Proust scienziato del divino. Prolegomeni a una lettura teologica della Recherche
Es ist Zeit, daß der Stein sich zu blühen bequemt,
daß der Unrast ein Herz schlägt.
Es ist Zeit, daß es Zeit wird.
Es ist Zeit.1
Il titolo che ho deciso di assegnare a questa indagine parrebbe preludere a una riflessione impossibile: che uno scrittore, benché tra i più grandi di sempre come Proust, possa essere considerato una sorta di scrutatore del divino, di teologo inconsapevole, possessore di un’identità il cui riconoscimento nell’opera sarebbe una forzatura bell’e buona. Dal mio punto di vista, giacché è un punto di vista teoretico, le cose non stanno così. Voglio sostenere, infatti, che all’interno della Recherche un discorso sul divino sia perfettamente plausibile e anzi anche auspicabile, poiché un simile approccio all’opera proustiana consentirebbe di articolare una riflessione sull’essere, il tempo e la verità che trova in uno sguardo teologico uno straordinario strumento di accesso. È vero, del resto, che molte volte Proust fa ricorso a metafore religiose che nulla hanno a che fare con un genere di teoresi che abbia il divino, il sacro e la manifestatività dell’essere come punti principali. Non c’è niente di confessionale in Proust, fatta eccezione, naturalmente, per il credo ritrovato nella scrittura letteraria che è quello che il Narratore acquisisce nell’ultimo volume e che ha motivato l’autore a redigere l’opera che il lettore termina di leggere nel momento in cui avviene, è il caso di dire, tale rivelazione. Si può aggiungere, per l’onore dei fatti, che l’allergia confessionale di Proust è stata molto forte, direi quasi palpabile, e che ogni tentativo di avvicinare il parigino a simili considerazioni sembri destinato al fallimento, che quanto abbiamo tra le mani sia anzi una contraddizione in termini, un’iperbole fondata sul nulla, un’opinione sconsiderata, appunto un paradosso. Ma spesso è la cresta del monte su cui il paradosso ci fa incamminare, privi come siamo di vedere la cima essendo sull’orlo di un abisso vertiginoso, a immetterci nel giusto percorso di pensiero, che anziché aporia diventa la via giusta.
Faccio dunque ricorso all’altro grande scrittore che insieme a Proust si contende lo scettro di maggiore figura letteraria del Novecento, quel Franz Kafka che del paradosso è stato un maestro indiscusso e che, per l’ironia che a questo punto sarà facile cogliere, viene avvicinato dalla critica naturaliter alla teologia e a considerazioni di tipo teologico e messianico2. Nel terzo dei cosiddetti Otto quaderni in ottavo, Kafka compone un formidabile motto d’ironia, o se vogliamo ancora paradossale, che costituisce l’esergo migliore che potessimo cercare per le nostre argomentazioni: «La vera via passa su una corda, che non è tesa in alto, ma rasoterra. Sembra fatta più per far inciampare che per essere percorsa»3. Com’è noto, sono innumerevoli le affermazioni di Kafka con questo gusto per l’assurdo e il disarmante. Ma a cosa alluda con «vera via» è un concetto la cui definizione esatta (mi) sfugge. Potrebbe essere la vera via della fede, che però più che sollevare verso l’alto e il Regno fa ricadere faccia a terra; potrebbe esserci un qualche nietzscheanesimo rovesciato4; come potrebbe essere, più semplicemente, la vera via che ciascuno di noi deve percorrere in direzione del senso da assegnare alla vita e della salvezza. La via ideale che tutti sogniamo e desideriamo ardentemente di scoprire, dice Kafka, è quella che anziché condurci all’idea (qualunque essa sia) ci fa appunto inciampare. Come non ricordarsi, allora, del celebre episodio del Temps retrouvé in cui il Narratore, decisosi per pigrizia a recarsi presso il ricevimento dalla nuova principessa di Guermantes, mette un piede in fallo nel selciato mal livellato del cortile del palazzo, nel passo falso dal quale inizia quella che ormai possiamo chiamare senza timore la vera via, ma anche la vera vita, quella della rivelazione del Tempo e della scrittura a cui il protagonista si sarebbe di lì a poco apprestato con risolutezza?
È di queste diverse forme di temporalità che ci si deve allora occupare, del tempo intercorso tra l’ignoranza e il sapere, tra l’inciampo e la gloria della luce, quella che è in fondo la vera via proustiana di cui andare veramente alla ricerca.
Sono necessarie, in via preliminare, una precisazione terminologica e una premessa di metodo. Il significato in cui intendo qui la teologia è uno dei più semplici, soprattutto in considerazione della tradizione teologica cristiana di area cattolica, per cui teologia è sì il discorso sul divino ma più precisamente il discorso sulla rivelazione. La teologia è dunque lo sforzo di capire meglio il modo di abitare il mondo, appunto la rivelazione, con la fede in Dio5. Ma bisogna anche capire, in più, la forma con la quale e nella quale tale rivelazione si dà e può venire recepita e compresa. È a questo punto che interviene la speculazione di uno dei maggiori teologi e pensatori del Novecento, la cui riflessione si attaglia benissimo (dico meglio, la strutturano) all’argomentazione qui proposta, ovvero Hans Urs von Balthasar. Del teologo svizzero intendo considerare, per porne l’architettura concettuale in dialogo con la Recherche, la sua opera monumentale Herrlichkeit, a cui molto opportunamente Ruggieri (che ne è stato il primo traduttore in Italia) aggiunge il sottotitolo illuminante di Estetica teologica. È proprio la parola estetica, l’impianto teologico se vogliamo sia tradizionale che innovativo, a fondare i nostri ragionamenti proustiani. Se la verità divina si mostra nel mondo, essa deve farlo secondo una forma, e tale forma è la più alta modalità di apparizione che, in relazione all’essenza divina, possa darsi: la bellezza6. Essa è dunque la cifra, il respiro, il primo concetto attraverso cui Dio si dà agli uomini e al mondo. La figura della sua luce è il Figlio, è Cristo, la forma in cui Dio si è abbassato all’umano affinché potesse rendersi comprensibile ed efficace nella sua opera di salvezza. Se la bellezza è il primo e fondamentale senso con cui si possono intendere Dio e la Sua rivelazione, ciò significa che la teologia, in quanto riflessione di fede sulla rivelazione stessa, deve essere un’estetica. Lo sforzo teoretico di von Balthasar è quindi tracciare, incrociando certamente le Scritture ma anche il pensiero poetico, filosofico e artistico, i modi, i sensi e il trascendentale di cui l’umano è provvisto per ricevere questa forma.
L’uomo è infatti richiesto dalla bellezza, egli per comprendere la forma deve farsi specchio di Dio, così come Cristo è lo specchio in cui l’umano può scorgere la rivelazione che è in atto anche in lui. Non è tuttavia nell’essere dell’umano poter dettare da sé la forma, egli infatti più che essere una formulazione è una risposta, e proprio in ragione d’essere risposta egli è vocato dalla forma. Egli non è nulla senza una forma, e il massimo della vita umana consiste dunque nell’identificarsi totalmente con tale forma partecipando in essa, poiché la forma, il darsi di Dio, la venuta del Salvatore e la sua resurrezione sono la gloria della realtà, la magnificenza dell’Essere. La forma ha in Cristo la sua ragion d’essere, la sua testimonianza rivelata resasi comprensibile nelle modalità in cui all’umano era possibile intenderla, divenendo corpo, parola, azione e morte. Cristo è tuttavia anche un paradosso poiché mostra Dio, ovvero ciò che egli è, ma non è il Padre essendone la rivelazione. È ciò che si mostra di un Essere che si nasconde e che nello svelamento del Figlio esce dal velamento e diviene manifesto. Cristo, per esserci, deve nascondere il Padre, e il Padre, per mostrarsi, deve nascondersi nel Figlio. Ciò determina, riferendosi alla forma, il punto originario dell’estetica cristiana e più in generale di ogni estetica. L’estetica teologica è perciò nelle mirabili intenzioni di von Balthasar una riflessione su questo punto nevralgico, in cui l’Essere divino per mostrarsi necessita di una forma dalla quale deve anche ritrarsi per consentire lo svelamento.
La riflessione verso cui mettersi in cammino è un’estetica che colga nell’umano le possibilità della percezione di tale forma, nei modi in cui gli autori del Nuovo Testamento hanno scritto, e della partecipazione al darsi del Divino come elevazione alla Gloria. Si tratta anche di una filosofia che sappia creare le condizioni teoretiche e formali per un incontro con l’Essere in tutta la sua profondità: più precisamente di una teologia che riconosca l’importanza di un atto filosofico come un atto d’amore in quanto tale nei confronti del cosmo, dell’intero e della totalità dell’Essere che si svela nella forma del Redentore morto e risorto. «Trovare Dio realmente in tutte le cose e quindi filosofare veramente e sempre, è una possibilità aperta soprattutto a colui che si è fatto incontro al Dio vivente, nella forma particolare della rivelazione da lui scelta, la quale quindi, essendo la manifestazione della vita eterna per il mondo, acquista significato universale e intesse, determinandolo, l’oggetto formale della filosofia»7. La teologia cristiana, fondata filosoficamente in questo modo, diventa non una mera discettazione sull’astrazione della fede, ovvero una mistica, bensì una scoperta e una sperimentazione nella concretezza della rivelazione8. Accade dunque una dinamica che è ravvisabile anche in alcune riflessioni del secondo Heidegger9: il darsi dell’essere nella manifestazione della sua stessa apertura e l’accorrere dell’umano verso questa apertura nel punto mediano della cosiddetta differenza ontologica tra essere ed ente, che il filosofo tedesco nomina Dasein, laddove per Dasein non si intende più l’essere dell’umano (il progetto esistenziale che gli è proprio e discusso in Sein und Zeit) bensì lo spazio ontologico di dimora in cui ci si colloca nel darsi dell’essere.
Proust narra uno dei possibili modi attraverso i quali comprendere che il corpo è tempo che registra, scandisce differenze e coglie unità, e che soprattutto un’eternità simile esiste e che può essere concettualizzata e infine raggiunta tramite un’opera che racconti come gli umani vivono e durano in tale eterno, il cui trionfo è magnificamente visibile nel torno di pagine del Bal des Têtes, nel quale il tempo ritrovato è il tempo che fa invecchiare, distrugge e dissolve10. La futura opera a cui il Narratore finalmente si decide dovrà raccontare l’effetto del tempo negli umani ma anche la sua eterna gloria. Ed è per questa ragione che un’Opera simile è sacra, che il suo autore e chiunque la legga comprendendola veramente possono, cogliendo l’eterno dal tempo irredento e finito che siamo, infine salvarsi, ottenere un profondo senso di liberazione per cui la morte e lo svanimento di sé divengono indifferenti.
Per von Balthasar, tale spazio di dimora dell’umano nell’apertura dell’essere che si dà nel mondo (la magnificenza o gloria come l’amorevole manifestazione bella di Dio nel mondo) è la fede; la ricezione, la visione e la percezione di tale gloria, di tale forma, è l’estetica. Bisogna chiedersi, a questo punto, se ci sia ancora qualche altra possibilità teorica, come cioè tali argomentazioni possano convergere nella Recherche. Ma aiutiamoci ancora con von Balthasar, con una delle definizioni da lui proposte di fede: «La trasformazione di tutto l’uomo in uno spazio di risposta al contenuto divino. È la fede che accorda l’uomo a questo suono, gli conferisce la capacità di reagire proprio a questo esperimento divino, lo rende pronto a diventare violino proporzionato a questo colpo d’archetto, materiale di questa casa da costruire, rima ricercata di questo verso da comporre»11. La fede è quindi l’apertura che tocca all’umano, un accorrere a ciò che si svela, un venire incontro, e in tale appuntamento riconoscere nel volto sofferente di Cristo, nell’Ecce homo, la forma più compiuta della trasformazione, del Dio che si incarna nell’uomo morente e dell’uomo morente che si fa partecipe della gloria divina. Con la fede, lo ripetiamo, l’uomo viene trasformato nella risposta a Dio che si dà come bellezza nel mondo, quel Dio che è «una lacrima dell’amore versata nel più profondo segreto sulla miseria umana»12. La teologia, per concludere il ragionamento, diventa scienza della percezione della gloria divina.
Fissata in questi termini, la definizione appena enunciata mi sembra la più idonea per affrontare teologicamente – e quindi anche con una maggiore pretesa di verità – la Recherche. Approntiamo alcune domande: qual è l’essere che si dà nella concezione proustiana? Qual è tale estetica? In cosa consistono la trasformazione di sé e la dimora nell’apertura che le pagine della Recherche concettualizzano? Direi che possiamo intanto dare le risposte per poi cercare di argomentarle: l’essere è il Tempo cosmico; l’estetica è la scienza della percezione che ha a che fare con la memoria involontaria e il corpomente che siamo; la trasformazione e la dimora nell’apertura sono più in generale l’arte e più in particolare la scrittura letteraria di un’opera che il Narratore aveva covato dentro di sé e che solo determinate circostanze potevano rivelare. La Recherche è un’opera teologica perché è un discorso sulla rivelazione del divino, quel divino che, ed è questa la nostra tesi, è il Tempo come Intero materico che nella sezione saggistica del Temps retrovué – detta appunto Rivelazione13 – trova la sua espressione più alta e definitiva.
Il tempo che si offre al Narratore non è l’eternità di un Tempo coincidente con il Cosmo, e che viene estaticamente trovato dall’unione di tempi coscienziali nel divenire, di cui uno dei due, quello passato, si è sedimentato in noi in una parte remota del sé e che i sensi, provocati da una sensazione simile, improvvisamente risvegliano? Non ci sta parlando Proust di un’estetica che, ricevendo ciò che è materico-temporale come darsi dell’essere all’individuo, è in vista dell’immateriale ottenibile con la spiritualizzazione artistica14? Quello di cui discute Proust mi sembra nientemeno che il Tempo del divenire, il Tempo della materia, il Tempo recepito dai sensi che lo trasformano in essenza superiore e regalano quella sensazione di eternità e di gioia a cui votare la propria esistenza nella forma di un romanzo. E questo per una ragione abbastanza ovvia: l’invecchiamento del Narratore e del mondo in cui è immerso. Mi si perdonerà l’incalzare delle domande ma è d’obbligo porre tutte quelle necessarie: non è grazie al divenire che tali estasi metacroniche15 possono compiersi? La convergenza tra due momenti percettivi diversi non è consentita dallo scorrere del tempo? E la gioia non deriva dall’avere abbattuto questo tempo, grazie alla memoria che serba in noi immaterialmente il materico, per il balenare di un istante? Ciò che quindi afferma Proust è che il mondo è una rara epifania sacra che si dà nella forma del tempo sospeso nell’eternità dalla memoria e dall’arte, alla quale ci si deve apprestare appunto con un’estetica, una scienza della percezione di cui dà una prova sibillina con la discussione filosoficamente fondata degli istanti materico-temporali strutturati dal ricordo involontario. Ecco perché, a mio avviso, il discorso di Proust è teologico, ovvero sulla rivelazione del divino, che si mostra come tempo e come materia. La Recherche, quindi, non sarebbe altro che la predisposizione in forma artistica della bellezza che si è data a Proust e in cui fissare tutte le verità che sono seguite a questa rivelazione.
Rispondere alla domanda che cos’è il tempo? implica quindi un’analitica del Dasein in quanto ente il cui essere viene determinato dal tempo stesso. Dall’angolatura opposta, il Martin Heidegger all’altezza del Begriff der Zeit – la conferenza del 1924 tenuta a Marburgo, è utile rammentarlo, proprio dinanzi a teologi – giunge anche a questa considerazione: non bisogna procedere dall’eternità al tempo bensì, al contrario, dalla temporalità umana al tempo, per constatare se una simile impostazione può stabilire in che misura si possa parlare del tempo come eterno, come αεί16. «Il filosofo non ha fede. Se il filosofo domanda del tempo, egli è risoluto a comprendere il tempo a partire dal tempo, ovvero dall’αεί, il quale ha l’aspetto dell’eternità ma si rivela come un mero derivato dell’essere temporale»17. Si è naturalmente in linea con Heidegger nel non abbracciare sostanzialmente (semmai solo formalmente) la fede cristiana, ma è l’ultima parte della citazione quella fondamentale: in un contesto teologico l’essere temporale dell’uomo si declina nel suo rapporto con l’eternità che è Dio; in un contesto filosofico, fenomenologico e metafisico, accade invece il contrario, e cioè che l’essere esistenziale determini il tempo come eternità. Ed è quello che, alla lettera, il Narratore descrive con dovizia nel Temps retrouvé.
Il concetto di tempo per noi fondamentale rimane tuttavia quello delle prime righe della conferenza heideggeriana, e cioè l’essere umano collocato nel tempo «in un senso eminente»18, tale da dover comprendere dapprima gli elementi principali del Dasein, e sulla base di questo orizzonte tentare di avanzare dal tempo esistenziale verso il tempo cosmico. Il Dasein è temporale, sul suo essere si fonda la temporalità nelle declinazioni di appropriatezza e inappropriatezza, e il senso generale di comprensione del tempo. Il punto da tenere in caldo è però sempre il medesimo, e cioè, in modo apparentemente paradossale, che il senso del tempo nel suo carattere ontologico e universale vada ricercato ab origine nel Dasein e nelle sue strutture. Comprendere in modo non ingenuamente fideistico ma teoretico il tempo che siamo come coscienza dispiegata, memoria, corpo e parola, mi sembra infatti il senso ultimo della scoperta proustiana del Temps retrouvé. Il credo filosofico giungerà dopo e con connotati non confessionali. Il Narratore, tra il cortile e la biblioteca di palazzo Guermantes, trafitto dagli strali della memoria involontaria, esprime le sensazioni provocate dalle resurrezioni mnemoniche come coglimento di un tempo eterno, di essere divenuto addirittura un uomo affrancato dal tempo, come se in quei rari momenti estatici si potesse uscire dalla temporalità finita che costituisce il Dasein e approdare al tempo eterno che ci sovrasta e ci domina, al tempo in cui siamo19.
Nell’arte, nella maestà gloriosa del Tutto che recepiamo esteticamente, nella condivisione stellare che ogni opera rappresenta per chiunque la venga a visitare in preghiera20, è la gentilezza esistenziale che Proust ci fa acquisire, lontana da ogni fede ma in una religione immanente che ci mette a contatto con il sacro. Sì, dico gentilezza, quella con cui il dolore si placa e la serenità avanza prima e presso la fine. Ed è il sì messianico che ha scritto Proust in una delle frasi più dense della Recherche, per la comprensione della quale queste riflessioni si sono rese necessarie sperando di aver fatto più luce: «Oui, à cette œuvre, cette idée du Temps que je venais de former disait qu’il était temps de me mettre. Il était grand temps»21.
Note
1 P. Celan, Corona, in L’antologia italiana, Nottetempo, Milano 2020, p. 42, vv. 15-18. «È tempo che la pietra si decida a fiorire / che all’inquietudine batta un cuore. / È tempo che sia tempo. // È tempo», trad. di D. Borso, ivi, p. 43.
2 Uno su tutti, basti ricordare il famoso saggio di Benjamin Franz Kafka, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 2014, pp. 275-305.
3 F. Kafka, Terzo quaderno, in Lettera al padre. Gli otto quaderni in ottavo, trad. di A. Rho e I.A. Chiusano, Mondadori, Milano 1988, p. 72. Almeno a me, riguardo a questo frammento kafkiano, risuona forte alle orecchie il detto evangelico «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14, 6).
4 Mi riferisco alla frase «L’uomo è una corda legata tra animale e superuomo, una corda tesa su un abisso», in F.W. Nietzsche, Così parlo Zarathustra (Also Sprach Zarathustra, 1885), trad. di G. Quattrocchi, Giunti, Firenze 2006, p. 19.
5 Tolgo queste affermazioni da G. Ruggieri, Prima lezione di teologia, Laterza, Roma-Bari 2011. Al Prof. Ruggieri devo anche una bella discussione in cui, parlando di Benjamin, ho avuto modo di fissare meglio alcuni dei concetti poi confluiti in questo testo. Di Ruggieri ho tenuto conto anche di Esistenza messianica, Rosenberg&Sellier, Torino 2020.
6 Riporto anche la nota affermazione heideggeriana su verità e bellezza: «La verità è il non-esser-nascosto dell’ente in quanto ente. La verità è la verità dell’essere. La bellezza non è qualcosa che si accompagni a questa verità. Ponendosi in opera, la verità appare. L’apparire, in quanto apparire di questo essere-in-opera e in quanto opera, è la bellezza», in M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte (Der Ursprung des Kunstwerkes), in Sentieri interrotti (Holzwege, 1950), trad. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 64.
7 H.U. von Balthasar, Gloria. Una estetica teologica (Herrlichkeit), vol. 1, La percezione della forma (Schau der Gestalt, 1961), trad. di G. Ruggieri, Jaca Book, Milano 2012, pp. 132-133. Mi sembra molto importante aggiungere che Ruggieri fa notare che il sistema teologico di von Balthasar ha preso ispirazione e si è occupato anche dei santi e dei mistici (inserendo infatti in Herrlichkeit una metafisica dei santi), come se la gloria fosse coglibile – proprio come il caso del Narratore sta ad attestare – attraverso lo studio dei rapimenti estatici. E ciò lo si dice a riprova di quanto in questo testo si cerca di sostenere.
8 Cfr. ivi, p. 133.
9 Lo stesso von Balthasar si confronta con Heidegger in Id., Gloria. Una estetica teologica (Herrlichkeit), vol. 5, Nello spazio della metafisica. L’epoca moderna (Im Raum der Metaphysik, 1965), trad. di G. Sommavilla, Jaca Book, Milano 2015, pp. 386-403.
10 Su questo tema mi permetto di rimandare a E. Palma, L’invecchiamento come emozione del Tempo nella Recherche di Marcel Proust, in «Siculorum Gymnasium. A Journal for the Humanities», 5, LXXII, 2019, pp. 313-330.
11 H.U. von Balthasar, La percezione della forma, cit., p. 204.
12 L. Feuerbach, L’essenza del cristianesimo (Das Wesen des Christentums, 1841), trad. di C. Cometti, Feltrinelli, Milano 1994, p. 136.
13 Questa denominazione, benché con premesse diverse, si trova in A. Piperno, Proust senza tempo, Mondadori, Milano 2022.
14 In questa direzione vanno molti studi su Proust, che ricordo: E.R. Curtius, Marcel Proust, trad. di L. Ritter Santini, Ledizioni, Milano 2009; G. Debenedetti, Proust, a cura di M. Lavagetto e V. Pietrantonio, Bollati Boringhieri, Torino 2005; E. Sparvoli, Contro il corpo. Proust e il romanzo immateriale, FrancoAngeli, Milano 1997. Per la verità, questo saggio potrebbe dare adito a una giusta obiezione, considerare cioè Proust da una parte un materialista e dall’altra uno spiritualista in modo contrastivo tra di loro. Sono entrambe posizioni ermeneutiche che corrispondono al vero e da ritenere l’una la premessa dell’altra, essendo proprio il corpo – con le sue passioni, ricordi e percezioni – il catalizzatore attraverso il quale le essenze della materia, tra cui anche quella temporale, trovano spazio nell’opera trasformate in spirito. Su Proust e il sensibile, per completezza, rimando invece a J. Kristeva, Le temps sensible. Proust et l’expérience littéraire, Gallimard, Parigi 1994; J.-P. Richard, Proust et le monde sensible, Éditions du Seuil, Paris 1974.
15 Su questo concetto cfr. S. Brugnolo, Dalla parte di Proust, Carocci, Roma 2022.
16 Sull’αεί in Proust si è espresso anche M. de Beistegui, Proust e la gioia. Per un’estetica della metafora (La jouissance de Proust. Pour une eshétique de la métaphore, 2007), a cura di L. Amoroso, Edizioni ETS, Pisa 2013.
17 M. Heidegger, Il concetto di tempo (Der Begriff der Zeit, 1989), a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2010, p. 24.
18 Ivi, p. 31.
19 Le considerazioni teologico-metafisiche qui tentate sono comunque debitrici e sullo sfondo di A.G. Biuso, Tempo e materia. Una metafisica, Leo S. Olschki Editore, Firenze 2020.
20 Cfr. M. Proust, La Prisonnière, in À la recherche du temps perdu, édition publiée sous la direction de J.-Y. Tadié (1987-89), Gallimard, Paris 2019, p. 1797; trad. p. 308.
21 Id., Le Temps retrouvé, cit., p. 2391. «Sì, a quest’opera, l’idea del Tempo che mi ero appena formata diceva che era ora che mi ci mettessi. Era ora», trad. p. 452. In questa traduzione, per quanto chiara e sensata, si perde tuttavia la ripetizione della parola temps. Ripetizione che, lo si sarà capito, fa il paio con quella di Celan nei versi posti in esergo.
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