(Tre) corpi al margine del caos

Di: Alessandro Pluchino
4 Gennaio 2022

 

Come è noto, il Tre è spesso considerato il numero perfetto da diversi punti di vista: dal punto di vista matematico costituisce la sintesi del pari (due) e del dispari (uno); dal punto di vista esoterico è il simbolo della Grande Triade (Cielo, Terra, Uomo); infine, dal punto di vista religioso, rappresenta la perfezione divina (si pensi alla Trinità del Cristianesimo o alla Trimurti induista). Pochi forse sanno, però, che allo stesso tempo il tre rappresenta anche la soglia dell’imperfezione, il numero magico che ha condotto la fisica moderna al confine tra ordine e disordine, in quella strana regione oggi conosciuta come “Margine del Caos”, spalancando così le porte alla nuova Scienza della Complessità. E la scintilla da cui questa rivoluzione concettuale è partita riguardava un problema di corpi. Per la precisione, appunto, di tre corpi.


Tutto cominciò la notte tra il 31 agosto e il primo settembre del 1879 in una miniera di carbone di Magny, nella Borgogna francese. Alle 3.45 circa del mattino un’esplosione improvvisa scosse la miniera, ustionando e uccidendo gran parte della squadra di ventidue minatori che si trovavano al lavoro a quell’ora. Fu soltanto la perizia e l’acume scientifico di un giovane ingegnere incaricato delle indagini a permettere di risalire alla causa prima dell’esplosione: si era trattato di una lampada perforata accidentalmente che aveva lasciato uscire la fiamma da cui poi, a contatto con un’atmosfera ricca di metano come quella della miniera, aveva avuto inizio il processo che avrebbe portato alla conflagrazione. Quel giovane ingegnere, appena venticinquenne, si chiamava Jules-Henri Poincaré, colui che più avanti si sarebbe distinto come uno dei più grandi matematici e fisici di fine Ottocento (all’epoca si poteva essere ingegnere, matematico e fisico allo stesso tempo!) e che è considerato oggi uno dei padri della teoria dei sistemi dinamici e il precursore assoluto della moderna teoria del Caos. Sarà lui il principale protagonista della storia che stiamo per raccontarvi.
Poincaré è spesso ricordato come l’ultimo universalista in matematica, vista l’ampiezza di orizzonti del suo eccezionale lavoro in questa disciplina. Partendo dalla matematica pura, i suoi contributi sono arrivati ad abbracciare, nel tempo, la matematica applicata, la fisica matematica e la meccanica celeste. Ed è proprio il suo interesse per la meccanica celeste che, in questa sede, ci servirà prendere in considerazione. L’esperienza vissuta in gioventù in occasione dell’esplosione della miniera di Magny aveva certamente lasciato dentro di lui un segno indelebile, tanto che nel suo ultimo articolo “Les Mines”, pubblicato nel 1912 poco prima di morire prematuramente a causa di un’embolia seguita ad un intervento chirurgico, inserì la piccola immagine di una lampada simile a quella che nel 1879 aveva provocato il disastro e scrisse: “Una sola scintilla è sufficiente ad avviare la combustione […]; mi rifiuto di descrivere gli orrori che ne seguono1. Forse, quindi, è stato proprio quell’evento a gettare le basi affinché, nella mente del giovane Poincarè, prendesse forma quell’intuizione che avrebbe messo a frutto nei suoi studi in meccanica celeste e che poi, un secolo dopo, sarebbe diventata uno dei princìpi cardine della Teoria del Caos e, oggi, addirittura della nuova Scienza della Complessità: il principio, assolutamente contro intuitivo, secondo cui piccole cause possono produrre, in certe condizioni, effetti anche enormi. Ma procediamo con ordine.
Nel luglio del 1885 la rivista Nature annunciò un concorso matematico in onore del sessantesimo compleanno del re di Svezia, per il quale bisognava presentare un lavoro entro il primo giugno 1888. Il tema del concorso era il seguente:

Dato un sistema di un numero arbitrario di masse puntiformi che si attraggono l’un l’altra in accordo alla legge dell’inverso del quadrato di Newton, con l’ipotesi che non vi siano masse che collidono, cerca di trovare una rappresentazione delle coordinate di ogni massa come una serie in una variabile, che sia una funzione nota del tempo, e che per tutti i valori converga uniformemente2.

Si trattava di un quesito matematico legato a quella che, in quel periodo, rappresentava una delle grandi sfide della meccanica celeste: il cosiddetto “Problema dei tre corpi”.
Non è difficile capire di cosa si tratta e in cosa consistesse la difficoltà della sfida.
La teoria della gravitazione, formulata nel 1687 dal grande scienziato inglese Isaac Newton e pubblicata nel suo celeberrimo Philosophiae Naturalis Principia Mathematica, aveva permesso di calcolare con precisione la traiettoria di un singolo pianeta attorno al Sole, a patto di trascurare l’interazione gravitazionale di questi corpi con gli altri pianeti e gli eventuali satelliti: era questo il cosiddetto “problema dei due corpi”, del quale era possibile non solo scrivere facilmente le equazioni dinamiche ma anche ricavare, appunto, una soluzione analitica esatta in grado di prevedere, a partire da assegnate condizioni iniziali, il comportamento a lungo termine del pianeta lungo la sua orbita periodica attorno al Sole. Nel caso di più di due corpi però le cose sembravano complicarsi: già con soli tre corpi le equazioni differenziali da risolvere diventavano diciotto, ma si riteneva trattarsi di una questione solo quantitativamente diversa da quella a due corpi, nel senso di una maggiore difficoltà matematica, ed era convinzione comune che comunque, sotto certe approssimazioni, si sarebbero riuscite a ricavare soluzioni analitiche esatte anche in questo caso.

Torniamo dunque al concorso annunciato nel 1885 da Nature. Nonostante avesse a quell’epoca solo 31 anni, Poincaré era già considerato uno dei più importanti scienziati del suo paese, tanto che due anni dopo venne invitato a far parte della Académie des Sciences francese. Non poteva quindi esimersi dal prendere parte alla competizione, anche perché quello dei tre corpi era un problema che lo affascinava già da diversi anni. La posta in gioco non era soddisfare una semplice curiosità matematica, ma era in ballo addirittura la stabilità a lungo termine del sistema solare, una delle problematiche fondamentali della meccanica celeste. Già nel 1881 scriveva infatti:

Non è forse possibile domandarsi se uno dei corpi rimarrà sempre in una certa regione del cielo o se invece potrà allontanarsene indefinitamente? Se la distanza tra due corpi aumenterà o diminuirà sempre di più, o se, invece, rimarrà compresa tra certi valori limite? Non è forse possibile porsi migliaia di interrogativi di questo genere, che avranno tutti risposta non appena si sapranno costruire qualitativamente le traiettorie dei tre corpi?3

Nella memoria che presentò nel 1887 alla commissione giudicatrice del concorso, formata – tra gli altri – da matematici del calibro di Hermite e Weierstrass, il giovane Poincaré cercava di rispondere a queste domande con un approccio diverso da quello tradizionale, meno quantitativo e formale, ma più qualitativo e intuitivo, orientato verso metodi visivi. Propose infatti di studiare la stabilità dell’orbita periodica di un piccolo asteroide lanciato nel campo gravitazionale del sistema formato, ad esempio, da Giove e dal Sole, ricorrendo ad uno strumento assolutamente innovativo, oggi noto come il metodo della “sezione di Poincarè”: invece di seguire la traiettoria dell’asteroide nello spazio tridimensionale, immaginò di “tagliare” trasversalmente quella traiettoria con un piano – pensate ad esempio ad un enorme foglio di carta di dimensioni analoghe a quelle dell’orbita dell’asteroide – e di esaminare il comportamento nel tempo dei punti di intersezione della traiettoria con quel piano, come fossero dei piccoli fori prodotti dall’asteroide ogni volta che attraversava il foglio di carta mentre percorreva la sua orbita nel sistema Giove-Sole. Questa si rivelò un’idea geniale per due motivi: innanzitutto riduceva il problema dalle tre dimensioni della traiettoria originale alle due dimensioni del piano rappresentato dalla sezione scelta (il nostro foglio di carta), e questo già semplificava molto le cose; poi trasformava un problema “continuo” in uno “discreto”, nel senso che consentiva di studiare una traiettoria periodica continua nel tempo per mezzo della sequenza discreta (iterativa) dei suoi punti di intersezione con la sezione trasversale (i fori prodotti nel foglio).

La legge matematica che descrive la successione nel tempo di queste iterazioni viene oggi chiamata “Mappa di Poincarè” e rappresenta il primo esempio di “mappa iterativa”. Per mezzo di questo nuovo strumento matematico Poincaré riuscì a dimostrare che la sequenza di intersezioni della traiettoria dell’asteroide con la sezione trasversale finiva quasi sempre per convergere in un punto particolare, detto “punto fisso” della mappa, su cui si stabilizzava definitivamente: come se alla fine l’asteroide fosse costretto a passare e ripassare sempre dallo stesso foro nel nostro immenso foglio di carta. E anche se a volte poteva allontanarsi da un certo punto fisso, la sequenza di intersezioni avrebbe sempre finito per convergere verso un altro punto fisso. Era, questo, un risultato fondamentale che certamente avrebbe confortato tutti coloro che temevano per le sorti della stabilità a lungo termine del nostro sistema solare. Inutile dire che, con un risultato del genere, Poincaré non ebbe difficoltà a vincere il concorso di Nature, con i complimenti della commissione e di tutta la comunità scientifica dell’epoca. Purtroppo però (o, col senno di poi, per fortuna!) la soddisfazione per questo meritato successo non durò molto.


Infatti, nel luglio del 1889, proprio quando la memoria con cui aveva vinto il concorso stava per essere pubblicata sugli Acta Mathematica, uno dei redattori della rivista, il matematico svedese Lars Edvard Phragmén, segnalò alcuni piccoli errori nella dimostrazione di Poincarè. Sebbene il direttore della rivista, il noto matematico Gösta Mittag-Leffler (colui che qualche anno prima aveva avuto il compito di selezionare la giuria del concorso), cercasse di rassicurarlo dicendo che si trattava di un problema facilmente risolvibile, Poincaré si accorse immediatamente che dietro quegli errori apparentemente banali si nascondeva invece qualcosa di molto più profondo. Così scrisse qualche mese dopo allo stesso Gösta Mittag-Leffler:

Non vi nascondo l’ambascia che mi procura questa scoperta. Anzitutto non so se giudichiate i risultati che rimangono validi, ossia l’esistenza di soluzioni periodiche, le soluzioni asintotiche [e le mie critiche dei metodi precedenti], ancora meritevoli dell’alto onore del premio di cui mi avete insignito. La revisione richiederà, inoltre, molto lavoro e non so se potrete iniziare a stampare la memoria; ho telegrafato a Phragmén. Comunque sia, non posso fare altro che confidare le mie perplessità a un amico sincero quale voi siete. Vi scriverò non appena riuscirò a vedere le cose più chiaramente.4

Il direttore della rivista rispose ovviamente che non c’era alcun rischio che questo inconveniente mettesse in dubbio la genialità del lavoro di Poincarè e il fatto che avesse meritato il premio, ma gli confessò anche che ormai la sua memoria era stata già stampata e distribuita, anche se ancora in poche copie. Si premurò però di avvertire i destinatari, tra cui Hermite e Weierstrass, del problema. Nel frattempo Poincarè lavorava per risolverlo.

Riprendendo in considerazione la sequenza di intersezioni della traiettoria orbitale dell’asteroide con la sua sezione, una volta corretti gli errori segnalati da Phragmén, il matematico francese si rese conto che alcune delle nuove sequenze mostravano un comportamento completamente diverso da quelle che aveva ricavato in precedenza: a volte infatti, quando le intersezioni si allontanavano da un punto fisso, invece di convergere verso un altro punto fisso rimanevano intrappolate in una sequenza che continuava indefinitamente ad allontanarsi dal punto fisso originario (lungo una curva di instabilità) ma anche ad avvicinarsi ad esso (lungo una curva di stabilità), finendo per punteggiare in maniera imprevedibile tutta la sezione di Poincarè. La sequenza complessiva che veniva fuori dall’interazione tra queste curve ideali era talmente irregolare che lo stesso matematico francese rinunciò presto alla pretesa di rappresentarla graficamente, e così la descrisse successivamente nel terzo volume del suo Méthodes nouvelles de la mécanique céleste (1882-1889):

Tentiamo di farci un’idea della figura formata da queste due curve e delle loro intersezioni, che sono in numero infinito e corrispondono ciascuna a una soluzione doppiamente asintotica; queste intersezioni formano una sorta di reticolo, di ordito, di rete dalle maglie infinitamente fitte; ciascuna delle due curve non deve mai intersecare se stessa, ma deve ripiegarsi su se stessa in maniera assai complicata per poter intersecare un’infinità di volte tutte le maglie della rete.5

Lo sconcerto di Poincarè di fronte a quella situazione non era ovviamente immotivato. Oggi sappiamo che la soluzione generale delle equazioni che descrivono l’evoluzione nel tempo di tre corpi in interazione gravitazionale reciproca esiste ed è analitica, ma non è possibile scriverne una forma esplicita che sia più semplice delle equazioni originarie. È invece possibile ricavare delle soluzioni approssimate di tipo numerico (cioè al calcolatore) o basate su perturbazioni. Ma anche in questi casi i risultati trovati sono validi solo all’interno di intervalli limitati di tempo: come aveva capito Poincarè già a fine Ottocento, prima o poi quei risultati finiscono per divergere e il comportamento a lungo termine del sistema diventa assolutamente imprevedibile. Morale della favola: nel tentativo di risolvere il problema dei tre corpi in meccanica celeste, Poincarè si era imbattuto in quello che, circa cento anni dopo, sarebbe diventato uno dei concetti più rivoluzionari della storia della fisica. Senza rendersene conto, infatti, lo scienziato francese aveva scoperto il “Caos Deterministico”.

Questa definizione può sembrare, a prima vista, un ossimoro. Per il senso comune, infatti, caos è sinonimo di imprevedibilità, mentre determinismo è sinonimo di prevedibilità. Sin da quando era nata, alla fine del Settecento, la meccanica celeste si era fondata sulla concezione deterministica della realtà elaborata da Pierre-Simon Laplace, il matematico, fisico e astronomo francese che le aveva dato quel nome nella sua opera in cinque volumi Mécanique Céleste (1799-1825), realizzata riassumendo ed estendendo il lavoro dei suoi predecessori (da Galileo e Keplero fino a Netwon e Lagrange). Laplace considerava i fenomeni del mondo naturale come legati tra loro da precisi rapporti di causa-effetto: nella meccanica classica questa concezione si traduceva nel fatto che la conoscenza delle condizioni iniziali di posizione e velocità di un corpo o di un sistema di corpi, unite alla conoscenza delle leggi che ne descrivono il moto, consentono deterministicamente di prevedere – almeno in linea di principio – l’evoluzione futura del sistema. Per questo, in un passaggio poi divenuto celebre, Laplace scriveva:

Possiamo considerare lo stato attuale dell’universo come l’effetto del suo passato e la causa del suo futuro. Una intelligenza che, per un istante dato, potesse conoscere tutte le forze da cui la natura è animata e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, e che inoltre fosse abbastanza grande da sottomettere questi dati all’analisi, abbraccerebbe nella stessa formula i movimenti dei più grandi corpi dell’universo e quelli dell’atomo più leggero: nulla le risulterebbe incerto, l’avvenire come il passato sarebbe presente ai suoi occhi.6

Certamente egli era consapevole del fatto che un’intelligenza di questo tipo doveva avere caratteristiche soprannaturali (è quello che viene chiamato “demone di Laplace”) e che, nella realtà di esseri finiti quali noi siamo, la conoscenza inevitabilmente approssimata delle condizioni iniziali di posizione e velocità dei corpi avrebbe prodotto delle imprecisioni nel calcolo delle loro traiettorie. Ma era anche convinto che quelle imprecisioni sarebbero rimaste comunque piccole nel tempo, lasciando sostanzialmente intatta la nostra capacità di prevedere, con buona probabilità, il comportamento futuro del sistema.

Anche la trattazione matematica del problema dei tre corpi, di cui abbiamo discusso nelle pagine precedenti, si collocava all’interno di questa cornice concettuale, che legava strettamente tra loro determinismo e prevedibilità. Ed è per questo che, ai tempi di Poincarè e del concorso promosso da Nature, era dato per scontato che, risolvendo analiticamente le pur complicate equazioni differenziali derivanti dalle leggi del moto di Newton, si sarebbe riusciti a prevedere con una certa precisione il comportamento futuro del sistema a partire da certe condizioni iniziali. L’importanza della scoperta effettuata da Poincarè nel 1889, di cui abbiamo raccontato in dettaglio la genesi, risiedeva proprio nel suo minare alle fondamenta questa convinzione: pur rimanendo perfettamente deterministica, infatti, l’evoluzione a lungo termine delle traiettorie anche di soli tre corpi gravitazionalmente interagenti era destinata a diventare, sotto certe condizioni, completamente imprevedibile e caotica.

Purtroppo però, sia perché i tempi non erano ancora maturi, sia perché in fondo lui era essenzialmente interessato alla questione della stabilità del sistema solare e non a rivoluzionare la scienza dell’epoca, una volta messo in crisi il matrimonio tra determinismo e prevedibilità il geniale matematico francese non spinse le sue conclusioni alle estreme conseguenze ma si limitò a sostituire al concetto di “stabilità assoluta” quello di “stabilità probabilistica”: in pratica riuscì a dimostrare che, se era vero che esistevano infinite potenziali orbite caotiche per il suo asteroide in moto nel campo gravitazionale di Giove e del Sole, la probabilità di trovarsi su una di queste orbite rimaneva comunque molto piccola. E tanto gli bastò per tranquillizzare i suoi contemporanei sulla stabilità del sistema solare e lasciar sopravvivere la convinzione (diciamo pure il sogno) di Laplace per cui piccole cause producono statisticamente effetti altrettanto piccoli. Così si dovette aspettare ancora quasi un secolo prima che l’eredità di Poincarè venisse raccolta dalla fisica moderna e che le sue intuizioni sul caos deterministico, grazie soprattutto all’avvento dei calcolatori elettronici, producessero nei fatti quella rivoluzione epistemologica che lui era riuscito, inconsapevolmente, ad evitare. Come già anticipato, fu infatti l’avvento della Teoria del Caos, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento, a sancire l’inevitabile e definitivo divorzio tra determinismo e prevedibilità con l’introduzione di un concetto che ormai è entrato a far parte dell’immaginario collettivo, grazie anche al suo nome evocativo: l’effetto farfalla.

Nel 1972 il matematico e meteorologo Edward Lorenz, considerato uno dei padri della teoria del caos, tenne una conferenza dal titolo “Può il battito d’ali di una farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas?”. In quella conferenza lo scienziato statunitense cercò di convincere l’audience dell’esistenza di un fenomeno sorprendente, di cui lui stesso si era reso conto grazie ad alcune simulazioni al calcolatore: integrando numericamente le equazioni differenziali che descrivevano un modellino semplificato dell’atmosfera nel tentativo di prevederne l’evoluzione futura, Lorenz aveva infatti scoperto che, in certe condizioni, un’imprecisione anche minuscola nelle condizioni iniziali veniva rapidamente amplificata nel tempo, fino a rendere l’evoluzione del sistema completamente imprevedibile. Questo fenomeno, noto al grande pubblico come “effetto farfalla”, è tecnicamente chiamato “sensibilità alle condizioni iniziali” e rappresenta l’essenza del caos deterministico. Apparve subito chiaro, infatti, che l’effetto farfalla infrangeva definitivamente il sogno di Laplace (che ancora resisteva in ambito macroscopico, visto che in quello microscopico era già stato messo a dura prova all’inizio del Novecento dalle scoperte della Meccanica Quantistica): in un sistema caotico, cause molto piccole, lungi dal rimanere tali nel tempo, possono produrre a lungo termine effetti anche enormi.

Il potere computazionale dei calcolatori, che aveva messo Lorenz in condizioni di toccare con mano l’instabilità dinamica intuita un secolo prima da Poincarè nello studio del problema dei tre corpi, permise al meteorologo statunitense addirittura di visualizzare su uno schermo quello che poi divenne uno dei principali simboli della teoria del caos: stiamo parlando del famoso “attrattore caotico di Lorenz”, un oggetto geometrico estremamente complesso che prende forma in uno spazio tridimensionale virtuale detto “spazio degli stati”, dove un punto rappresenta l’intero sistema e una curva rappresenta la traiettoria di quel sistema al passare del tempo. Questo attrattore rappresenta, tecnicamente, “l’insieme di tutti gli stati meteorologici che il sistema può assumere dopo un tempo abbastanza lungo perché lo stato iniziale non eserciti più effetto” e a prima vista sembra composto da due superfici bidimensionali che, curiosamente, si intersecano come “ali” di una farfalla. In realtà, come scoprì lo stesso Lorenz, esso è formato da un numero infinito di superfici vicinissime e molto simili tra loro, ciascuna delle quali è a sua volta costituita da altre due superfici e così via, all’infinito. Per quanto indubbiamente strana, questo tipo di struttura – come si scoprì in seguito – possiede una geometria estremamente comune in natura, detta “geometria frattale”7.

Presto ci si rese conto che, per poter osservare un attrattore caotico in un sistema dinamico governato da equazioni differenziali, era necessario un numero minimo di dimensioni per lo spazio degli stati. A questo punto il lettore non sarà forse sorpreso dallo scoprire che questo numero è proprio tre! Affinché l’effetto farfalla possa manifestarsi, infatti, è necessario che le curve che descrivono le traiettorie di due sistemi che partono da condizioni iniziali molto vicine tra loro nello spazio degli stati, devono essere in grado di divergere senza intersecarsi e rimanere nel contempo confinate in una regione di spazio finita (che conterrà l’attrattore caotico). E solo in spazi ad almeno tre dimensioni queste condizioni possono essere simultaneamente soddisfatte. In questo senso, come avevamo anticipato in apertura, possiamo dire che il tre non rappresenta, simbolicamente, solo la perfezione, ma – almeno dal punto di vista della teoria del caos – anche la soglia dell’imperfezione.

Nell’avviarci alla conclusione della nostra storia, non possiamo non ricordare che, in realtà, lo sviluppo della teoria del caos negli anni Settanta del secolo scorso è storicamente legato, non solo al sistema dinamico di Lorenz, ma anche ad un altro sistema dinamico deterministico sulla carta ancora più semplice, forse uno dei più semplici che sia possibile immaginare, ma che ancora oggi continua a sorprendere i fisici e i matematici per la complessità del suo comportamento. E anche in questo caso troviamo lo zampino di Poincaré. Ricordate il concetto di “mappa” introdotto dal matematico francese per descrivere le intersezioni periodiche del suo asteroide con il piano trasversale immaginario? Al contrario dei sistemi dinamici descritti da equazioni differenziali, una mappa è un sistema dinamico discreto e dunque non è soggetto ai vincoli matematici che vietano l’intersezione delle traiettorie. Nel caso delle mappe non è quindi necessario avere tre dimensioni per dare vita ad un attrattore caotico: basta anche una sola dimensione per osservare l’effetto farfalla! Ebbene, all’origine della rivoluzione del caos deterministico troviamo proprio una mappa unidimensionale: la cosiddetta “Mappa Logistica” 8.

La mappa logistica fu introdotta nel 1976 dal biologo australiano Robert May per descrivere l’evoluzione nel tempo di una popolazione di individui (molecole, cellule, animali) in grado di riprodursi all’interno di un ecosistema con risorse limitate. Ciò di cui si accorse May fu che, al di sopra di un certo valore critico del parametro di controllo che regolava la velocità di riproduzione della popolazione, le oscillazioni del numero di individui all’interno dell’ecosistema cominciavano a diventare sempre più irregolari, fino a renderne del tutto imprevedibile l’evoluzione futura: May aveva scoperto un altro attrattore caotico, forse visivamente meno affascinante di quello “ad ali di farfalla” trovato da Lorenz (in quanto qui si trattava di un insieme di punti su una linea, essendo lo spazio degli stati a una dimensione), ma altrettanto intrigante dal punto di vista matematico. E nell’individuare quel valore critico del parametro di controllo della mappa, aveva anche introdotto un concetto che poi sarebbe diventato fondamentale anche per un’altra rivoluzione scientifica: il concetto era quello di “margine del caos” e la rivoluzione – partita a cavallo tra il Ventesimo e il Ventunesimo secolo – sarebbe stata quella della Complessità.



Oggi sappiamo infatti che un sistema complesso, che sia fisico, biologico, ecologico, sociale o economico, non è mai né completamente ordinato (regolare), né completamente disordinato (caotico). Piuttosto, vive al confine tra ordine e disordine, al margine del caos, in uno stato dinamico critico caratterizzato da forti correlazioni a lunga distanza, che fanno sì che il sistema si comporti come una totalità unitaria e non si presti a essere descritto considerando separatamente le sue diverse componenti. In un sistema complesso il tutto, insomma, è sempre maggiore delle sue parti. Non solo. Spesso i sistemi complessi si portano spontaneamente in questo stato critico9, senza bisogno di regolare dall’esterno alcun parametro di controllo. Ed è proprio qui, al margine del caos, che emerge la controparte spaziale di quello che era l’effetto farfalla nei sistemi caotici: nei sistemi complessi, nelle giuste condizioni, cause molto piccole possono dare luogo ad eventi di tutte le dimensioni, anche enormi, come accade per i cosiddetti “eventi estremi”, detti anche “cigni neri”. È così che, si è scoperto, funzionano i terremoti, le valanghe, gli incendi, ma anche l’estinzione delle specie, i crolli in borsa, lo scoppio delle guerre, delle rivoluzioni, delle mode o delle epidemie. La maggior parte di questi eventi rimangono (fortunatamente) molto piccoli, insignificanti, tanto che nemmeno li notiamo, come non noteremmo un cigno bianco in mezzo a migliaia di cigni bianchi. Poi, inaspettatamente, imprevedibilmente, quando uno meno se l’aspetta, ecco arrivare un cigno nero: un terremoto distruttivo, un incendio devastante, una crisi economica globale, una guerra mondiale o anche (per rimanere nell’attualità) una pandemia che ci costringe a modificare profondamente i nostri stili di vita.

Certo, da questo punto di vista sembrerebbe controproducente vivere in un mondo complesso che si trovi nello stato critico, al margine del caos. A ben guardare, però, è proprio la permanenza in questo stato ad impedire al sistema di precipitare in uno dei due estremi a bassa complessità, rappresentati dall’eccesso di ordine e dall’eccesso di disordine. E questo, dal punto di vista socio-economico, significa ad esempio che una società complessa, finché riesce a rimanere tale, può evitare di precipitare in una dittatura o, all’estremo opposto, nell’anarchia. Ma recentemente si è scoperto che anche il nostro cervello, sistema complesso per eccellenza, per lo meno quando funziona normalmente, si trova in uno stato critico, sempre in bilico tra ordine e disordine: ed è questo il processo dinamico alla base della nostra flessibilità e creatività, senza il quale rischieremmo di restare intrappolati in ossessioni compulsive (eccesso di ordine) o di trovarci esposti a crisi epilettiche o comportamenti schizofrenici (eccesso di disordine). In questo contesto, i “cigni neri” della nostra vita interiore, gli eventi estremi della nostra attività neurale, sarebbero evidentemente le idee geniali che hanno cambiato il corso della storia e che, molto spesso, nascono quasi per caso da piccole intuizioni. Come quella che aveva portato, più di un secolo fa, Henri Poincaré ad affrontare in modo innovativo il problema dei tre corpi e a mettere in crisi la meccanica celeste.

Anche in quel caso, probabilmente, tutto era nato in quella miniera della Borgogna francese, mentre da ingegnere fresco di laurea cercava di individuare la causa dell’esplosione. “Una sola scintilla è sufficiente ad avviare la combustione” aveva scritto. Ebbene, quella minuscola scintilla non avviò solo il processo che aveva, purtroppo, condotto alla morte della squadra di minatori. Avviò anche una sequenza imprevedibile di eventi nei circuiti cerebrali del grande scienziato francese, portandolo diversi anni dopo a gettare le basi di una rivoluzione concettuale, filosofica e scientifica, le cui ripercussioni, come abbiamo visto, sono ancora oggi più forti che mai.

 

Note
1 Per le informazioni storiche su Poincarè faremo riferimento al saggio di P. Galison, Gli orologi di Einstein, le mappe di Poincarè. Imperi del Tempo. Raffaello Cortina Editore, Milano 2004.
2 Fonte Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Henri_Poincaré (consultato il 6.11.2021)
3 J.-H. Poincaré. Mémoire sur les courbes définies par une équation différentielle (première partie), in “Journal de Mathématiques pures et appliquées”, Ser. 3,7, 1881, pp. 375-422.
4 Id., La correspondance entre Henri Poincaré et Gösta Mittag-Leffler. Avec en annexes les lettres échangées par Poincaré avec Fredholm, Gyldén et Phragmén. Présentée et annotée par Philippe Nabonnand, Birkhäuser, Basel 1999.
5 Id., New Methods of Celestial Mechanics, “History of Modern Physics and Astronomy”, 13, 1993, a cura di D.I. Goroff. American Institute of Physics, Boston.
6 P.S. Laplace, Essai philosophique sur les probabilités, Courcier, Paris 1814.
7 Per approfondimenti sulle proprietà dei frattali e sulle loro relazioni con i sistemi dinamici si veda A. Pluchino, La firma della complessità. Una passeggiata al margine del caos, Malcor D’Edizione, Catania 2015.
8 Per approfondimenti sulla mappa logistica si veda A. Pluchino, La firma della complessità. Una passeggiata al margine del caos, cit.
9 Per approfondimenti sui concetti di stato critico e di margine del caos si veda ancora A. Pluchino, La firma della complessità. Una passeggiata al margine del caos, cit.

 

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