Complessità della conoscenza: spunti da Feyerabend

Di: Roberta Corvi
1 Aprile 2023

 

Da Kant a Popper

Kant, come è noto, aveva riconosciuto a Hume il merito di averlo svegliato dal sonno dogmatico, ma forse non aveva immaginato quali sarebbero state nel tempo le conseguenze di tale risveglio. Infatti, lo stesso Kant, nel tentativo di superare l’antitesi fra razionalismo ed empirismo, ha impresso una svolta significativa alla tradizione moderna quando ha affermato che conosciamo il fenomeno ma non il noumeno, vale a dire che non conosciamo la realtà in sé ma solo la realtà come si manifesta a noi. La riforma kantiana ha assestato un grave colpo alla concezione classica della conoscenza che pretendeva di offrire una descrizione vera della realtà come è in sé; tuttavia, nonostante Kant ritenesse la conoscenza limitata al solo fenomeno, condivideva ancora con la filosofia moderna a lui precedente la convinzione che tale conoscenza fosse necessaria e universale in quanto valida a priori e che, in definitiva, coincidesse con la scienza, che al suo tempo si identificava con la fisica newtoniana.
L’eredità più duratura del kantismo, probabilmente malgrado lo stesso Kant, consiste proprio nella rivoluzione copernicana, che ha spostato il fulcro del processo di conoscenza dall’oggetto al soggetto, operando una trasformazione all’interno della gnoseologia, poiché la conoscenza nel criticismo kantiano non è semplice rispecchiamento di una realtà data, ma diviene rappresentazione di ciò che nella realtà riusciamo a ritagliare e a filtrare con le nostre capacità umane. La conoscenza, dunque, secondo Kant è sempre relativa al nostro schema concettuale, anche se si tratta di uno schema in cui le categorie sono astoriche, in quanto il filosofo di Königsberg riteneva esistesse un solo schema valido per l’umanità tutta.
Toccò a Popper riconoscere, quasi due secoli dopo, che certamente c’è un elemento a priori nella conoscenza, ma che ciò non la rende valida a priori; così il fautore del razionalismo critico evidenziava la fallibilità della scienza, senza però mettere in dubbio il presupposto secondo cui il genere umano condivide una struttura cognitiva comune. Non a caso in Congetture e confutazioni sostenne che ciò che appare una ripetizione a noi può non apparire tale a un ragno1, dando per scontato che la percezione della realtà possa essere differente da specie a specie, ma ammettendo implicitamente che ci sia uniformità tra gli appartenenti alla specie umana. Quindi, pur sostenendo il fallibilismo anche in ambito scientifico, Popper non aveva dubbi nell’accordare una fiducia incondizionata alla scienza, quale portatrice di conoscenze razionali e oggettive. Era ovvio anche per Popper, come per la cultura del suo tempo – che in gran parte è ancora il nostro – che la conoscenza del mondo, sia pure con i limiti indicati da Kant, coincidesse con la scienza.
Feyerabend, invece, sfidando proprio ciò che appariva ovvio, ha portato a compimento l’emancipazione del pensiero occidentale dal dogmatismo della gnoseologia moderna: la conoscenza del mondo non coincide con la scienza e non si esaurisce nella scienza. Feyerabend ha suggerito che sono possibili schemi concettuali differenti e che il soggetto non è universale, come pensava Kant, ma plurale: diversi soggetti conoscenti possono avere prospettive diverse e utilizzare categorie diverse.
Questa constatazione non implica che si neghi il valore e l’utilità della scienza. Del resto questo certamente non era nemmeno l’intento di Feyerabend, il quale, diversamente da come talvolta è stato interpretato, non è contrario alla scienza; anzi, proprio nelle sue ultime lezioni pubbliche, tenute a Trento nel 1992, egli dichiarava apertamente di non ritenere che «la scienza debba essere messa da parte»2. Egli ribadiva però che la scienza non può essere considerata l’unica depositaria della conoscenza né, tanto meno, della verità. La scienza non può esaurire la realtà perché la realtà è complessa, come Feyerabend ha avuto il merito di segnalare non solo nelle lezioni trentine ma in tutte le sue opere. Quindi non si tratta di escludere la scienza dall’ambito della conoscenza, bensì di riconoscere da un lato che ci sono altre forme di conoscenza e dall’altro, come già aveva ammonito Popper, che la scienza non è episteme (επιστήμη), ma doxa (δόξα)3.
Si tratta di una distinzione che risale alla filosofia greca e, in particolare, a Platone, il quale aveva definito l’episteme come conoscenza stabile e definitivamente acquisita, in quanto rivolta al mondo delle Idee, cioè all’essere, a differenza della doxa che, in quanto si riferisce al mondo sensibile, che è teatro del divenire, è necessariamente mutevole; di conseguenza, anche quando è corretta e vera, l’opinione non è conoscenza autentica. Il pensiero moderno, che ha colto nei rapporti matematici la struttura stabile dell’universo, ha identificato l’episteme, cioè l’unica forma di conoscenza autentica e indubitabile, con la scienza. I progressi della scienza hanno però dimostrato, come sottolinea lo stesso Popper, che nemmeno le teorie scientifiche meglio corroborate sono immuni da revisioni e correzioni, quindi devono sempre essere considerate ipotesi, appunto doxa, non episteme. Tale prospettiva ha portato il fautore del falsificazionismo a elaborare una nuova concezione della razionalità, che viene privata della capacità di dimostrare definitivamente alcunché, limitando la sua funzione alla critica e minando la fiducia nella possibilità di formulare teorie la cui verità sia fondata e dimostrata.
Da qui la svolta nell’epistemologia contemporanea, di cui Feyerabend è stato uno dei principali protagonisti, poiché oltre a mettere in discussione la nozione di razionalità come garanzia di conoscenza oggettiva, ha posto l’accento sulla complessità della realtà che si riverbera anche sulla conoscenza: la conoscenza è complessa, perché la realtà è complessa. Le due questioni, concezione della razionalità e riconoscimento della complessità, sono strettamente connesse, come spero di chiarire in queste pagine.


La complessità del reale

Cercherò infatti di sostenere, proprio sulla scia di Feyerabend, che la complessità del reale è tale da non poter essere dipanata dalla ragione, almeno non come è stata intesa da gran parte del razionalismo occidentale, per trarre alla fine qualche indicazione a favore di un’epistemologia che riconosca tale complessità, piuttosto che ignorarla.
Feyerabend nelle lezioni trentine sostiene che la ragione da sola non è sufficiente per vivere, perché la vita è molto complicata e l’argomentazione che deriva dal ragionamento, per quanto abile, non riesce a provocare un mutamento negli atteggiamenti delle persone4. Questo è senz’altro vero se intendiamo la ragione solo come una ragione algoritmica e la identifichiamo con la ragione matematizzante, che anche secondo Cassirer è stata al centro del pensiero filosofico e scientifico da Galileo e Cartesio in poi5. Nell’età moderna, infatti, la razionalità ha subito una curvatura logico-matematica, venendo a coincidere con la facoltà dell’argomentazione e della dimostrazione. In questa accezione la ragione è la facoltà che consente di cogliere ciò che è chiaro e distinto, mentre ciò che non lo è ricade nella soggettività della sensazione; pertanto, una conoscenza è razionale se vale universalmente, a differenza delle questioni di gusto, che esprimono preferenze individuali.
Dobbiamo però domandarci se questo sia l’unico modo di intendere la ragione. Credo, infatti, che sia non solo possibile ma anche interessante proporre un’idea di razionalità per così dire allargata, che non è limitata alla gestione di procedure e alla manipolazione di segni e di informazioni, ma comprenda anche attività che non sono riducibili a canoni e criteri prefissati, quale per esempio l’intelligenza emotiva, di cui parla lo psicologo Daniel Goleman e che trova conferma anche nelle ricerche del neurologo Antonio Damasio. Quest’ultimo ha sottolineato che il ruolo delle emozioni è complementare al ruolo della razionalità, avendo ben presente che la nostra mente non è una mente disincarnata, ma coinvolge tutto il corpo e non solo il cervello6. Un approccio di questo tipo trova una sponda in Feyerabend, il quale aveva notato che gran parte della nostra conoscenza «risiede nel […] corpo o in quelle parti della mente che attivano il corpo e deve essere trasmessa con esempi e azioni perché le parole non sono sufficienti»7; si tratta di quel genere di conoscenza che Polanyi chiamava «conoscenza tacita», di cui non si può dar conto sul piano esclusivamente razionale e a cui concediamo ugualmente la nostra fiducia.
Il filosofo di origine ungherese sosteneva che la co­noscenza non può essere completamente oggettiva e, per così dire, asettica, nemmeno quando si tratta di conoscenza scientifica, poiché elementi soggettivi si intrecciano continuamente con elementi oggettivi. Il processo di conoscenza è strettamente legato alla personalità del ricercatore, il quale però secondo Polanyi è in grado di «trascendere la propria soggettività proprio mentre cerca appassionatamente di soddisfare i suoi obblighi personali verso criteri universali»8. L’oggettività di cui possiamo disporre al termine di un processo di questo tipo non può essere intesa solo come esito della razionalità matematizzante.
Feyerabend stesso afferma che soggettività e oggettività si mescolano in tutte le attività umane, dalla poesia alla scienza; in particolare, per quanto riguarda la scienza, afferma che non è possibile identificare il contesto della scoperta con l’ambito della soggettività, contrapponendolo al contesto della giustificazione, indicato come il dominio dell’oggettività, poiché «la “scoperta” non è mai un mero salto nel buio, o un sogno; c’entra anche un bel po’ di ragionamento. E la “giustificazione” non è mai un procedimento completamente “oggettivo” – ci sono molti elementi personali»9. Anche l’osservazione che si presume essere oggettiva, in realtà è frutto di un addestramento a vedere le cose in un certo modo, veniamo istruiti a vedere le cose utilizzando certe categorie e certe descrizioni. Ciò significa che impariamo a vedere il mondo in una prospettiva, che riteniamo oggettiva solo perché risulta conforme al contesto culturale o scientifico in cui siamo calati.
Del resto, anche un filosofo molto diverso da Feyerabend come Cassirer riteneva che la nostra rappresentazione della realtà non goda di un’oggettività immediata, ma sia sempre il risultato di una complessa modalità di strutturazione simbolica e di conferimento di senso; l’oggettività della conoscenza, quindi, non può essere il riflesso di una proprietà che le cose possiedono di per sé, ma è piuttosto il risultato del lento e faticoso processo della nostra attività formatrice. Come osserva l’autore del Saggio sull’uomo «l’oggettività è non già il terminus a quo, ma il terminus ad quem: non il punto di partenza, ma il punto di arrivo della conoscenza umana»10. Pertanto, l’oggettività è un compito, un ideale da realizzare, senza poter eliminare la soggettività, poiché la conoscenza deriva inevitabilmente dalla relazione fra il soggetto conoscente e la realtà. Anche Feyerabend ha dato un contributo al fine di superare un’impostazione di tipo dicotomico, per cui la soggettività è in opposizione all’oggettività, come se l’una escludesse l’altra. Al contrario, occorre rilevare che ogni soggetto conoscente è in relazione con altri soggetti e ognuno si rapporta allo stesso oggetto, seppure con modalità differenti, e da questo intreccio di relazioni emerge l’oggettività, che ancora una volta non ha e non può avere carattere assoluto. Si tratterà sempre di un’oggettività relativa a un contesto e agli strumenti anche teorici che si hanno a disposizione; per esempio, una diagnosi basata su una radiografia o un’ecografia ha una sua oggettività, che è tale solo per chi è in grado di interpretare quelle immagini e quei segni.
Le nostre difficoltà a livello epistemico parlano di una complessità del reale, che tentiamo di semplificare scomponendo la complessità e riducendola agli elementi che la costituiscono, ma questa operazione rischia di perdere proprio ciò che genera la complessità, cioè le relazioni e le interazioni fra gli elementi e fra i diversi aspetti di un fenomeno, tanto più che tale complessità è il prodotto della complessità del nostro cervello, oltre che della complessità della natura. Come nota Feyerabend, la varietà presente nel mondo sfugge alle generalizzazioni e rende impossibile fornire una concezione completa della realtà11. Proprio a causa della combinazione tra l’enorme complessità del mondo fisico e quella non meno intricata del mondo umano la scienza non è mai del tutto garantita, perciò l’autore di Contro il metodo ritiene che la complessità non possa essere gestita con un unico paradigma epistemologico. L’impossibilità di indicare un metodo unico che sia efficace in qualunque ambito della scienza per affrontare i problemi più disparati induce Feyerabend a proclamare il suo motto più famoso: anything goes. L’anarchismo metodologico riconosce che «tutte le metodologie, anche quelle più ovvie, hanno i loro limiti»12.


Pluralismo metodologico

Di conseguenza dovremmo intendere l’anything goes come un’ammissione di impotenza epistemologica? Come se l’impossibilità di individuare un metodo universale ci privasse di un’autentica conoscenza? Credo che il problema non sia quello di individuare il metodo che ci porta direttamente e sicuramente al traguardo, quanto piuttosto quello di comprendere come metodologie diverse possano cooperare alla produzione di conoscenza. L’anything goes potrebbe essere inteso non come la negazione di qualsiasi metodo, soppiantato dall’arbitrarietà delle scelte di un singolo soggetto conoscente o di una determinata comunità scientifica, bensì come l’ammissione che esiste una molteplicità di strumenti che possiamo utilizzare alternativamente o in combinazione tra loro per perseguire il nostro obiettivo epistemico. Anche perché si parla impropriamente di scienza, quando in realtà esistono le scienze, che sono molteplici e diverse fra loro, le quali si dedicano a oggetti diversi o indagano aspetti diversi di uno stesso fenomeno; pertanto non si può pretendere che l’economia o la sociologia utilizzino gli stessi strumenti e le stesse procedure che sono valide nella fisica o nella biologia.
La pluralità di metodologie dipende non solo dalla grande varietà e dalla diversa complessità degli oggetti e dei fenomeni di cui facciamo conoscenza, ma anche dagli scopi che orientano la conoscenza stessa, poiché per gestire la propria esistenza quotidiana occorrono molte informazioni e talvolta anche molto precise; per esempio, se devo prendere un aereo o un treno, devo sapere esattamente quando parte. In circostanze quotidiane, però, il livello di giustificazione richiesto è senz’altro diverso da quello richiesto per corroborare un’ipotesi scientifica; se per prendere un treno è sufficiente consultare l’orario sul sito delle ferrovie, per approvare la somministrazione di un farmaco occorrono invece sperimentazioni e controlli rigorosi e ripetuti.
Quindi non si può che concordare con Feyerabend, quando, polemicamente, sottolineava l’impossibilità di una metodologia universale che funzioni in ogni caso, auspicando un pluralismo che peraltro sembra inevitabile, poiché non è possibile costruire uno strumento di misura che misuri qualsiasi grandezza, in qualsiasi circostanza possibile, come Feyerabend ha sostenuto più volte da Contro il metodo in poi. L’esigenza di una metodologia pluralista suggerisce, d’altro canto, l’opportunità di integrare metodologie differenti, riconoscendo l’esistenza di diverse forme e diversi scopi della conoscenza. Potremmo, allora, dire che la conoscenza λέγεται πολλαχϖς, vale a dire che ci sono molti tipi di conoscenze che hanno in comune l’obiettivo di arricchire la nostra immagine del mondo, per facilitare il nostro rapporto con la realtà che ci circonda. In questo senso, più che di filosofia della conoscenza, dovremmo parlare, seguendo Nicla Vassallo, di filosofia delle conoscenze13.
Insomma, la complessità del reale, di cui anche noi esseri umani facciamo parte, rende inadeguata l’idea di una razionalità astratta, matematizzante, che prescinde dalle condizioni in cui viene svolta l’attività di conoscenza, poiché anche i canoni di razionalità dipendono dal contesto. Se si accetta questo presupposto, diviene chiaro che il tema della complessità e la critica del razionalismo sono strettamente legati: se riconosciamo la complessità non possiamo fare affidamento solo su una ragione di tipo logico-formale.
Da qui la necessità di un’epistemologia diversa da quella che ancora prevale in molti filosofi. Il risveglio dal sonno dogmatico, iniziato con Kant e non ancora concluso, ci induce a ritenere che sia necessaria un’epistemologia integrata, che da un lato non escluda nessun contributo e dall’altro sia in grado di individuare e favorire la presenza di varchi tra i vari ambiti del sapere e della cultura. Si tratta di un approdo teorico che ritiene non solo possibile, ma anche utile e preferibile integrare i diversi strumenti, metodi e risorse disponibili, anziché escluderne alcuni a beneficio di altri. Si tratta di un’epistemologia che tende a includere e integrare, evitando di creare frontiere invalicabili tra le varie discipline e i tanti modi in cui gli esseri umani si relazionano cognitivamente al mondo.


Un’epistemologia integrata

Un’epistemologia integrata riconosce l’importanza della conoscenza scientifica, ma non disdegna altre forme di conoscenza, quale ad esempio l’esperienza estetica o la metafisica – approcci incoraggiati da Feyerabend – che utilizzano altri metodi e si rivolgono ad altri oggetti.  Come ha evidenziato anche Ludwig von Bertalanffy, che era, prima che un filosofo, un biologo e dunque uno scienziato, non è in discussione l’approccio scientifico, ma solo il riduzionismo che spesso lo accompagna e che impedisce di vedere la scienza «come una delle “prospettive” che l’uomo, con le sue doti e con i suoi limiti di natura biologica, culturale e linguistica, ha creato per trattare con un universo in cui è stato “gettato”, o, meglio ancora, al quale si è adattato grazie all’evoluzione e alla storia»14.
Un’epistemologia integrata ammette la centralità della ragione e del ragionamento per la conoscenza, ma non trascura l’apporto che in determinate circostanze può venire dall’intelligenza emotiva, prospettando una concezione della razionalità che definirei inclusiva, in quanto si avvale di tutte le risorse disponibili per comprendere e spiegare la realtà che ci circonda, una «razionalità a tessitura aperta», per usare un’espressione di Paolo Parrini, il quale osservava che la giustificazione si avvale certamente dei dati di esperienza e di procedure razionali complesse, che includono quelle rigorosamente formalizzabili, ma non può limitarsi ad esse15. Si tratta di una razionalità come quella che opera nel diritto, nella critica letteraria o, più in generale, nelle discipline umanistiche, ritenuta a torto “minore”, poiché si tratta della razionalità che interviene quando non è disponibile un algoritmo che indichi il percorso da seguire e faciliti le decisioni. Anzi, proprio quando la razionalità matematizzante non fornisce criteri indiscutibili occorre chiamare in causa un altro tipo di razionalità che fornisca motivi per accettare o rifiutare determinate asserzioni e per decidere come agire.
Un’epistemologia di questo tipo evita di riproporre le distinzioni tra soggettività e oggettività, esperienza e rielaborazione concettuale, ricerca della verità e consapevolezza della fallibilità in modo dicotomico, non perché queste distinzioni non esistano o non siano giustificate, bensì perché nella concreta attività conoscitiva questi elementi si incrociano, si intrecciano e talvolta si sovrappongono cooperando al raggiungimento dell’obiettivo.
Questa nuova consapevolezza induce a guardare con diffidenza l’iperspecialismo, vale a dire la condizione tipica di ogni settore disciplinare e dei suoi esperti, per cui talvolta due specialisti della stessa disciplina faticano a comprendersi, poiché si occupano sì dello stesso oggetto, ma ne considerano aspetti diversi, approfondendoli al punto da avere davanti in realtà oggetti diversi. Con ciò non si intende negare l’utilità della specializzazione che ha consentito e consente di ottenere risultati che sarebbero impensabili se non ci fossero competenze specifiche, bensì far presente che non ci si può fermare alla specializzazione, che occorre una rielaborazione dei guadagni così ottenuti. Occorre sviluppare la capacità di costruire tramite le tante informazioni un’immagine coerente della realtà in modo da creare ponti fra le diverse discipline; per arrivare a questo traguardo è necessario coordinare le diverse nozioni che provengono da ambiti diversi nella consapevolezza che la realtà è un’unità aperta, in cui è difficile determinare che cosa sia connesso o non connesso con qualcos’altro.
Come ha giustamente evidenziato Basarab Nicolescu, dal punto di vista di un fisico teorico quale egli è, i grandi progressi delle scienze e in particolare della fisica hanno favorito l’affermazione dell’ideologia scientista, secondo cui esiste un solo livello di realtà e precisamente quello che viene descritto dalla fisica16. La fisica quantistica, però, ha fatto emergere diversi livelli di realtà e nel corso del Novecento la concezione epistemologica che ha dominato dall’età moderna è stata sfidata dalla scoperta di una complessità che permea ogni settore della conoscenza. «Nella visione classica del mondo, l’articolazione delle discipline è piramidale e la base della piramide è rappresentata dalla fisica. La complessità ha letteralmente polverizzato la piramide, provocando un autentico big bang disciplinare»17, che ha frammentato la conoscenza, rendendo difficile la comunicazione all’interno della comunità scientifica. Per questo motivo, secondo Nicolescu, occorre uno sguardo transdisciplinare, la cui finalità è «la comprensione del mondo presente», che tenga conto dei diversi livelli di realtà e della loro complessità18.
L’unità aperta e la pluralità complessa sono le due facce di un’unica medaglia che costituisce la conoscenza, che non sarà più intesa semplicemente come una somma di discipline, ognuna delle quali è racchiusa nel proprio campo senza varchi che consentano attraversamenti da un territorio a un altro19. Nella nuova prospettiva, che deve molto a Feyerabend, si riconosce non solo l’esistenza ma anche il valore delle diverse forme di conoscenza, mettendo in evidenza le relazioni che naturalmente si instaurano fra i diversi campi del sapere; basti pensare, a titolo di esempio, all’influenza della psicoanalisi sulla letteratura o sulla pittura, ma anche l’influenza del mito sulle teorie di Freud.
Se questo scenario è plausibile, allora bisogna ammettere che c’è ancora molto lavoro da fare in ambito epistemologico per rimuovere frontiere fittizie e per riconoscere che l’equilibrio tra le diverse parti della conoscenza è un equilibrio dinamico, sempre mutevole, che richiede continui aggiustamenti per accogliere nuove informazioni o per rettificare e riformulare conoscenze già acquisite.


Note
1 Cfr. K. Popper, Congetture e confutazioni (1969), Il Mulino, Bologna 1972, p. 80.
2 P.K. Feyerabend, Ambiguità e armonia, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 67; un’analoga affermazione si trova anche in P.K. Feyerabend, Addio alla ragione(1987), Armando, Roma 1990, p. 82.
3 Cfr. K. Popper, Poscritto alla Logica della scoperta scientifica, I. Il realismo e lo scopo della scienza (1982), Il Saggiatore, Milano 1984, p. 272.
4 Cfr. P.K. Feyerabend, Ambiguità e armonia, cit., p. 149.
5 Cfr. E. Cassirer, Saggio sull’uomo (1944), Armando, Roma 1977, pp. 66-67.
6 Cfr. A. Damasio, L’errore di Cartesio (1994), Adelphi, Milano 2004, in particolare pp. 306-320 e A. Damasio, Alla ricerca di Spinoza (2003), Adelphi, Milano 2003, in particolare il cap. 5; D. Goleman, Intelligenza emotiva (1995), Rizzoli, Milano 2011.
7 P.K. Feyerabend, Ambiguità e armonia, cit., p. 153.
8 M. Polanyi, La conoscenza personale (1958), Rusconi, Milano 1990, p. 93.
9 P.K. Feyerabend, Dialogo sul metodo (1989), Laterza, Roma-Bari 1993, p. 133.
10 E. Cassirer, Simbolo, mito e cultura (1979), Laterza, Roma-Bari 1981, p. 170.
11 Cfr. P.K. Feyerabend, Ambiguità e armonia, cit., p. 15.
12 Id., Contro il metodo (1975), Feltrinelli, Milano 1984, p. 29.
13 Cfr. N. Vassallo (cur.), Filosofia delle conoscenze, Codice, Torino 2006. A questo proposito cfr. anche N. Vassallo, Teoria della conoscenza, Laterza, Roma-Bari 2003, cap. 1.3.
14 L. von Bertalanffy, Teoria generale dei sistemi (1969), Mondadori, Milano 2004, p. 17.
15 Cfr. P. Parrini, Fare filosofia, oggi, Carocci, Roma 2018, p. 38.
16 Cfr. B. Nicolescu, Il manifesto della transdisciplinarità (1996), Armando Siciliano editore, Messina – Civitanova Marche 2014, pp. 23-27.
17 Ivi, pp. 44-45.
18 Cfr. ivi, pp. 54-55.
19 Cfr. ivi, p. 63.

 

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