Epistemologia, noesi e libertà

Di: Elvira Gravina
1 Aprile 2023

 

Epistemologia fenomenologica

Uno dei punti più controversi all’interno della riflessione sulla scienza è la sua peculiare tendenza a ergersi a conoscenza universale e oggettiva. È quindi utile cercare di comprendere in che senso vengono utilizzate queste due parole. Se per “universale” si intende l’obiettivo di possedere la completezza totale delle conoscenze, ci si rende subito conto di quanto questa pretesa sia ambiziosa. Come la filosofia socratica ci insegna, si può anelare alla conoscenza soltanto in quanto si è consapevoli di non possederne alcuna. La consapevolezza del limite e delle proprie mancanze è ciò che innesca lo sforzo teoretico e che motiva all’impegno scientifico. Non possedendo alcuna verità, come si farà a riconoscerla, ad essere assolutamente certi che ciò che si sia raggiunto sia vero in maniera assoluta? Queste considerazioni non devono comunque condurci verso lo scetticismo ma servono a centrare meglio la questione sulla scienza senza frenare la possibilità di raggiungere la conoscenza e di percorrere la via della ricerca.
Ma allora come identificare ciò che è propriamente “scienza”? Si potrebbe rispondere che ciò dipende dall’oggetto di tale ricerca e che se si tratta di trovare la vera descrizione della realtà, la giusta spiegazione dei fenomeni naturali, allora si rientra nel campo della scienza. In verità, non sono gli oggetti a definire la scienza e ha ragione Biuso quando scrive che «le scienze hanno certamente a che fare con la veritàe con la realtà ma verità e realtà non costituiscono i loro ambiti specifici poiché il cuore delle scienze è il metodo, sono le procedure, è il come non il che»,¹ e affinché vi sia conoscenza è necessario individuare «un criterio di demarcazione non ‘tra ciò che è vero e ciò che è falso’ ma ‘tra ciò che è scientifico e ciò che non lo è’, intendendo per scientifico un linguaggio, una modalità, una procedura»².
Se è il metodo a essere il discrimine tra scienza e non-scienza, ciò non deve però illuderci che sia necessariamente il metodo galileiano con le sue fasi di osservazione e sperimentazione a esaurire il campo della conoscenza scientifica. E non bisogna sorprendersi di questo poiché il tema della veridicità del dato osservabile e di quello sperimentale resta un punto molto controverso e dibattuto all’interno della filosofia della scienza e dell’epistemologia. Nello specifico, il dibattito tra realisti e anti-realisti vede contrapporsi rispettivamente da una parte coloro che pensano che l’obiettivo delle scienze sia trovare una descrizione veritiera dei fenomeni e dall’altra coloro che affermano che tale descrizione possa sussistere soltanto per tutto ciò che è osservabile. Questi ultimi dimostrano la propria tesi sottolineando che «i dati possono in linea di principio essere spiegati da molte teorie [dunque] ci sarà sempre un numero di teorie in competizione che possono render conto dei dati altrettanto bene»³. All’interno del dibattito epistemologico questa tesi è conosciuta come “argomento della sottodeterminazione”. L’esito fondamentale di tale argomento riguarda la connessione tra i dati, le teorie scientifiche e il confronto tra esse. Infatti, se i dati possono essere letti alla luce anche di “sole” due teorie, questo implica che se si vuole raggiungere una conoscenza “oggettiva”, bisognerà confrontare le due teorie per stabilire quale delle due fornisca la “vera” spiegazione. Ma è davvero così semplice effettuare questa analisi in termini di oggettività? Kuhn risponderebbe di no negando la possibilità che differenti paradigmi scientifici possano comunicare tra loro. Anche qualora si giungesse alla possibilità del confronto fra teorie, come avviene per qualsiasi tipo di selezione e valutazione, sarebbe necessario stabilire il criterio con cui viene determinata la teoria che descrive in maniera più oggettiva i dati. Ebbene, a questo punto bisognerà chiedersi chi ha stabilito la modalità di confronto fra le teorie ma soprattutto il criterio di validità e giudizio delle stesse. Non sono forse gli stessi studiosi a concordare su tale criterio? Non è forse dunque una, seppur “universalmente” condivisa, convenzione?
L’argomento della sottodeterminazione presuppone quindi l’assunto fondamentale secondo cui i dati dipendono e sono inscindibili dalla teoria. Non a caso la natura carica-di-teoria dei dati è tra i concetti fondanti della filosofia di Kuhn. Ma ciò che è più importante rilevare sono le due ulteriori conseguenze di questa argomentazione: la prima, già accennata precedentemente, riguarda l’illusione di poter discernere in maniera oggettiva tra le teorie; difatti, ciò potrebbe accadere soltanto qualora ci si potesse basare su “dati di fatto” che non siano riconducibili a una teoria; mentre la seconda concerne la possibilità stessa di una conoscenza “oggettiva” nonché di una altrettanto oggettiva verità. Se l’oggettività dipende dalla corrispondenza tra teoria e fatti, risulterà vano e illusorio pensare di raggiungerla se gli stessi fatti sono determinati da considerazioni teoriche, se i dati sono impregnati da concetti la cui validità dipende dall’adozione di un paradigma di fondo. Inoltre, anche questi concetti che consentono di formulare i resoconti scientifici presuppongono che vengano accettate determinate teorie. Non bisogna dimenticare che la scienza, come tutti i saperi, oltre all’adozione di un metodo deve servirsi di un linguaggio e il linguaggio con cui si esprimono i rendiconti osservativi e sperimentali è dunque notevolmente teorico. Se sia i dati che i concetti che servono per analizzarli presuppongono delle teorie scientifiche, ciò significa che queste ultime sono «tra di loro incommensurabili. Vale a dire epistemologicamente non confrontabili secondo un criterio di verità ma semmai secondo un criterio di consenso e di efficacia più o meno rilevante all’interno di un contesto dato»4.
È molto interessante osservare come già la fenomenologia fosse giunta a simili tesi facendo riferimento al dato percettivo. Sulla base delle ricerche effettuate della psicologia della Gestalt, è possibile affermare che per “dato” si intende quel messaggio che consiste in stimoli percettivi ma che non giunge mai a noi completamente “puro” ma direttamente “elaborato”. Esso non è mai neutrale, porta sempre con sé un senso al quale la percezione tenta di aprirci. Questo senso, però, è a sua volta sempre aperto e determinabile in quanto a ogni percezione il dato si configura in un certo modo. La nostra esperienza percettiva è sempre carica di conoscenza pregressa, ma soprattutto è sempre olistica e cioè è sempre una percezione dell’intero e mai di un dato isolato dal proprio contesto. Questa tesi è ben presente anche all’interno dell’epistemologia contemporanea ed è conosciuta come “mito del dato”.
In tal senso il passo compiuto dalla fenomenologia è decisivo: la non-neutralità del dato non ci deve condurre a psicologismi o storicismi (contro i quali Husserl elabora una forte critica ne La filosofia come scienza rigorosa), non ci fa sprofondare in alcun tipo di relativismo scientifico ma, al contrario, permette di cogliere l’essenza dei fenomeni nell’unico modo in cui è possibile farlo, nel cogliere i modi e i limiti con cui si danno alla coscienza. Il dato si dà nel limite del suo non-essere-neutrale, nel suo essere sempre colto da una coscienza intenzionale. E questo più che allontanarci dalla realtà, ce la presenta in maniera diretta e immediata. La datità dei fenomeni è qualcosa di estremamente complesso e cogliere questa complessità in maniera rigorosa e con un metodo razionale è la sfida che la scienza deve accettare, ma per riuscirci è fondamentale accogliere uno degli insegnamenti più fecondi che la fenomenologia ci ha lasciato in eredità. Questa lezione ci ricorda che la datità dei fenomeni costituisce allo stesso tempo il limite e l’essenza del fenomeno stesso. Non può esistere per noi una maniera non noetica di cogliere il dato la cui essenza è proprio la datità e non la sua caratterizzazione fisica. La scienza deve sempre tenere conto di questa relazione intenzionale che permette di costituire e comprendere i fenomeni e, di conseguenza, trattarli come tali cioè come dati intenzionali, pregni di un significato attribuito dalle nostre credenze, seppur queste siano credenze scientifiche. Se si vuole tentare di raggiungere una conoscenza più vera, universale e condivisa possibile, non ci si può esimere dal considerare gli oggetti della scienza per quello che sono: dati fenomenologici la cui essenza è la datità.


La dialettica platonica come scienza noetica

Nella riflessione sulla vera conoscenza, la filosofia greca aveva già intuito che conoscere significa comprendere le essenze delle cose e la loro struttura. Per raggiungere questo compito, già Platone aveva identificato e approfondito un metodo rigoroso (che egli in realtà considerava una vera e propria scienza) che prende corpo nella dialettica. Come afferma Mario Vegetti,

la dialettica procedeva soltanto nell’ambiente del discorso (logos), di cui rappresentava la più efficace forma di organizzazione metodica, e mediante il logos. Lo stesso livello più elevato di conoscenza cui la dialettica poteva pervenire, quello delle idee (le essenze noetico-ideali), si configurava come un «discorso sull’essenza» […] Si trattava dunque di farne una tecnica capace di «interrogare e rispondere nel modo più scientifico» (Repubblica, VII, 534d), cioè di «condurre la confutazione non secondo l’opinione (doxa) ma secono l’essenza (ousia5.

Se si tralascia la specificità del metodo dialettico consistente nell’argomentazione (data dal fatto che non esistesse ancora né una netta separazione tra le discipline né, di conseguenza, alcun dualismo tra saperi umanistici e scientifici), si può notare come la dialettica platonica presenti dei tratti in comune con la scienza moderna nonostante venga utilizzata una terminologia differente. La dialettica, infatti. si sviluppa mediante il logos nel doppio significato di ragione e linguaggio, nonché è essa stessa un metodo finalizzato all’organizzazione del discorso razionale. Ebbene, come si è affermato precedentemente, anche la scienza può realizzarsi mediante la natura espressiva del linguaggio, configurandosi sempre più come un’interrogazione della realtà e perseguendo il fine di una risposta che si distolga dalle opinioni per approdare alla natura delle cose, e cioè verso ciò che in filosofia è detto “essenza”.
All’interno del dialogo del Teeteto Platone fa dire a Socrate, tramite un caso esemplificativo, che:

Non è possibile che dica cosa veruna a norma di conoscenza chi prima non sia penetrato a fondo di ciascuna cosa […] E così anche del carro noi possiamo, sì, aver giusta opinione, ma solo chi riesca, scorrendo per quei suoi cento pezzi, a definirne l’essenza, solo colui all’opinione vera avrà aggiunta, con codesto, anche la ragione; e della natura del carro, anziché una mera opinione, avrà insieme scienza e conoscenza, essendo penetrato fin dentro al tutto attraverso gli elementi (207b-c)6.

Quello del carro è, ovviamente, un esempio ma può essere generalizzato anche alle conoscenze più astratte. Seguendo la definizione di cui sopra, l’aritmetica sarebbe la conoscenza di tutti i numeri nel senso di una comprensione delle possibili relazioni tra essi. Non può avere conoscenza della matematica chi si limita a possedere un sapere enumerativo dei suoi elementi – e cioè numeri e forme – ma soltanto chi avrà compreso a fondo le possibili relazioni tra questi enti. Partendo da tali considerazioni, si potrà affermare che quando Socrate, nel medesimo dialogo afferma: «E così è che gli elementi sono irrazionali e inconoscibili […]; i nessi sono conoscibili, enunciabili e opinabili con vera opinione» (202b)7, potrebbe voler intendere che non è possibile conoscere un dato isolato, un aspetto singolare di un fenomeno perché non sarebbe un’operazione pienamente razionale in quanto non completa ma parziale. Il nesso, un’«idea unica costituita di elementi ogni volta armonizzati insieme» (204a)8 è anche il dato con le sue implicazioni teoriche, l’unità della cosa che comprende i suoi vari aspetti ed è l’unico oggetto possibile di conoscenza. Platone aveva già intuito che il più alto livello della conoscenza di un oggetto che si possa raggiungere è la sua natura noetica e cioè la possibilità di essere “colto” all’interno di una relazione di significato che unifichi tutti gli aspetti, tutte le sue parti costituenti.
All’interno del dialogo platonico tra Socrate e Teeteto, vi è un passo in cui i due dialoganti concordano nell’affermare che affinché vi sia conoscenza non è sufficiente guardare alle singole parti ed è invece necessario rivolgersi all’intero inteso come relazione tra di esse. Se ci limitiamo a “tagliare” i fili della relazione tra enti, eventi e processi, isolando gli elementi costitutivi tra di loro o riducendoli gli uni agli altri, otterremo solo conoscenza della parte, ma non del nesso (noema) e dunque, una conoscenza parziale ed effimera, non una scienza.
L’idea in Platone è il tentativo di ricondurre a unità ciò che i nostri limiti ci costringono a “vedere” separato, mantenendone però tutti gli aspetti essenziali. È un nesso che unifica la pluralità e la differenza delle caratteristiche sensibili. In quanto scienza delle idee, la dialettica è «in grado di rivolgere lo sguardo verso un’unità che sia anche per sua natura sovrapposta a una molteplicità» (266b)9. L’idea rispecchia dunque la struttura del mondo di identità e differenza che ovviamente è estremamente complesso provare a comprendere. Per questo motivo sentiamo l’esigenza di analizzare e studiare la realtà in maniera settoriale ed è per questo che infatti non si può più parlare di scienza al singolare ma necessariamente di scienze al plurale. Se questa settorializzazione del sapere può essere (e sicuramente è) utile al raggiungimento di nuovi traguardi sulla conoscenza di noi stessi, del mondo in cui viviamo e della vita in generale nelle sue più diverse declinazioni, ciò avviene perché si cerca di comprendere la differenza. L’errore metodologico però consiste nel credere che per unificare la conoscenza sia necessario ridurre la pluralità delle scienze a una più “essenziale”, più “elementare” come ad esempio avviene per la naturalizzazione dei fenomeni mentali. No, non è così che si unifica la conoscenza, non è così che si può cercare di raggiungere una conoscenza universalmente condivisa, razionale, vera.
Infatti, come ci insegna Platone, in questo modo non faremmo altro che ricondurre una cosa a qualcos’altro (ἕτερος). Se riduciamo la mente alle condizioni neurobiologiche che si verificano nel nostro cervello, stiamo operando un riduzionismo naturalistico che, contrariamente a quanto il termine ci induca a credere, non fa che snaturare il significato e l’essenza del complesso ma meraviglioso fenomeno che chiamiamo “mente”. Così facendo non comprendiamo affatto la struttura della mente e, al contrario, non stiamo che costruendo, secondo criteri arbitrari e convenzionali, un’identificazione tra un concetto e un altro. In questo modo la conoscenza non è più vera, più razionale, più universale, ma è solo più frammentaria. Per tentare di comprendere la complessità di un fenomeno nella sua identità è necessario accettarlo come “plurale”, come relazionale. Anche Husserl ha evidenziato questa fallacia naturalistica che, separando il fisico dal mentale, non fa che negare la natura del suo oggetto di ricerca:

In fin dei conti si può dire che il naturalista è nella sua condotta idealista e oggettivista. Egli è tutto preso dallo sforzo di portare a conoscenza scientificamente, dunque in modo vincolante per ogni essere razionale, cosa sia in ogni campo la verità autentica, il bello e il bene autentici […]. Grazie alla scienza della natura e alla filosofia scientifico-naturale egli crede di avere sostanzialmente raggiunto lo scopo e, con l’entusiasmo che questa consapevolezza gli procura, si presenta come maestro e riformatore pratico del vero, del bello e del bene intesi in termini «scientifico-naturali». Egli è però un idealista, che formula e pretende di fondare teorie che negano proprio ciò che egli presuppone nella sua condotta idealistica […] Egli presuppone cioè, nella misura in cui in genere teorizza, pone oggettivamente dei valori, ai quali deve attenersi ogni valutare, e pone regole pratiche in base alle quali ciascuno deve volere ed agire. Il naturalista insegna, predica, moraleggia e riforma. Ma egli nega ciò che ogni predica, ogni istanza in quanto tale presuppone in base al proprio senso. L’assurdità non gli è evidente, ma rimane a lui stesso nascosta poiché ha naturalizzato la ragione10.

Può esserci una spiegazione razionale e “universale” dei fenomeni soltanto quando si cerca di comprenderne l’essenza. Ma proprio in quanto l’essenza di qualsiasi fenomeno è la datità, vi potrà essere scienza soltanto dentro la relazione intenzionale di soggetto e mondo, motivo per cui, ritornando alla questione con cui si è aperto questo scritto e cioè alla possibilità della scienza come conoscenza universale e oggettiva, il termine “oggettivo” perde di significato. Quando si erge la scienza a spiegazione “vera”, a unico tentativo di comprensione e analisi di “fatti”, viene operata una deleteria semplificazione perché si sta cercando di ridurre il dato intenzionale – un fenomeno che si verifica nel mondo ma che allo stesso tempo è colto da una coscienza – a mero oggetto della fisica o della biologia, tralasciando uno dei due fattori fondamentali della relazione intenzionale, nonché la condizione necessaria affinché vi sia conoscenza: l’attività noetica della mente umana.


Note
¹ A. G. Biuso, «Epistemologia e filosofia della scienza», Vita pensata, Anno XI n.25, p. 95.
² Ibidem.
³ S. Okasha, Il primo libro di filosofia della scienza (Philosophy of Science. A Very Short Introduction, 2002), tr. di M. Di Francesco, Einaudi, Torino 2006, p. 74.
4A. G. Biuso, «Epistemologia e filosofia della scienza», cit., p. 96.
5 M. Vegetti, Quindici lezioni su Platone, Einaudi, Torino, p. 178.
6 Platone, Teeteto, tr. di M. Valgimigli, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 187.
7 Ivi, p. 171.
8 Ivi, p. 177.
9 Id., Fedro, cit. in M. Vegetti, Quindici lezioni su Platone, cit., p. 186. Nella traduzione italiana di R. Velardi, Rizzoli, Milano 2006, p. 165: «in grado di osservare ciò che per sua natura è uno e molteplice».
10 E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa (Aufsätze und Vorträge 1911-1921), tr.it. C. Sinigaglia, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 15-16.

 

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