Dioniso e i non-più-umani

Di: Marco Iuliano
1 Settembre 2022

 

«La stessa cosa è il vivente e il morto, lo sveglio e il dormiente, il giovane e il vecchio, perché queste cose mutandosi sono quelle e quelle a loro volta mutandosi sono queste».  (Eraclito)

«Iu cia stàtu comu a tia. Tu nun sai si ci si comu a mia». (Nonno Ludovico)

«Per lottare contro l’astratto bisogna un po’ somigliarvi» (Albert Camus, La peste)

 

Sulla scia eraclitea diremo che il morto non è nient’altro che il vivo. In che modo è vivo? Se la vita è una modalità dell’essere e non l’essere stesso, se essa non comporta la censura del potenziale allora anche il morto è in vita. Morto è, secondo la tradizione antropocentrica e nichilista, ciò che non è più umano, il reificato, l’inanimato e, con De Martino diremo, colui che non può più interfacciarsi a un esoscheletro valoriale e che esperisce il limite come il salto dal pieno al vuoto. E ancora morto, secondo questa erronea prospettiva, è sia l’ente non più materico, puramente verbale, e sia ciò che non viene accettato dall’epistemologia ufficiale.
Le credenze sull’aldilà di stampo dionisiaco risultano scandalose al loro emergere perché portano in grembo il grande peso del potenziale. Dioniso è per eccellenza il dio delle seconde possibilità ma anche dell’anarchia e quindi dei contropoteri. A Roma infatti «si teme che culti di questo tipo possano minacciare l’esistenza stessa della res publica, creando comunità che seguono leggi diverse da quelle dello stato e danno vita a vere e proprie congiure»1. È curioso, a questo proposito, scorgere che l’aggettivo ‘nefastus’, col quale si qualificavano i giorni delle festività dionisiache, abbia parentela col termine latino nefas, che significa ‘illecito’ e il cui contrario è fas, ovvero, lecito. Non solo. Fas è ciò che si può dire, nefas ciò che non si può dire.
Zagreo, adelphós di Apollo, conduce un esercito di non umani. Chiuso nelle segrete tebane (Euripide), questo dio ripetutamente oltraggiato sa che presto le sue milizie di menadi, satiri e sileni prenderanno il controllo della città. Egli è il sovrano del caso, della ‘vita indistruttibile’, degli anormali e dei reietti. «Dioniso fu, in ogni età, δημοτικός, un dio del popolo»2 ma anche delle soggettività multiple, dell’ibridazione con la teriosfera e quindi con l’ecosistema. Prende le vesti di diversi animali, di piante e arbusti, «domina la zona oscura che precede l’ordine dell’esistenza civilizzata, dove si stabiliscono vincoli immediati tra uomini, animali e natura»3. Questa divinità emerge dal miasma e si declina nella kàtharsis. Vive nella tensione tra questi due aspetti della vita che, come ricorda Vegetti, caratterizzano l’esserci dell’uomo greco.

 

I cittadini di un’eterotopia

La novità rappresentata dal culto di Dioniso ossia la sua differente proposta nell’abitare l’aldilà è documentata nel «repertorio figurativo connesso al mondo muliebre e alla cerchia afrodisiaca»4 della necropoli di Lipari:

questo cambiamento, questa profonda e radicale trasformazione sia delle forme vascolari che del repertorio figurativo, a cui assistiamo non solo a Lipari ma in tutta la Sicilia, non può essere solo l’espressione di una moda, ma deve essere il riflesso di un nuovo verbo, di un nuovo complesso di dottrine escatologiche, di idee sul mondo ultraterreno, diffusosi al principio dell’Ellenismo, e che porta a un nuovo simbolismo delle beatitudini di cui l’anima del giusto o dell’iniziato è chiamata a godere dopo la morte.5

L’evidenza che tale culto porta con sé, a partire da queste brevi considerazioni archeologiche, non è tanto la presenza dell’altra dimensione, cosa alquanto nota alla grecità, come ricorda Dodds, già dall’epoca neolitica6 e prima di ogni possibile sciamano, saggio e poi fisiologo quanto l’incontro di psyche e soma. «Psyche è anzi il corrispondente spirituale di soma. In attico ambedue i termini possono assumere il significato di “vita”»7. Per questo Dioniso ha poco a che vedere con lo ‘sciamano’ Orfeo o col cristianesimo. Il ‘giusto’ e ‘l’iniziato’ continueranno a vivere. La storia del sottosuolo, da Dioniso a noi, non è solo il portato di valide ragioni psicologiche ma piena espressione di convivenza con ciò che non si è più o non si è ancora. Con l’altra faccia del sacro, il sacro impuro, caotico, sfuggente e mutante come Proteo.
I non viventi, come coloro che non partecipano più al paradigma politico della vita e del sostantivo-stigma ‘umano’, sono liberi. Tornano ad Atene per le Anthesterie, che «duravano tre giorni, considerati nefasti, durante i quali la città era invasa dai morti tornati tra i vivi»8. Kerényi ricorda che «le anime giungevano dal mondo sotterraneo, attirate dal profumo del vino che dai píthoi aperti si diffondeva per tutta la città»9. Quelli descritti dallo storico sono non viventi assetati di vino, che continuano tranquillamente a vivere come prima ma liberi. Questi morti sembrano anche un poco stanchi delle putride acque delle paludi dell’Averno dalle quali emergevano durante le emigrazioni da un mondo all’altro. I non umani perciò si spostano nei territori del Nulla incoscienti delle forme pure a-priori, sono simbionti apolidi che si muovono in un sogno. È infatti noto che nelle esperienze oniriche luoghi, persone, eventi si fondino tra loro al di là dello spaziotempo. Di questo, il sogno dello sciamano, tra la vita e la non-vita, è l’esempio più lampante della contaminazione tra mondi, tra la vita convenzionale e la ‘vita offesa’, tra la natura e la cultura.
Il non più umano è anche, foucaultianamente, il parresiasta: la compulsività evitante di Penteo, la fraternità di Nietzsche con Dioniso, l’unico Altro ‘virtuale’ al quale il filosofo può ‘dire il vero’ e ancora le Anthesterie che sollevano il pericolo della presenza degli spiriti sovversivi sono tutti elementi che fanno pensare all’innalzamento di una barriera tra il folle e il sano, tra razionale e irrazionale, tra ciò che è incluso nella polis e ciò che, invece, non lo è. Un restringimento della cittadella ontologica che nel caso dei morti sfocia nell’Editto di Saint Cloud napoleonico. Del mutamento in seno alla considerazione della follia Foucault ci ha parlato ampiamente. Che dire, poi, delle maschere viste negli spettacoli da vivi che sono il bigliettino da visita per l’altro mondo dionisiaco? De Martino dice che «i morti non fatti morire dai vivi tendono a tornare in modo irrisolvente, magari in una maschera che li rende irriconoscibili e contaminando tutto il fronte delle situazioni possibili nella vita reale»10. È il caso dei tre giorni nefasti dedicati a Dioniso.
A Roma, durante le festività dedicate a Cerere ‘l’altro mondo’ invadeva lo spazio dell’Urbe risalendo la fossa sacra, luogo alquanto più asettico delle paludi dionisiache e in cui era stato consumato il fratricidio originale che aveva segnato il passaggio dalla fondazione mitica a quella politico-razionale della città. Anche durante il mundus patet  la città si capovolgeva ed era bene interdire qualsiasi attività pubblica e militare, chiudere porte di abitazioni e templi poiché gli spiriti liberi circolavano dappertutto. L’ora d’aria concessa a questi enti ricorda un rito sacrificale. I morti sono il capro espiatorio di una civiltà transumanistica. Si concede loro del tempo per vagare, divertirsi, impossessarsi di corpi viventi. Poi però è necessario che tornino da dove sono venuti per lasciare immutata la stella cometa della civiltà del progresso. Il morto, così come il folle, l’anormale, rappresentano il fuori, la zona interdetta, illegale ma anche a-legale, la nudità, tutto ciò di cui abbiamo paura e che vogliamo dimenticare e far cadere nell’oblio. La libertà di dire il vero è invece la libertà dei folli che abitano l’eterotopia, tra i quali il Sileno-Socrate. «Un passo platonico sembra incidentalmente alludere alla partecipazione personale di Socrate ai riti coribantici»11.

In Oltre il linguaggio Severino indica la presenza di «un luogo – storico o anche soltanto “ideale” – in cui l’evocazione greca del divenire sprigiona la forma estrema dell’angoscia – l’angoscia per il nulla di cui l’uomo e le cose sono preda. […] In quel luogo abita la saggezza dionisiaca del Sileno».12

L’eterotopia, un posto diverso, è lo spaziotempo degli altri, degli anormali, dei morti. Socrate la abita, sin da vivo. Egli è nefando, dice l’indicibile, ciò che non deve essere pronunciato, è empio. Non solo folle ma anche tafano. Racchiude in sé, come ricorda Foucault, tutte le contraddizioni della democrazia. Nel gioco democratico infatti Socrate non può dire il vero. L’eleutherìa del morto e del sapiente si fondono. I morti, nelle apparizioni ai vivi, sovente dicono la verità, formulano vaticini, sovvertono l’ordine delle parole e delle cose, così come il folle, il visionario, lo schizoide. Il coraggio della verità è il coraggio dei già morti da vivi e la morte apparente, sulla scia di Sloterdijk, è l’unico sistema immunitario possibile per i filosofi.

 

Noi: gli altri

La prossimità è il terreno del possibile. E così da un semplice orologio appeso al muro (secondo la leggenda bulgara riportata da Testoni) i non viventi possono venir fuori durante una veglia funebre. Altri non umani abitano sotto di noi, nelle necropoli:

sotto le città abitate dai corpi vivi, si erigeva dunque la città dei morti che accoglieva le anime dei compianti. Ciò che di fatto le azioni di trionfazione ricordavano attraverso le narrazioni della trascendenza era che al di là del visibile esistono dimore ulteriori in cui il principio identitario individuale può abitare dopo la dipartita.13

Altri, cristianamente (ma molto paganamente) esigono di essere rinfrescati con secchi d’acqua durante l’estate. Guardarsi allo specchio in prossimità ad una salma espone al pericolo del furto d’identità. Cos’altro significherebbero, poi, gli omaggi funebri presenti nelle tombe, le mummificazioni, se non una certezza/desiderio della continuità, una considerazione debole della soglia che separa i due mondi? Ne sono una prova gli unguenti, i profumi, le decorazioni per il corpo, le maschere del teatro; le innumerevoli anfore, coppe, appartenenti ad ogni tempo e civiltà che riempiono le vetrine dei nostri musei in modo quasi epidemico. Della vita oltre la morte, o della vita del morto, ce ne danno notizia anche altre culture. Ad esempio in Ghana, gli antenati della tribù dei Tallensi diventano coccodrilli.
Una buona morte (un buon trapasso), ricorda la mitologia greca, è la conseguenza di una buona vita. Ma la buona morte è ancora una faccenda essenzialmente settaria. Nei riti di Dioniso e in quelli dei Tallensi documentati da Remotti e studiati da Meyer Fortes vige un criterio di distinzione: pochi ambiscono o possono accedere alla sacralità di Dioniso e, nel caso dei Tallensi, non tutti gli avi possono risomatizzarsi nei coccodrilli. Anzi, per i Tallensi stessi c’è una differenza molto ampia tra uomo e animale ma un diverso approccio all’animalità con cui si condivide «il respiro (vo-hem14, la zoé. Meritano una parentesi anche i non umani quali piante e animali. Essi sono commestibili perché già morti. Un piccolo fattore di coincidenza e coesistenza con gli altri animali è possibile, per uomini e donne, solo nel momento della dipartita. L’animale, questo falso idolo materico, è limitato a un’esperienza temporale al limite del verosimile mentre ciò che vige al di fuori dei tempi è riservato all’uomo, all’eterno. Nel lungo processo di secolarizzazione del sacro abbiamo depotenziato il mondo per potenziare l’uomo. E uomo, solipsisticamente, divenne sinonimo e criterio di verità.

 

Nascosto e manifesto

Mio nonno recitava a noi nipoti, quasi a mò di ammonimento stoico (Epitteto sosteneva che bisognava tenere presente persino ai propri figli il memento mori), un proverbio che diceva pressoché così: ‘io sono stato come tu sei ora. Tu non sai se sarai come ora sono io’. Questo esempio di saggezza popolare siciliana non smette di illustrare la caduta che avviene nelle necropoli del tempo. Husserl ha avuto modo di spiegare che i contenuti della coscienza emergono e sprofondano con intensità variabili, e così il soma diviene, muta, si ibrida, si inabissa negli inferi. Allora diremo che morte, secondo questo breve resoconto etnologico sui greci, è sinonimo di metamorfosi, non di Nulla. Ciò che ora i sensi mi mostrano è ciò che prima era nascosto. Dioniso ci insegna che bisogna reimparare a guardare. Bisogna accettare la complessità, i morti che non vogliamo ricordare, coloro che non la pensano o agiscono come noi e un certo quantitativo di dubbio esistenziale. È un dio che, anche se può sembrare paradossale, opera a favore della polis e per la diversità ontologica: «Dioniso, nell’età arcaica, rappresentava dunque una necessità sociale non meno di Apollo. Entrambi combattevano, ciascuno a suo modo, le ansie caratteristiche di una civiltà di colpa»15.
Dopo le stagioni platoniche, aristoteliche, stoiche, cristiane, cartesiane, capitalistiche trattiamo invece l’alterità come il Nulla e viceversa. Dimentichiamo che l’essere, o la natura, è il territorio della possibilità non del dogma. Infatti l’unico dogma della natura è propriamente quello di non avere dogmi. In che misura il virtuale c’è? E soprattutto cosa inseriamo al suo interno? Tutto. Tutto ciò che è umano. Tutto ciò che crediamo, in quanto soggettività, essere la perfezione, la nostra stella ascetica (Nietzsche-Sloterdijk). La verità è che il dubbio ci incute timore e perciò l’altro, il morto, il nulla, l’inanimato diventano solo l’alter ego delle nostre più radicate paure, contenitori universali dentro cui lasciarci alle spalle il limite.

 

Note

1 M. Bettini, Elogio del politeismo. Quello che possiamo imparare oggi dalle religioni antiche, Il Mulino, Bologna 2014, p.130.

2 E. Dodds, I Greci e l’irrazionale (The Greeks and the Irrational, 1951), trad. di V. Vacca De Bosis, BUR Rizzoli, Milano 2020, p. 121.

3 M. Vegetti in L’uomo greco, a cura di J. P. Vernant, Editori Laterza, Roma-Bari 1991, p. 269.

4 G. Sofia, Le terrecotte teatrali nei corredi funerari e il ruolo di Dióniso nel culto dei defunti: nuove riflessioni dalle necropoli della cuspide nord-orientale della Sicilia, in Teatro, musica e danza nella Sicilia antica, Edizioni Lussografica, Caltanissetta 2020, p. 192.

5 Ivi, p. 183.

6  E. Dodds, I Greci e l’irrazionale, cit., p. 184.

7 Ivi p. 186.

8 G. Sofia, Le terrecotte teatrali nei corredi funerari e il ruolo di Dióniso nel culto dei defunti: nuove riflessioni dalle necropoli della cuspide nord-orientale della Sicilia, cit., p. 198.

9 K. Kerenyi, Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile (Dionysos. Urbild des unzerstörbaren Lebens, 1976), trad. di L. Del Corno, Adelphi, Milano 1992, p. 280.

10 E. De Martino, La fine del mondo. Contributi all’analisi delle apocalissi culturali (La fin du mond. Essai sur les apocalypses culturelles, 2016), trad. di A. Iuso, Einaudi, Torino 2019, p. 152.

11 E. Dodds, I Greci e l’irrazionale, cit., p. 124.

12 I. Testoni, Il grande libro della morte. Miti e riti dalla preistoria ai cyborg, Il Saggiatore, Milano 2021, p. 216.

13 Ivi, p. 72.

14 F. Remotti, Noi, primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 307.

15 E. Dodds, I Greci e l’irrazionale, cit., p. 121.

 

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