ignoranza e da quella della Miseria, che sorpresero gli abitanti e ne distrussero le case. Questa guerra impedisce alla colonia di sussistere autonomamente e siamo costretti a inviarle degli aiuti che si chiamano “finanziamenti” [pensions, elargizioni di stipendi]. Il che non avviene sempre con la più stretta regolarità perché le merci che si ricevono in cambio sono spesso guaste, oltre al fatto che ne arrivano una quantità troppo grande per il cattivo costume degli abitanti della colonia, che danno indifferentemente delle lodi a tutti, come testimoniano le loro dediche, così che si ha ormai disprezzo per la gloria che arriva da quel canale. La fonte del male è la necessità in cui si trovano gli abitanti, costretti a dare la loro merce troppo a buon mercato, il che fa sì che i magazzini d’Europa ne siano pieni, che essa abbia perduto la sua prima reputazione e che si corrompa a causa del debito. Nondimeno, non vi è nulla di così nobile come il succo che si trae da questa droga, posto che se ne sappia la preparazione. Si tratta del vero nettare degli dèi ed è il liquore dell’immortalità che Apollo ha fatto bere ad Augusto attraverso il ministero di Virgilio e Pallade ha fatto bere ad Alessandro per mezzo di quello di Aristotele. Un grande principe dei nostri tempi, avvertito da uno dei suoi ministri, che aveva l’ispezione di questo commercio, del disordine e dei guasti che derivavano dalla profanazione di questo dono celeste dell’immortalità, ha deciso di rimediarvi. Egli ha ben giudicato che la vera gloria non è dovuta se non agli Eroi, che essi soltanto vivranno sempre, perché essi fanno vivere gli altri felicemente e animano il loro secolo. Questa è la sola ricompensa che il mondo possa donare per le loro fatiche. Ma non bisogna ingannarli ed è loro interesse che i loro ritratti siano fatti in bronzo e non in cera…2.
Qui il frammento si interrompe. Vi sono molti aspetti peculiari in questo abbozzo di allegoria. Esso fa parte di una serie di testi che l’Akademie-Ausgabe delle opere di Leibniz intitola Pensées pour faire une Relation de l’Estat present de la République des Lettres, in cui ricorre l’artificio di fare della “Repubblica delle Lettere” un paese posto in una parte remota del mondo, seguendo l’esempio della letteratura utopica. Anche nel lascito successivo si trovano frammenti non sviluppati di «storia, geografia, topografia, eroi, opere, commerci, patti, guerre» della Repubblica delle Lettere3.
In nessuno degli altri frammenti, tuttavia, viene introdotta l’idea che la Repubblica produca una merce da vendere, la gloria. Si può però spiegare questo sviluppo in base al presumibile destinatario dello scritto, Colbert. A quel tempo ministro delle colonie e però anche creatore dell’Académie des Sciences, Colbert era un minuzioso regolamentatore dei prezzi e della qualità delle merci, l’incarnazione vivente della dottrina economica mercantilistica. Si spiega così l’assimilazione della Repubblica delle lettere a una colonia, l’immagine della gloria come una di quelle “droghe” che le colonie solitamente vendevano (tabacco, zucchero), nonché infine l’assimilazione delle accademie a monopoli mercantili.
Interpretata in questo senso, l’allegoria leibniziana assume un significato più preciso. Essa descrive un passaggio di fase allora in corso: il passaggio da un rapporto intellettuali/potere fondato sul mecenatismo a uno fondato sull’organizzazione di comunità di ricerca finanziate dallo Stato (e oggi anche da altri poteri). Leibniz è evidentemente favorevole a questo passaggio e il suo favore non è occasionale. Nella maturità egli userà la sua influenza per replicare il modello francese in altri paesi, dalla Prussia all’Austria alla Russia di Pietro il Grande. Ma perché tanto favore per questa evoluzione del patronage? Per capirlo, dobbiamo guardare i due lati della relazione stabilita da Leibniz, cioè il suo significato rispetto al potere politico e rispetto al mondo intellettuale.
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Nel primo dei frammenti messi insieme dall’Akademie-Ausgabe, Leibniz immagina di rivolgersi direttamente a Luigi XIV e scrive: «Volendo dedicarlo al Re, si potrebbe cominciare così: Sire, presento a Vostra Maestà la relazione su un paese nel quale Ella vivrà per sempre. Sono i Campi Elisi degli Eroi e occorre passarvi per avere commercio con la posterità»4. Leibniz sapeva che la Gloire era il perno dell’ideologia della monarchia francese e il desiderio più bruciante di Luigi XIV. Ma egli non scrive al re di Francia semplicemente per solleticarne le ambizioni, ma anche per insegnargli a ricercare la vera gloria.
Leibniz aveva una sua filosofia della “gloria”, nata in opposizione a quella che egli aveva trovato nel De Cive di Hobbes5. Gli scritti della prima gioventù tornano frequentemente sul tema e tentano di fare della “gloria” un desiderio che può portare a nobili azioni per il benessere collettivo. Le menti degli esseri pensanti (Dio compreso) sarebbero tutte desiderose di essere rispecchiate nel loro valore e nella loro armonia interna dall’armonia con altre menti. La gloria sarebbe dunque una moltiplicazione del proprio Sé in altre menti e occorre che queste menti siano specchi autonomi, dotati di una propria luce6. Solo chi fa qualcosa che altri riconoscano spontaneamente come buono gode di una gloria autentica.
Questa moralizzazione della passione della gloria è implicita in molti scritti che Leibniz rivolge alla corte francese. Leibniz infatti era arrivato a Parigi già nel 1672, incaricato dall’Elettore di Magonza (di cui era allora impiegato) del compito di convincere Luigi XIV a rinunciare alle guerre in Europa e a attaccare piuttosto l’Impero ottomano e a sottrargli l’Egitto. La missione fallì e Leibniz, come abbiamo visto, rimase a Parigi per coltivare le matematiche, ma in crescente povertà. Ora, se guardiamo gli scritti del 1672-73, troviamo spesso allusioni al tema della gloria, non privi di venature polemiche: «Una gloria integra non può essere ottenuta se non usando il proprio potere per il benessere degli altri. Colui che si rende rinomato attraverso il crimine e il massacro è ritenuto potente ma non saggio»7. Leibniz imparò a sue spese che queste osservazioni non erano gradite. Solo ritornato in Germania e diventato un potente uomo di corte a Hannover, egli scriverà a suo piacimento ciò che pensava del modo in cui Luigi XIV interpretava la Gloire.
Il frammento del 1675 non torna sul tema. Esso si limita a descrivere la Repubblica delle Lettere come la comunità che cura quell’insieme di iscrizioni, monumenti, documenti e prodotti letterari che garantiscono la memoria del passato, e quindi possono dare l’immortalità terrena. Questa è una convinzione costante di Leibniz il quale anche altrove scrive: «Unicum instrumentum immortalitatis, literae»8. Più che un ceto di persone colte, la Repubblica delle Lettere gli appariva come un processo cooperativo di produzione di un continuum artificiale, ovvero di una tela che consente alle idee e alle azioni umane di superare le distanze di spazio e di tempo. Si capisce quindi che egli suggerisca a Luigi XIV di coltivare buoni rapporti con questa comunità (magari con una ulteriore pension attribuita a Leibniz stesso), additandogli i modelli classici di Augusto che protegge Virgilio e Alessandro che segue il maestro Aristotele. Nel primo caso siamo ancora nella logica del mecenatismo, nel secondo però vi è già un implicito suggerimento. Da una comunità di dotti istituzionalizzata il sovrano potrà anche trarre conoscenze utili su che cosa veramente potrebbe renderlo glorioso e su come perseguire «l’interesse dello Stato» 9. Questo tema emerge ancora alla fine del frammento (con la contrapposizione tra le statue in bronzo e in cera) e però, probabilmente, ne determina l’interruzione dal momento che Leibniz era senz’altro memore di come erano stati accolti i suoi consigli precedenti. Ciononostante, per tutta la sua vita, il filosofo continuerà a desiderare che le due “Repubbliche” – quella dei dotti e quella statale – pur essendosi separate e dovendo per forza interagire con lo scambio – riescano a ricostruire in modo mediato l’originaria unità di potenza e saggezza che egli, da buon platonico, immagina realizzata dai re fondatori delle prime civiltà10.
Dunque, non si tratta semplicemente di proteggere o finanziare i dotti e gli artisti. Occorre per Leibniz modificare il rapportotra dotti e potere politico, tra la “colonia” e la madrepatria, perché questa modifica è funzionale per creare una forma razionale di “gloria” politica. Ma, se questo è l’aspetto politico presente nel discorso leibniziano, dobbiamo anche chiederci se la diagnosi che Leibniz fa sulla République des Lettres e sui suoi mali sia un pretesto o egli ci credesse veramente.
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All’epoca in cui Leibniz scrive, la “République des lettres” non era già più la comunità di eruditi umanisti che era stata ai suoi inizi, le scienze matematiche e sperimentali erano diventate una parte eminente e sempre più riconosciuta di essa. Leibniz ne è consapevole (perché altrimenti avrebbe attribuito a Pitagora il ruolo di fondatore?) e ne trae la conseguenza che la vecchia Repubblica delle lettere vada rifondata come un insieme di società scientifiche ben organizzate. Di conseguenza egli identifica un nuovo rapporto di patronage atto a fornire mezzi di sussistenza e strutture organizzative a questo nuovo tipo di comunità scientifica.
Un aspetto originale della speculazione leibniziana sul tema sta nel fatto che in essa non troviamo alcuna contrapposizione tra le nuove scienze fisico-matematiche e i vecchi saperi “eruditi”. La descrizione leibniziana della “Repubblica delle Lettere” presuppone un’unità di fondo di tutte le forme di cultura nate dalla scrittura. In evidente polemica con Cartesio, Leibniz ribadirà sempre che la “Repubblica delle Lettere” comprende non solo le scienze fisico-matematiche, ma la filologia, la storia, perfino la retorica e la poetica11. I suoi progetti enciclopedici non escludono nulla di ciò che l’uomo ha creato con la scrittura. Eppure egli è evidentemente convinto che tutti i campi del sapere dovrebbero avere processi di rigorizzazione, di costruzione di epistemologie e di criteri procedurali adatti a salvarli da un pericolo che è connesso alla stessa espansione della comunità dei letterati, quello dell’inflazione di comunicazione.
Il frammento del 1675 adombra questo pericolo parlando dell’eccesso di “merci guaste” contenute nei magazzini europei. Il Leibniz di Hannover vi torna scrivendo di una «orribile massa di libri che va sempre aumentando…», generando il pericolo di «un oblio generale» nel quale «la speranza di gloria che anima tanta gente nella fatica degli studi cesserà di un colpo»12. L’inflazione della comunicazione non è dunque un problema solo nella relazione tra la Repubblica delle Lettere e il mondo esterno, è anche un problema interno alla Repubblica delle Lettere, perché i suoi membri sono anch’essi desiderosi di gloria e rischiano di riceverne meno di quanto meritano. Vi è il rischio che non si sappia più a che cosa fare attenzione. Per questa ragione, è necessario costruire le infrastrutture che consentano un’espansione ordinata della “Repubblica”. Nel periodo di Hannover, le modalità di questo processo vengono stabilite con maggiore precisione e incarnate nel binomio Enciclopedia/Caratteristica. La Repubblica delle Lettere ha bisogno di una Encyclopaedia, cioè di una mappa del suo territorio che ne individui le aree di possibile espansione. Essa ha poi soprattutto bisogno di una lingua nazionale, la costituenda lingua simbolica o “Caratteristica Universale” modellata sull’algebra. Questa lingua non servirà soltanto a trasmettere in modo economico informazioni, ma fornirà un “filo di Arianna” che aiuti a percorrere il “labirinto delle lettere”. che aiuti cioé a mettere in forma logica le teorie e confrontarle, così che – l’immagine è celebre – una disputa filosofica possa essere condotta sedendosi insieme a fare calcoli (“calculemus!”)13. Ancora, la ristrutturazione del sapere secondo il modello matematico della Caratteristica avrà anche l’effetto di moderare il desiderio di gloria dei dotti, i quali dovranno tutti condividere lo spartano costume dei matematici di dare il proprio nome a un teorema e non a una setta o a una scuola: «e se questa gloria sarà più moderata, sarà anche più giusta e più durevole»14.
Ciò che Leibniz vagheggia è dunque una seconda rivoluzione della scrittura che aiuti a gestire i problemi creati dalla prima, rendendo facile manipolare una massa crescente di dati, collegarli, stabilirne l’utilità. Il rango elevato preso dalle discipline fisico-matematiche è solo una manifestazione di quest’esigenza più generale, che è quella che porta Leibniz a chiedere ai sovrani di intervenire e ristrutturare.
In quest’atteggiamento si può notare un qualcosa che ricorda il Lutero (Leibniz è più luterano di quanto egli stesso non sappia di essere) che chiede ai princìpi di salvare la Chiesa dalla sua stessa corruzione. Proprio in base a quest’analogia, si può cogliere il problema di fondo che il discorso leibniziano non tocca. Da un lato, il filosofo cerca dei dispositivi, delle procedure epistemiche e istituzionali che permettano di selezionare, di semplificare, ma anche di “valutare”, per introdurre una parola di moda. E senza dubbio egli è anche consapevole che l’utilità per il committente esterno diverrà un principio di selezione e valutazione. Nei suoi progetti di accademie egli sarà sempre attento a spiegare l’utilità che le ricerche scientifiche possono arrecare (al genere umano in primo luogo, ma indubbiamente anche allo Stato al cui rafforzamento debbono contribuire). D’altra parte, egli continua a credere che una simile “riforma” della Repubblica delle Lettere ne lasci intatte le finalità originarie e semplicemente crei più occasioni, più possibilità, maggiore accesso ad essa anche per i ceti che ne erano rimasti esclusi15.
Ed è qui ovviamente che possiamo chiederci se egli non sia stato miope, non sia stato in grado di cogliere la pericolosità di un processo di messa-a-servizio del sapere celato dietro parole d’ordine di funzionalità e perfino rigore logico ed epistemologico. Egli era evidentemente convinto che la rigorizzazione e la proceduralizzazione delle pratiche scientifiche non avrebbero cambiato la finalità di cercare la verità ut sic, né il modo in cui viene concepita la verità. L’istituzionalizzazione, insomma, pur accontentando certamente gli interessi dei patron, non ne avrebbe mai interiorizzato il punto di vista. E qui dobbiamo chiederci se questa convinzione, che è evidentemente ancora quella assunta da coloro che dirigono o partecipano delle istituzioni scientifiche, sia veritiera o illusoria16.
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Mentre è chiaro come Leibniz immagini il rapporto tra sapere e potere, meno chiaro è come egli concepisca la politica interna alla Repubblica delle Lettere. Evidentemente, se si tratta di una “Repubblica”, lo è perché i dotti hanno tra loro rapporti di riconoscimento. Leibniz lo sa e ne fa – lo abbiamo visto – anche un problema da regolare, ma egli non vede la storicità di questo rapporto e dunque non vede che il dato che egli considera ovvio – i dotti desiderano in primo luogo il riconoscimento di altri dotti e perseguiranno innanzitutto la verità – possa essere contingente.
La “Repubblica delle Lettere” non fu solo il tentativo di creare attraverso le “lettere” – intese anche nel senso strettamente epistolare della parola, cioè come rete di carteggi17 – una comunità che superasse le distanze spaziali18. Essa fu anche un tentativo di mettere tra parentesi differenze confessionali e sociali che iniziavano a essere sentite come opprimenti. Essa era fatta di eruditi che continuavano a scambiarsi notizie su campi “neutri” pur essendo divisi dalla confessione, dalla nazionalità, perfino dalle convinzioni teoriche. È in questo contesto che preferire la stima di un altro dotto piuttosto che del vicino di casa (o del prete o del signore) assume un significato etico e politico più preciso.
Tutto ciò Leibniz lo vive ma lo tematizza solo episodicamente. Dobbiamo guardare alle sue lettere con altri dotti per trovare osservazioni su come si possa essere buoni cittadini della Repubblica, quali siano i lavori “gloriosi” da compiere, come si possano condurre polemiche e controversie senza usare «aculei» e «strumenti di offesa»19. Non si tratta di semplici regole di cortesia, ma di una sorta di ethos minimale finalizzato a rendere possibile la discussione tra persone separate da molte altre cose. Né è pura retorica il fatto che il Leibniz di Hannover – ormai assurto a politico e diplomatico di rango – confessi alla fine di trovarsi più a suo agio negli “affari della Repubblica delle Lettere” che in quelli ben più “ripugnanti” (rebutantes) della politica propriamente detta20.
La capacità della “République des Lettres” proto-moderna di prefigurare rapporti più inclusivi di amicalità è stata notata da molti studiosi ed è uno dei punti cruciali della riflessione storiografica sul tema21. Per dir così, la Repubblica delle Lettere conteneva i germi di due diverse istituzioni della modernità: da un lato la “comunità scientifica”, ma anche l’”opinione pubblica” intesa come cittadinanza che discute e si confronta sui grandi temi. Possiamo vedere emergere i rudimenti di quest’ultima allorché alle lettere e ai libri si affiancano le riviste, le quali esportano a un pubblico più ampio temi fino ad allora discussi all’interno della “colonia dell’altro mondo”, le Nouvelles de la République des lettres, per ricordare il titolo di una celebre rivista di Pierre Bayle.
Ma proprio la differenziazione tra queste sfere, pur permettendone l’espansione e la stabilizzazione, le ha rese permeabili a rischi di assoggettamento forse presenti fin dalla loro costituzione, ma che avevano trovato degli anticorpi proprio nel fatto che le esse non fossero ben distinte. La “comunità scientifica” contemporanea continua a considerarsi portatrice di valori di pubblicità, controllo collettivo, rivedibilità di teorie e risultati. Ma, in assenza di quell’ethos concreto di superamento delle barriere che fu tipico della “République des Lettres”, questi valori diventano astrazioni, al più gli equivalenti funzionali delle regole di competizione e concorrenza sussistenti tra aziende rivali, mentre l’agenda di che cosa sia importante sapere (e perché lo sia) sembra sfuggire sempre più dalle mani dei membri della comunità stessa. Quanto all’opinione pubblica, essa si è inesorabilmente trasformata in sfera della comunicazione massmediatica vissuta e praticata come intrattenimento, campo “debole” di opinioni vissute come forme di espressività soggettiva rispetto al campo “forte” delle scienze.
Ed ecco perché rileggere oggi la favola allegorica composta da Leibniz nel 1675 ha un effetto inquietante. Essa ci offre il quadro di un’ambivalenza originaria aperta anche a esiti nefasti. Pitagora, il fondatore delle scienze, è descritto come un “avventuriero” vagabondo a cui Mercurio (Hermes, il dio dei commerci e degli imbrogli) fa scoprire qualcosa che si può vendere e che è al tempo stesso una droga e un balsamo salvifico a seconda di come la si prende (la si può fumare, masticare, distillare…). Le “lettere” sono un’invenzione nata per la conoscenza, ma che produce anche relazioni sociali e forme di identificazione, così che chi le pratica ha un potere ma un potere soggetto a essere risucchiato in altri poteri. Si tratta di un’ambivalenza strutturale.
Ma, proprio per questo motivo, ambivalente è anche l’effetto che la favola leibniziana fa sul lettore di oggi. Essa ha il fine di provare che la “colonia” di Pitagora realizzerebbe meglio il proprio destino legandosi di più alla madrepatria (era impensabile allora che le colonie aspirassero all’indipendenza). Leggendola oggi, viene il desiderio inverso di capire come recuperare quell’originaria natura nomade che Leibniz assume ma non discute22. La favola inneggia alla regolamentazione dei rapporti tra sapere e potere, ma ispira semmai il desiderio di ripetere quell’esperienza di superamento di confini che fu il grano di vitalità della Repubblica delle Lettere proto-moderna e che oggi andrebbe ripetuta contro le ripartizioni disciplinari e le ortodossie epistemologiche. La favola caldeggia parametri ben fissati di valutazione dei prodotti dei dotti, ma ci spiega anche che tale valutazione non è che un calcolo di quanto potere sociale (“gloria”) vi è incorporato, il che mette in discussione che si possa cogliere così ciò che vi è di significativo in essi.
Su quest’ultimo punto, d’altronde, lo stesso Leibniz era infedele ai criteri che proponeva. Nella stessa serie di scritti privati del 1675 in cui troviamo la favola allegorica su cui ci siamo intrattenuti, troviamo anche questa cursoria osservazione sul dibattito che si era aperto in Francia dopo la comparsa del De la recherche de la verité di Malebranche: «Sulle idee si fanno grandi costruzioni (batimens) che saranno un giorno rovesciate». E dopo quest’osservazione apparentemente distruttiva, egli aggiunge imprevedibilmente: «Ma resterà qualcosa di solido e di ammirevole»23. “Ammirevole” ovviamente è un altro concetto legato a quello di “gloria”.
Note
1 Sulla storia della “Repubblica delle Lettere”, mi limito a rinviare a P. Dibon, Regards sur la Hollande du siècle d’or, Napoli, Vivarium 1990 (pp. 3-30, 31-78, 153-170); Hans Bos – Françoise Waquet, La République des Lettres, Belin – De Boeck, Paris, 1997. Bos e Waquet datano la comparsa del lemma al 1417, nel carteggio tra Francesco Barbaro e Poggio Braccolini (p. 12).
2 Citerò l’edizione Akademie-Ausgabe delle opere leibniziane con la sigla A seguita dal numero di serie, di volume e di pagina. Il testo che qui traduco si trova in A IV [Politische Schriften] 1, p. 569. Il sito dell’edizione riporta, oltre all’elenco dei volumi usciti, anche la copia informatica dei più recenti. Cfr. leibnizedition.de.
3 Per esempio, il De Republica literaria, abbozzo in latino del 1681 ora in A VI [Philosophische Schriften] 4 A, p. 428. In nota, Leibniz ricorda una «petit satyre de la republique des lettres» letta a Parigi e finora non identificata, che potrebbe avergli ispirato questo schema allegorico.
4 A, IV 1, p. 569.
5 «Animi autem voluptas omnis vel gloria est, sive bene opinari de se ipso, vel ad gloriam ultimo refertur» (Thomas Hobbes, De Cive, I, 2). Leibniz conosce questo passo e lo cita nella Dissertatio de Arte Combinatoria del 1666 (A, VI 1, p. 206).
6 «Gloria […] id est opinio aliorum de sapientia et potentia sua, quae imaginem eius speculi instar multiplicatam in eos reflectit» (A, IV 1, pp. 247-248). Ma il tema compare già negli scritti sul diritto naturale composti tra il 1670 e il 1671 (A VI 1, pp. 438, 464).
7 «Gloriam autem integram nemo acquirere potest, nisi potentia sua in bonum aliorum conversa. Nam qui solis sceleribus et stragibus inclarescat, potens quidem sed non sapiens habebitur». (A, 4, 1, p. 248). Tornato in Germania, Leibniz dedicherà a Luigi XIV l’opuscolo satirico Mars Christianissimus del 1683, pubblicato in latino e francese (A IV, 2, pp. 447 e sgg.).
8 Consilium de Literis instaurandis condendaque Encyclopaedia (1679): A IV 3, p. 790.
9 Come si calcoli l’interesse pubblico è un altro tema degli scritti del 1672-73. Cfr. A IV 1, 242 e sgg.
10 «Immortalis est et velut sacra, memoria Regum sapientum, quibus aliquid genus humanum debet, ut
Zoroastris et Atlantis et Osiridis, et Hermetis, et Cadmi, qui artes, agriculturam, coeli contemplationem, literas, inter primos mortalium inventis coluere» (A, 4, 1, p. 248).
11 «Verum qui de Statu literarum scribere volet, ille non tantum de philosophia, et natura, et mathematicis mechanicisque disciplinis, sed et de Historia et antiquitate, et eloquentia, et poesi dicere debet» (De Republica Literaria: A, VI 4 A, p. 428-29).
12 A VI 4 A, p. 698: «cette horrible masse de livres, qui va tousjours augmentant […] la multitude des auteurs qui deviendra infinie en peu des temps, les exposera tous ensemble au danger d’un oubly general, l’esperance de la gloire qui anime bien des gens dans le travail des estudes cessera tout d’un coup; il sera peutestre aussi honteux d’estre auteur qu’il estoit honnorable autresfois» Cfr. anche A IV 3, pp. 789 – 793; A VI 4 A, pp. 682-738.
13 «Quo facto quando orientur controversiae, non magis disputatione opus erit inter duos philosophos, quam inter duos Computistas. Sufficiet enim calamos in manus sumere sedereque ad abacos, et sibi mutuo (accito si placet amico) dicere: calculemus» (De Arte Characteristica ad Perficiendas Scientias Ratione Nitentes, 1688 – 9, A VI 4 A, p. 913).
14 È un tema ricorrente. Cfr: A VI 4 A, p. 455; A VI 4 A, 971 e sgg.
15 Trascuro qui i testi leibniziani su come si potrebbe divulgare la scienza. Il testo più originale in proposito è il progetto di una città-spettacolo che rappresenti i progressi tecnici e scientifici, composto sempre nel 1675 e dal titolo Drôle de pensée (A IV 1, pp. 562-8). Rinvio all’edizione completamente rivista del testo proposta da Enrico Pasini in www.znort.it/suiseth/drole/gwl1.html
16 Rinvio su questo punto alla penetrante analisi di come i rapporti di patronage condizionino la scienza moderna fin da Bacone condotta da Ermenegildo Caccese, Nell’ombra della “Casa di Salomone”. Riflessioni sull’origine della scienza moderna, tra utopia e volontà di potenza, in Veronica Petito – Antonio Trupiano, Il seme dell’utopia, Orthotes Editrice, Napoli-Salerno 2022, pp. 199-252.
17 Sulle “lettere” intese come contatti epistolari e il loro ruolo, cfr. Berkvens-Stevelinck, Bots, Häseler (a cura di), Les grands intermédiaires culturels de la République des Lettres. Ėtudes de réseaux de correspondances de XVIe au XVIIIe siècle, Honoré Champion, Paris 2005. Sulla rete di Leibniz: Michael C. Carhart, Leibniz Discovers Asia: Social Networking in the Republic of Letters (Information Cultures), Johns Hopkins UP 2019.
18 Cfr. P. Dibon, Regards sur la Hollande du siècle d’or, cit., p. 159: «It was a strict duty of each citizen of the Respublica literaria to establish, mantain, and encourage communication, primarily by personal correspondence or contact. The Respublica literaria refused to recognize distance as an obstacle».
19 «Utinam in argumento quo nullus magis liberum laxumque est in tota republica literaria, omnes aculei, omnia offendicula, abessent semperque abfuissent» (1694: A, I [Politischer Briefwechsel], 10, p. 604).
20 Cfr. questa lettera a Basnage de Beauval «vous estes le mieux informé du monde des affaires de la Republique des Lettres (qui valent bien quelque fois celles de l’Estat, souvant plus rebutants qu’on ne pense)». Questa lettera non è ancora nell’Akademie-Ausgabe, cfr. G. W. Leibniz, Die philosophischen Schriften, Hrsg. von C. I. Gerhardt, Berlin 1875-1890, vol. III, p. 80.
21 Sul tema si veda “XVIIe Siècle”, 51/4 (1999), in particolare P.-J. Salazar, La société des amis: éléments d’une théorie de l’amitié intellectuelle(pp. 581-592); E. Bury, L’amitié savante, ferment de la République des Lettres (pp. 729-749). Sulle relazioni interconfessionali tra i letterati, cfr. Hubert Jaumann, Die europäische Gelehrtenrepublik im Zeitalter des Konfessionalismus, Harrassowitz, Wiesbaden, 2001; Mordecai Feingold, The Jesuit Science and the Republic of Letters, Cambridge Mass., MIT Press 2003.
22 In un precedente abbozzo (A IV 1, 570), Leibniz aveva fatto di Pitagora un imitatore degli Argonauti che, girando per vari paesi, aveva capito che «il y a une infinité de mondes à decouvrir». Ma la traccia è abbandonata dopo poche righe per passare al frammento sulla «dolce polvere».
23 «On fait des grands batimens sur les Idées, qui se trouveront renversez un jour. Mais il restera quelque chose de solide et d’admirable» (A, IV 1, p. 569).
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