«È il nascere che non ci voleva». Introduzione a David Benatar

Di: Sarah Dierna
4 Gennaio 2022

 

Un lavoro di filosofia impopolare

Non c’è nulla di misantropico nel riconoscere che sarebbe meglio non essere mai nati. Al contrario, diffidare di ogni forma di esistenza, dell’animalità umana come di quella non umana, rappresenta l’atteggiamento filantropico più onesto che si possa assumere. È questa la tonalità che David Benatar assume nel riconoscere che la vita «è sempre un male»1 e che non esserci, pertanto, sarebbe stata una condizione di gran lunga preferibile a quella dell’esistenza. Inizia col nascere la nostra permanenza nel mondo, prosegue pervasa dal dolore e dalla sofferenza, per concludersi con la morte. Non siamo altro che «un baluginio nel tempo e nello spazio cosmici»2 dinnanzi a un universo che «era indifferente alla nostra venuta e sarà indifferente alla nostra dipartita»3. A partire da queste evidenze si articola la filosofia antinatalista di Benatar, una ricerca che si preoccupa dell’esistenza umana e della sua difficile condizione, oggetto non nuovo nel pensiero filosofico, ma che approda a risultati del tutto nuovi rispetto a quelli elaborati dalla tradizione in proposito.
Nell’argomentare con disincanto e freddezza questa posizione consiste il merito del filosofo sudafricano che, procedendo secondo quell’ordinata sequenza di sic et non tipica della Scolastica e della Filosofia analitica contemporanea, ricava un «lavoro di filosofia» che lo stesso autore non si nasconde dal definire «impopolare»4, per la natura contro-intuitiva della sua tesi da una parte, del tutto lontana dall’incontrastato – e inconsapevole – alla vita dell’opinione dominante, e per le implicazioni, consistenti nell’introdurre un nuovo modo di valutare il venire al mondo e il suo congedarsi, che da essa derivano, dall’altra parte.

 

La difficile condizione umana

Quella umana si può considerare una «trappola esistenziale»5, niente di più e niente di meno. Una trappola nella quale «veniamo gettati senza la nostra volontà»6, è il nascere; durante la quale soffriamo, sopportando «fardelli» ai quali non abbiamo «mai dato il […] consenso»7, è il ‘vivere’; e dalla quale saremo liberati, «obliati per il resto dell’eternità»8, è il morire.
Lungo il tragitto, l’esistenza è intessuta di una profonda insensatezza. La sua (dell’umano) presenza è solo passeggera e – per fortuna – destinata a finire presto; com’è evidente se

ci [ritrovassimo] a girovagare in un vecchio cimitero. Sulle lapidi sono scolpiti alcuni dettagli delle persone defunte – le date di nascita e morte e magari dei riferimenti a coniugi, fratelli o figli e nipoti addolorati per la loro perdita. E quelli che si addoloravano ora sono morti loro stessi da molto tempo. Riflettiamo così sulla vita di quelle famiglie – le credenze e i valori, gli amori e le perdite, le speranze e le paure, gli sforzi e i fallimenti – e rimaniamo colpiti che nulla di tutto questo lasci una traccia. È stato tutto inutile9.

Inutile sarà stato ogni affanno, inutile sarà stata ogni delusione e ogni tensione, inutile sarà stato il nostro pianto, inutile sarà stato esserci; inutile non solo perché di tutto ciò non resterà più niente domani, ma perché già adesso, ogni affanno, ogni delusione e ogni lacrima non sono che la manifestazione della tragedia che è lo stare semplicemente al mondo. È per questo che ogni vita è una «vita sbagliata»10, perché la colpa non è per qualcosa che si è fatto, la colpa è esserci; perché l’angoscia non è una patologia di alcune sole menti ma piuttosto «il respiro [stesso] della vita umana» e «farne una malattia [sarebbe] tanto stupido quanto sadico»11; perché la tristezza non è altro che lo stato d’animo «dello stare al mondo»12, uno stato che troverà sollievo solo quando non ci sarà più nessuna vita cosciente a subire le conseguenze di questo inconveniente: essere nati.
Nessuna esistenza è insomma priva di difficoltà. Le cose brutte capitano a tutti, tutti affrontiamo la morte, l’altrui prima ancora della propria:

più di quindici milioni di persone si calcola che siano morte per […] disastri [naturali] nell’ultimo millennio. […] Circa 20.000 persone muoiono ogni giorno di fame. […] Le malattie tormentano e uccidono ogni anno milioni di persone. […] Ora moltiplichiamo il numero di morti per il numero di amici e parenti che restano a piangere e a rimpiangere i dipartiti. Per ogni morte ci sono molti sopravvissuti che si dolgono per il morto13.

A questa cifra bisogna aggiungere poi la sofferenza che viene imposta alle generazioni future, mettendole al mondo per l’ostinata volontà di esistere ancora, e quella che si infligge all’animalità non umana da parte della specie «più distruttiva e dannosa sulla terra»14.
Di più – e qui si coglie l’ironia e il disincanto di Benatar – se l’esistere è già un inconveniente per la sua stessa precarietà ed inconsistenza, ancora più amara si fa questa esistenza se di essa si considera la sua natura altamente improbabile; un attimo diverso, una circostanza altra, uno spermatozoo differente da quello fecondato: bastava così poco per non esserci! Non a caso il filosofo parla di sfortuna:

riconoscere quanto era improbabile che una persona venisse al mondo, e riconoscere insieme che venire al mondo è un grande male, porta alla conclusione che il fatto di essere venuti al mondo è davvero una sfortuna. È già dura quando si patisce qualche dolore. È ancora peggio quando le possibilità di patirlo sono molto remote15.

Ancora, a tutto questo si obietterà insistendo sui momenti di gioia e di piacere che l’esistenza può anche offrire. E tuttavia, a questo pollyanismo – così sono definite dall’autore le prospettive che manifestano questa tensione a cogliere sempre l’aspetto positivo di ogni cosa – non si può che rispondere con lo stesso disincanto mostrando come il piacere, laddove è presente, sarà del tutto effimero e incerto rispetto alla certezza e alla permanenza del dolore e, anche quando raggiungibile, lo sarà sempre al «prezzo della disgrazia della vita», un costo che Benatar reputa «assai considerevole»16.
L’asimmetria tra piacere e dolore, tra bene e male non coinvolge soltanto quelle esistenze qualitativamente deboli, prostrate da gravi mali che rendono la loro vita non più degna di essere continuata. Tutte le vite, infatti, sono vite di scarsa qualità, benché i loro autori non siano soliti considerarle tali; vite alla disperata ricerca di un senso – come se un senso possa esserci –, vite per le quali non esserci rappresenterà sempre l’alternativa preferibile.
È questa asimmetria tra piacere e dolore a rendere «doveroso evitare di mettere al mondo persone sofferenti»17, se queste non hanno ancora subito una simile oltraggio, o a giustificare la scelta di non esserci più, se questo oltraggio è invece stato subito. Da qui, la distinzione tra una vita degna di cominciare e una vita degna di continuare per la quale non vige tuttavia nessuna simmetria: mentre nessuna vita deve cominciare, non con la stessa immediatezza si affermerà, infatti, che nessuna vita è degna di continuare: «la vita può essere brutta quanto basta perché sia meglio non venire al mondo, ma non tanto brutta che sia meglio smettere di esistere»18.

 

Morte e suicidio

Se la vita è un grave male, se al dolore è condannata ogni esistenza, indipendentemente dalle sue qualità, ha allora ragione Céline quando scrive che per quanto ci si possa impegnare per campare, «è il nascere che non ci voleva»19. Ha tutto inizio da lì. Un attimo prima il niente. Un attimo dopo solo la nostalgia di quel niente. L’attesa del ritorno a quella condizione o la sua anticipazione volontaria. La morte. Mentre non sarà infatti mai possibile, per ciascuno, scegliere del proprio nascere, resta tuttavia ancora aperta la possibilità di decidere del proprio morire.

Ma la morte non è mai semplice. Ancora di più quando, anziché attenderne l’accadimento ‘naturale’ essa viene intenzionalmente provocata. Si ha la percezione che volere morire sia qualcosa di innaturale, contrario all’indiscusso istinto a conservarsi e al desiderio di esistere ancora, ed è anche per questo che il suicidio viene spesso giudicato come un atto di codardia, persino irrazionale; ma da queste stesse premesse – anzi, proprio alla luce di esse – dovrebbe rendersi subito chiaro che scegliere di morire ben lungi dal macchiarsi di codardia, richiede piuttosto coraggio. E allora «forse dovremmo essere meno avversi al suicidio […] perché la vita è di gran lunga peggiore di quel che pensiamo»20 e, superata una certa soglia di dolore, vivere non dovrebbe più essere d’obbligo a nessuno.
Sempre dalle stesse premesse traspare inoltre la razionalità e la ‘meditazione’ che, al di là dell’apparente impulso, questo atto ultimo possiede. È proprio perché la vita è dura e la sofferenza insostenibile, è proprio perché ciascuna esistenza manca di senso ed è persino trascurabile, che non esserci rappresenta un’ipotesi del tutto ragionevole – persino la più ragionevole, aggiunge Benatar – all’alternativa cupa dell’esistenza.
Una fine anticipata ad una fine comunque certa. Se è vero che la vita, come lo stesso filosofo analitico riconosce, «consiste in un costante stato di tensione» e che questa tensione «finisce solo con la fine della vita»21; se è vero, inoltre, che la morte sarà comunque, prima o dopo, «il destino certo di ciascuno di noi»22, se ne potrebbe allora dedurre, con lo stesso rigore e plausibilità logica, che il suicidio, alla fine, rappresenti soltanto un’anticipazione di questa fine così certa; fine peraltro vantaggiosa se con essa si porrebbe termine, come si è detto, a questa costante tensione che è la vita.
Nel pensiero di David Benatar la morte comunque non trova posto, almeno non del tutto, come soluzione alla difficile condizione umana. Anch’essa, come la vita, viene considerata sempre un male, talvolta un male minore, ma pur sempre un male. È un male per quello che da essa ne deriva, il dolore. È un male perché non riscatterà comunque il nascere. È un male, dal momento che essa, benché costituisca la cifra finita di tutte le cose, è per la materia consapevole di sé motivo di inquietudine. È un male, ma minore solo quando l’individuo che ne è coinvolto era stato già annichilito prima ancora di morire in senso biologico. Il filosofo manifesta in questo modo il più avvertito consenso verso le pratiche mediche del suicidio (medicalmente assistito) e dell’eutanasia che, in questi casi, rappresentano solo una liberazione (e non una privazione) rispetto a un’esistenza ormai insostenibile e non più degna di essere continuata. Anche quando sussistono questi casi-limite, però, una simile scelta dovrà sempre provenire da «coloro della cui vita si tratta»23, affermazione quest’ultima che attesta il filosofo verso una concezione disponibilista della vita.
Al di là di queste particolari condizioni più difficili, Benatar considera più modesto, ma apprezzabile, cercare di individuare delle prospettive che possano cogliere e dare un senso (effettivo) a tale costitutiva insensatezza dell’esistere. Anche questo significa riscattare il proprio nascere. Sono tre le diverse forme di apprezzamento che nella vita si possono raggiungere migliorando così la qualità del proprio esistere – che resterà sempre inconsistente, ma adesso più tollerabile; esclusa, nonostante la presunzione dell’umano, la cosiddetta prospettiva sub specie aeternitatis, è tuttavia possibile stabilire, in misura più circoscritta, un significato dalla prospettiva di un individuo (sub specie hominis), dalla prospettiva di un gruppo (sub specie communitatis) e, in ultimo, dalla prospettiva dell’umanità (sub specie humanitatis).

La vita è dura. È piena di sforzi e lotte; c’è molta sofferenza e poi moriamo. È del tutto ragionevole desiderare che vi sia un qualche senso nell’intera saga. I frammenti di significato terrestre che possiamo raggiungere sono importanti, perché senza di essi le nostre vite sarebbero non solo prive di senso ma anche miserevoli e insostenibili24.

Ora, c’è un limite nelle prospettive di senso individuate, che ritorna anche quando si valuta la qualità del proprio vivere. Questo limite consiste nella distinzione tra effettivo e percepito. Benatar, detto altrimenti, a proposito dei significati perseguibili per trovare una qualche forma di gradimento nella propria vita, stabilisce la loro validità non a partire dalla percezione che ognuno ha del proprio esserci, ma dalla percezione che ne hanno gli altri. La verità, però, è che nessun senso effettivo avrà mai consistenza se la propria vita non viene avvertita in prima persona come significativa, ciò impone che ogni vita potrà essere valutata come sostenibile o di qualità solo da parte di chi la percepisce e ne ‘dispone’. Ammettere, come fa Benatar, che se un senso ci sia questo debba essere riconosciuto da un gruppo, l’umanità intera o anche solo una singola esistenza diversa dalla propria, rischia di far scivolare l’iniziale principio disponibilista verso il suo contrario (il paradigma indisponibilista).
Lo stesso si dirà a proposito della qualità della vita. Essa viene spesso valutata diversamente da come effettivamente si presenta; ma, ancora una volta, che ci sia una (dis)percezione – inesatta sì, ma ‘positiva’ – rispetto alla sua effettiva sembianza non per forza deve essere un male se tale incongruenza aiuterà a sopportare un simile fardello; benché il rischio sia quello di volere condannare qualcun altro a esistere poi. Al contrario, essere consapevoli della tragedia che è lo stare al mondo, ha senza dubbio il vantaggio di non perpetuare tale virus e, come esito ultimo, quello di non temere più la morte.
Solo investendo un significato che sia il proprio si può, come alla fine anche lo stesso filosofo non può fare a meno di riconoscere, «abbracciare la prospettiva pessimistica ma navigare nella propria vita le sue (corsivo mio) correnti»25.
C’è un amaro paradosso in tutto questo. Venire al mondo è la «condizione abilitante di ogni male»26, ma la specie umana non vuole arrestare la diffusione di tale virus.

 

Aborto, procreazione, antinatalismo.

Come si è detto, nonostante la consapevolezza – per chi ha il coraggio di accettarla – della difficile condizione che l’esserci comporta, l’umano è una specie ostinata a voler continuare e, se questo non è ontologicamente possibile data la finitudine costitutiva della propria natura (come quella di ogni altra cosa), lo sarà, invece, perpetuando la propria presenza mettendo al mondo nuove vite. In questo modo

la progenie fornisce ai genitori una sorta di immortalità – attraverso il materiale genetico, i valori e le idee che i genitori trasmettono ai figli che sopravvivono nei figli e nei nipoti dopo la morte dei genitori stessi27.

Se questo è vero in un senso, è vero anche che le cose stanno diversamente nel senso inverso. La generazione precedente, nel procreare, insieme al materiale genetico, ai valori e alle idee, trasmette ai propri figli un’immeritata sofferenza che, non venendo al mondo, sarebbe stata loro preclusa; si affermerà che

ogni coppia di procreatori può quindi considerarsi il vertice di un iceberg generazionale di sofferenze. Essi sperimentano il male nella propria vita […] ma sotto alla superfice delle generazioni attuali si annidano i numeri sempre più grandi dei discendenti e delle loro disgrazie. [Pertanto], ipotizzando che ogni coppia abbia tre figli, i discendenti totali di una coppia originaria nel giro di dieci generazioni ammontano a 88.572 persone28.

A ciascuna di esse apparterrà una quantità, più o meno incisiva e più o meno invalidante, di dolore. Sarà imprevedibile la natura di questo male, ma ciò che è certo è che ci sarà. E che sarebbe stato evitabile se a queste 88.572 persone fosse stata risparmiata la possibilità di esistere. L’unico modo per non soffrire è non esserci.
È curioso constatare come i genitori vogliano sempre il meglio per i loro figli, ma il meglio consisteva nel non generarli. La procreazione è solo un «“virus” sessualmente trasmesso che diffonde l’esistenza e diffonde con essa anche la difficile condizione esistenziale»29; l’unico modo per arrestarla consiste nel non concedere a nessuna vita di cominciare. L’antinatalismo di David Benatar – ora risulterà meno contro-intuitivo – rappresenta una posizione lontana da ogni misantropia; benché basterebbe l’assenza di questa sola specie per sgravare il mondo di gran parte del suo male, la ragione più profonda di tale tesi – includente tutta la vita senziente – consiste nel preservare l’uomo dall’inquietudine che il suo esistere gli recherebbe. È anche per questo che l’autore, nonostante la lontananza da ogni forma di antropocentrismo, concentra il proprio lavoro solo sulla specificità umana. Bisogna assumere lo stesso «canto solitario e monocorde»30 per far comprendere a questa specie il male che il suo esserci è.
Arrestare la trasmissione di un simile virus porta Benatar a sostenere l’ipotesi di una nuova etica sessuale. Contrariamente ad alcune morali religiose che legano la dimensione sessuale unicamente a quella riproduttiva, qui si sostiene il contrario. Se nella sua realtà il sesso può essere considerato uno dei piaceri – in ogni caso incerti e transeunti – della vita, esso deve mantenersi sempre anti-riproduttivo.
Tuttavia, poiché i metodi che garantirebbero quest’ultima condizione non sempre appaiono certi e finendo così per ritrovarsi come in una roulette russa procreativa con «la pistola completamente carica – puntata, ovviamente, non alla propria testa, ma a quella dei loro futuri discendenti»31 che di esistere, prima ancora di farlo concretamente, non possiedono alcuna tentazione, diventa un dovere morale, prima ancora che giuridico, interrompere volontariamente ogni vita concepita.
Benatar, difende dunque l’idea “pro-morte” dell’aborto; di più, dichiara come «non è l’aborto […] a dovere essere giustificato, ma tutte le rinunce ad abortire» dal momento che «ogni rinuncia permette che qualcuno patisca il grave male di venire al mondo»32.
Il filosofo, a differenza di alcuni dei paradigmi tradizionali, non si sofferma dunque sullo statuto ontologico del feto per fare derivare poi, a seconda del modo in cui questi verrebbe concepito, le sorti del suo esistere o meno, e la legittimità o illegittimità della pratica abortiva. È vero che per l’autore si viene prima al mondo in senso biologico (nel momento del concepimento) e solo più tardi in senso moralmente rilevante, ma questa considerazione serve solo a conferire ulteriore giustificazione – e conforto – all’aborto, ma non come suo fondamento; quest’ultimo farà sempre seguito alla presa d’atto del «mondo di sofferenza che abitiamo»33.
Si potrebbe obiettare anche qui come la posizione “pro-morte” dell’aborto renderebbe la vita, che prima si è difesa come disponibile a ciascuno, adesso indisponibile; sempre con lo stesso rigore di Benatar si risponde però che lo statuto ontologico di una vita che deve ancora cominciare è ben diverso rispetto a quello di una vita già cominciata, non a caso, interrompere una gravidanza quando il feto presenta delle gravi disabilità spesso è più facile che interrompere una vita egualmente invalida.
Al di là di queste specifiche condizioni che renderebbero l’aborto condivisibile, nessuna vita è comunque di qualità; può sembrare impopolare stabilire che una vita non sia degna di cominciare quando tali condizioni non sussistono, ma ciò equivale a dire che l’amara evidenza secondo la quale la vita sia un grave male non pare ai più una ragione sufficiente per decidere di arrestare questa tragedia.

 

Una conclusione ottimistica

L’analitica esistenziale di David Benatar si presenta dunque come un lavoro impopolare e, proprio per questo – come lo stesso autore riconosce – difficile da accettare. Che sia difficile da accettare non è ragione sufficiente per escluderla dal momento che essa tratteggia un’immagine pur sempre fedele della difficile condizione umana.
È proprio questa ‘difficile’ condizione che dovrebbe far desistere ogni organismo vivente dal procreare, ma il virus continua invece a trasmettersi; se questo accade, da una parte, a causa di quella inesatta convinzione secondo la quale le proprie vite siano vite di qualità, da qui la conseguenza per cui venire al mondo non costituisca sempre un grave male, dall’altra parte sarà forse la paura di non esserci più a spingere una generazione a volersi conservare nella successiva, a volere rivivere mediante essa le proprie esperienze vissute, ripercorrere attraverso i passi di altri ciò che si è stati un tempo, ma che ora non si è più. Se così è, allora procreare resterà sempre un atto egoistico mentre altruistico resterà sempre decidere di non far sì che un altro – specialmente se è qualcuno che si dice di amare, come solitamente si afferma dei propri figli – sperimenti il dolore di venire al mondo. Contro-intuitiva non sarà la scelta di impedire a ciascuna vita di cominciare, o qualche altra di congedarsi un po’ prima, contro-intuitivo sarà piuttosto volere il male di qualcun altro. E tuttavia, la procreazione continuerà

è improbabile che molte persone prendano a cuore la conclusione che venire al mondo è sempre un male. È ancora più improbabile che molte persone smetteranno di fare figli34.

Ma alla fine la specie umana non ci sarà comunque più. Sebbene non sarà la procreazione ad arrestare il suo avanzamento, e per un po’ di anni ancora molta sofferenza dilagherà, le cose poi andranno bene, perché alla fine non resterà più nessuno. Benché a molti quello dell’estinzione possa sembrare un esito pessimistico, è invece proprio la certezza che prima o poi non ci sarà più vita senziente, a dovere, secondo Benatar, suscitare conforto:

questo fatto ha un effetto curioso sul mio ragionamento. Stranamente, lo rende un ragionamento ottimistico. Nonostante le cose al momento non sono come dovrebbero – ci sono delle persone laddove non dovrebbero essercene – un giorno le cose saranno come devono – non ci sarà nessuno. In altri termini, anche se le cose adesso vanno male, miglioreranno35.

Certo, basterebbe il solo venire meno della animalità umana affinché l’animalità non umana – tanto per cominciare – trovasse giovamento della propria difficile condizione. Ma anche la vita animale è vita senziente, per cui sarà solo la fine della prima ed insieme della seconda a rendere le cose migliori.
Nonostante la morte, come si è visto, non sia considerata dal filosofo una soluzione – almeno non la più efficace – per affrontare la ‘vita’, mentre invece lo è individuare dei significati ‘effettivi’ che possano dare senso all’esistere, essa (la morte) alla fine torna a essere il riscatto decisivo al nascere.
Sebbene questo possa ridurre il pensiero di David Benatar a un radicale nichilismo, si deve avvertire un più profondo ottimismo. Con l’estinzione di ogni vita senziente nessuna lacrima verrà più versata. «Qualcosa che può solo dare pace, finalmente»36.

 

Note

1 D. Benatar, Meglio non essere mai nati. Il dolore di venire al mondo. (Better Never to Have Been: the Harm of Coming into Existence, Oxford University Press, Oxford 2006), trad. di A. Cristofori, Carbonio Editore, Milano 2018, p. 40.
2 Id., La difficile condizione umana (The human predicament: a candid guide to life’s big questions, Oxford University Press, Oxford 2017), a cura di L. Lo Sapio, Giannini Editore, Napoli 2020, p. 39.
3 Ivi, p. 245.
4 Ivi, p. 43.
5 Ivi, p. 48.
6 Ivi, p. 240.
7 Ivi, p. 243.
8 Ivi, p. 39.
9 Ivi, p. 61.
10 Id., Meglio non essere mai nati, cit., p. 126.
11 A.G. Biuso, «Di stelle e di buio», in F. Carlisi, Il valzer di un giorno, Gente di Fotografia Edizioni, Modena 2018, p. 195.
12 Ibidem.
13 D. Benatar, Meglio non essere mai nati, cit., pp. 102-103.
14 Ivi, p. 242.
15 Ivi, p. 17.
16 Ivi, p. 84.
17 Ivi, p. 43.
18 Ivi, p. 229.
19 L.F. Céline, Morte a credito (Mort à crédit, Gallimard 1952), trad. di G. Caproni, Corbaccio, Milano 2000, p. 40.
20 D. Benatar, La difficile condizione umana, cit., p. 242.
21 Ivi, p. 126.
22 Ivi, p. 140.
23 Id., Meglio non essere mai nati, cit., p. 236.
24 Id., La difficile condizione umana, cit., p. 105.
25 Ivi, p. 255.
26 Ivi, p. 9.
27 Id., Meglio non essere mai nati, cit., p. 111.
28 Ivi, p. 16.
29 Id., La difficile condizione umana, cit., p. 248.
30 A.G. Biuso, Tempo e materia. Una metafisica, Olschki, Firenze 2020, p. 145.
31 D. Benatar, Meglio non essere mai nati, cit., p. 145.
32 Ivi, p. 175.
33 Ivi, p. 24.
34 Ivi, p. 242.
35 Ivi, p. 212.
36 A.G. Biuso, Tempo e materia. Una metafisica, cit., p. 137.

 

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