A che la parola? Frammenti poetici per una metafisica

Di: Enrico Palma
8 Luglio 2021

 

Welcher Lebendige,
Sinnbegabte,
liebt nicht vor
allen Wundererscheinungen
des verbreiteten Raums um ihn,
das allerfreuliche Licht –
mit seinen Farben,
seinen Stralen und Wogen;
seiner milden Allgegenwart,
als weckender Tag.1

 

All’inizio di uno dei suoi testi più celebri e fondamentali, Wozu Dichter?, un saggio da ritenersi per più di una ragione crepuscolare, e sulla scorta di un verso di Hölderlin tolto dall’elegia Brot und Wein, Heidegger, con un’espressione ormai famosa, dice che ci troviamo in dürftiger Zeit, nel tempo della povertà2, l’epoca in cui gli dèi sono fuggiti e si sono ritirati dal mondo e della mancanza di Dio. Cosa significhi esattamente quest’espressione arcigna potrebbe essere chiarito da alcune suggestioni in forma di domanda: gli dèi sono fuggiti a causa della tecnologia e delle scoperte scientifiche, che hanno ucciso il mito classico e la sua pregnanza, un po’ come sostenuto con mordace ironia da Aby Warburg, e cioè che dopo l’invenzione della pila elettrica siamo stati privati della possibilità di credere in Zeus? Si tratta, in totale opposizione con la concezione di Hölderlin sull’irruzione fatale per l’Olimpo da parte del Dio giudaico-cristiano, del racconto dostoevskijano della visita in casa di Rogozin del principe Myškin, il quale, guardando una riproduzione del Cristo morto di Hans Holbein, dice che davanti a un’opera simile, in cui piuttosto che un dio si vede semplicemente un cadavere in decomposizione, si potrebbe anche perdere la fede3? Un po’ come il folle della Fröhliche Wissenschaft che brandisce la lanterna e che proclama la morte di tutti i valori dell’Occidente e la necessità di forgiarne di nuovi4?
Credo però che queste domande, seppur pregnanti, poco ci aiutano a rispondere al problema sollevato da Heidegger e che ci conducono verso altri lidi. Se gli dèi sono «l’essere stesso che guarda dentro l’ente»5, cioè le forme dello svelamento dell’essere, il loro oblio non comporta di riflesso la perdita di chiarezza in cui l’umano può comprendere, una condizione altrimenti definibile come indigenza ontologica? Il tempo della povertà è infatti anche il tempo in cui l’Abgrund, l’abisso, è privo del Grund, del fondamento. Cosa significa tutto ciò? Mi sembra che Heidegger dica questo: nell’accadere storico-destinale del mondo a un certo punto l’essere si ritira, retrocede, e il compimento di questo accadere sarebbe il trionfo della metafisica e lo spostamento del fondamento dal logos alla tecnica. Se l’essere si dava a noi per mezzo della parola, adesso la parola non può più parlarci perché l’essere non la sorregge più. L’essere, nell’epoca della povertà, è quindi muto di parola. L’uomo, da pastore dell’essere e dunque del logos6, da essenzialmente poeta è diventato un mercante, un funzionario della tecnica, il quale, con un atto di auto-imposizione oggettivante, fonda proprio in senso tecnico il fondamento. L’essere dunque, nella sua ritirata avvertita da Hölderlin, ha portato con sé per sottrazione anche il logos, che è sia la parola che dischiude sia poesia pensante e pensiero poetante. L’essere rivela in Hölderlin il suo abissale sprofondamento, e il poeta tedesco rintraccia per Heidegger quello che i Celesti e gli dèi, proprio perché sono fuggiti, non riescono a fare, cioè scendere nell’abisso.

Ciò detto il poeta, in quanto mortale e in un’epoca irreversibilmente povera di parola, a che deve cantare? Il poeta del tempo della povertà deve stare sulle tracce degli dèi in fuga, dell’essere che si ritira, del Sacro, ovvero proprio di ciò che rimane del Divino. Al poeta non resta che cantare sull’essenza della poesia, che è l’essenza di tale ritirata e lo stare nell’abisso in cui l’essere era nascosto e custodito. Dobbiamo dunque stare in ascolto dei poeti del tempo della povertà per trovare una qualche possibilità di riscatto, di espiazione e di salvezza, poiché proprio in quanto i più arrischianti, cioè coloro che sprofondano nell’abisso, solo gli unici che possono ricordarci, in quest’epoca così bisognosa di parola, della nostra morte, del mistero del dolore e della necessità di imparare ad amare.

C’è un poeta, ci chiediamo, che ha cantato tutto questo, che può aver cantato l’essenza della poesia, che può aver espresso tale estremo bisogno di parola, che può aver sentito la chiamata «a sprofondare nell’abisso del mondo senza fondamento, privato della luce del sacro, per cogliere i segni di un tempo nuovo e gettare i semi di un mondo postmetafisico»7? Stando a Heidegger, tale poeta del tempo della povertà è Rainer Maria Rilke. Riporto per intero la poesia di Rilke in cui è facile rinvenire la fonte da cui Heidegger attinge, com’è evidente nelle ultime due terzine, la triade strepitosa in cui si condensano l’enigma e l’indigenza del nostro tempo:

Wandelt sich rasch auch die Welt
wie Wolkengestalten,
alles Vollendete fällt
heim zum Uralten.

Über dem Wandel und Gang,
weiter und freier,
währt noch dein Vor-Gesang,
Gott mit der Leier.

Nicht sind die Leiden erkannt,
nicht ist die Liebe gelernt,
und was im Tod uns entfernt,

ist nicht entschleiert.
Einzig das Lied überm Land
heiligt und feiert.8

Non ci competono in questa sede le analisi così difficili ma al contempo così intriganti di Heidegger su alcune poesie e lettere rilkiane. Ciò che ci interessa è l’esito del suo domandare e del suo interpretare, del suo inabissamento nel Gesang rilkiano. Rilke canterebbe il rivolgimento che ci serviva, un ritorno dalla tecnica al logos, un ritorno dall’inabissamento al Sacro. Il canto prende atto dapprima di questa povertà e poi nel canto stesso della non-salvezza, dell’essere ancora irredenti, elementi che tuttavia, cantati dal poeta sulla Terra, ci salvano. Dice Heidegger: «La salvezza evoca il Sacro. Il Sacro congiunge il Divino. Il Divino avvicina Dio»9. Quest’ultima frase sintetizza il compito dei nuovi poeti: trovare le tracce di ciò che abbiamo perduto, della ritirata dell’essere, approdare al Sacro, arrivare al Divino e da lì spingersi a Dio, alla Luce.
Se il tedesco Heidegger riconosceva in Rilke un poeta di quest’epoca della povertà, andando invece nel nostro hortus italicus, a me sembra che un poeta che possa raccogliere tale compito sia Mario Luzi.
Nei primi quattro versi di Perché luce ti ritrai Luzi canta in modo magnifico: «Perché, luce, ti ritrai / da me nelle cose guardate / e più addentro ancora / nelle altre non vedute?»10. In questa strofa, in soli quattro versi e 17 parole, potrebbe essere riassunta ed effigiata l’intera concezione dell’essere heideggeriana. L’Essere è la trasparenza, è la luce che fa vedere le cose, gli enti, ma essa, la luce, mostrando gli enti si ritira. Facendo vedere essa non viene vista, mostrandosi si sottrae, svelando si ritira nel nascondimento11. E per tale ragione che Luzi si chiede: perché la luce si ritrae negli enti, nelle cose guardate, e, insiste, più addentro ancora in quelle non vedute? Quali sono le cose che non vediamo? Sono gli dèi, sono le strutture del mondo, sono, pensando a Kerényi, i principi dell’universo che si esprimono tramite il mito nella forma di archetipi e di idee12. E Luzi, da grandissimo poeta, pone la domanda, si chiede perché l’essere sia così.
Lo sfondo di riferimento tracciato grazie a Heidegger, a Rilke e per brevi accenni a Luzi, potrebbe anche essere sufficiente, ma la sensazione è che con questo ragionamento forse si guarda alla cosa da un punto di vista inadeguato. Quello che mi domando è infatti questo: sono l’Essere, il Sacro, Dio, la Luce a essersi ritratti, oppure è il Dasein, l’esserci, l’umano ad averlo fatto? Se gli dèi sono fuggiti, se Dio è morto nelle forme e negli scenari in cui tale morte è avvenuta, perché il Dasein c’è ancora? Perché l’umano è rimasto solo? Perché il poeta deve ancora cantare il logos degli addii? È stata la tecnica, come detto da Warburg, ad aver tolto la parola, e dunque gli dèi, all’essenza dell’uomo? Sono state «le magnifiche sorti e progressive»13?
O dobbiamo invece guardare a qualcosa di ancora più originario, che accade da che c’è la vita, da che esiste il plesso vita organica/animalità/umanità? E mi chiedo ancora, stavolta in modo forse decisivo: non può essere accaduto il contrario, e cioè che siamo stati noi a essere fuggiti dal Sacro, a esserci separati dal Divino, a esserci, e intensifico la domanda, ritirati dall’essere sprofondando nell’abisso? Se così è, come e in che modo sarebbe avvenuto tutto ciò? Non può essere dunque, ed è il mio punto, che il Sacro è il mondo dal quale siamo provenuti, da cui siamo emersi divenendo finitudine, in cui eravamo tutt’uno con Dio, e che l’abisso sia invece questo mondo tenebroso nel quale cerchiamo di rammemorarci delle tracce di ciò che eravamo un tempo, del Sacro che abbiamo appunto perduto? Ma allora cos’è il Sacro? Credo che una buona ma non esaustiva definizione possa essere la seguente: «Il Sacro non è altrove, non è l’Altrove. Il sacro è nel mondo, è a esso immanente, è qui, ora, sempre, è l’unità di materia, animalità, mondo. Gli dèi sono i nomi di questa immanenza. Essi abitano accanto a noi, intorno a noi, dentro di noi. Gli dèi sono l’esserci e il voler ancora esserci»14. Oppure, con un brano che sembra essere scolpito nel marmo, è la penultima battuta pavesiana di Mnemòsine in Le muse: «Non capisci che l’uomo, ogni uomo, nasce in quella palude di sangue? e che il sacro e il divino accompagnano anche voi, dentro il letto, sul campo, davanti alla fiamma? Ogni gesto che fate ripete un modello divino. Giorno e notte, non avete un istante, nemmeno il più futile, che non sgorghi dal silenzio delle origini»15.
Quello che cerco di dire è che con il nascere di ciascuno di noi, con il verificarsi di ciò che chiamiamo vita organica, con l’emersione di una parte della materia in quanto consapevole di sé, potrebbe essere accaduta piuttosto che una ritirata dell’essere una nostra caduta. Siamo caduti dalla Materia come il Tutto, l’Intero e il Cosmo, siamo caduti dalla Luce che è l’Essere e che è la Materia, e siamo sprofondati nell’abisso in cui si stagliano dolore e tenebra. Citando nuovamente Novalis, a un certo punto per noi deve essersi spezzato «das Band der Geburt – des Lichtes Fessel»16. Ciò che dobbiamo fare è allora raccogliere un compito che Rilke stesso aveva già illustrato: «Sieh, nun heißt es zusammen ertragen / Stückwerk und Teile, als sei es das Ganze. / Dir helfen, wird schwer sein»17. Perduta è dunque anche la parola e uno struggente verso di Mandel´štam ne esprime tutto il pathos: «Il dolore di cercare la parola persa»18.
Avendo dunque ribaltato la questione, può un poeta a questo punto salvarci, può farci rammemorare delle tracce del Sacro che sono nella nostra interiorità, dei frammenti di ciò che eravamo un tempo, quando stavamo nel caldo grembo del Cosmo e privi di coscienza, privi, soprattutto, del dolore che intride la vita? Può essere Mario Luzi il poeta che, nella frammentarietà in cui il Sacro è per noi, ha cantato, come diceva Heidegger, sull’essenza stessa della poesia? Può egli essere il poeta che ha raccolto e consacrato le nostre tracce e ne ha fatto di nuovo luce?
Fatta questa premessa è mia intenzione provare a leggere una poesia tra le più folgoranti di Luzi, Vola alta parola, collocata come uno spartiacque proprio a metà della raccolta intitolata, per questa argomentazione in modo fenomenale, Per il battesimo dei nostri frammenti. Facciamo dunque nostra la convinzione heideggeriana per cui «il poeta parla sempre come se per la prima volta egli esprimesse e interpellasse l’essente»19.

Vola alta, parola, cresci in profondità,20

È un’invocazione. Se la parola, come sosteneva Heidegger, era stata portata via dall’Essere, e il poeta doveva cantare le tracce rimaste di questa sottrazione, Luzi canta invece dalla nostra posizione, parla, da poeta arrischiante, dall’abisso verso il Sacro. Egli sembra dire alla parola de profundis clamavi ad te, sembra dire al logos di spiccare il volo e di volare alto, a un’altezza che però non è la verticalità necessaria all’altrove, ma una metafora di estremità. La parola deve crescere nel profondo della nostra interiorità, deve sgorgare dall’intimo del poeta, dall’abisso, da quella che Agostino avrebbe chiamato profunda profunditas, avendo anche alla mente il verso dello stesso Hölderlin: «Wer das Tiefste gedacht, liebt das Lebendigste»21. Nella notte più fonda dell’abisso, la parola deve crescere, gonfiarsi, inorgoglirsi e dunque compiere il balzo necessario.

tocca nadir e zenith della tua significazione,

La parola, risospinta da un orgoglio ritrovato, deve andare fino al punto più estremo che le sia consentito, al limite cosmico della sua significazione, fin dove il logos può arrivare, alle cose ultime, alle risposte che solo una filosofia arrischiante può rinvenire, alle domande che solo una metafisica può formulare. Non è dunque uno sbattere, con Wittgenstein, contro le sbarre della gabbia del nostro linguaggio, significa andare oltre il consentito dai Grenzen meiner Sprache della proposizione 5.6 del Tractatus22, significa auspicare «l’arrivo del Sé presso se stesso. Arrivo di parola, arrivo nella parola»23.

giacché talvolta lo puoi – sogno che la cosa esclami
nel buio della mente –

Solo raramente può la parola arrischiarsi ai limiti del dicibile, del pensabile e dell’Intero. Si tratta dunque di una parola rara e che solo con rarità può essere pronunciata. Quale può mai essere la parola che spicca il volo da un singolo, dal kierkegaardiano quel singolo che è il poeta di cui siamo in ascolto, che battezza i nostri frammenti, che li congiunge e che ci fa arrivare a ciò che abbiamo perduto? Luzi brama ardentemente che la cosa si faccia sentire, che cacci un urlo forte e robusto nel buio della mente e nella tenebra in cui siamo. Egli sogna che la cosa stessa vibri di quel tumulto che reclama espressione e significazione. La mente è una parte dell’Intero che ha una comprensione dell’Intero stesso. L’intimo desiderio del poeta è dunque che la cosa, il Tutto, ci parli dal nostro buio, che l’Intero esclami dai noi medesimi sulla base dei frammenti che ancora di Esso sopravvivono in noi. Capiamo adesso che la parola, per noi, è il logos filosofico che cerca di comprendere, ai limiti cosmici, il Cosmo stesso, e che si tratta di un logos metafisico.

però non separarti
da me, non arrivare,
ti prego, a quel celestiale appuntamento
da sola, senza il caldo di me
o almeno il mio ricordo, […]

La parola rara, il logos che ha di mira l’Intero e che immaginiamo sia già partita, deve portarci con lei. La parola poetica e metafisica è una freccia lanciata ai limiti del Cosmo, ai limiti della Materia, ma essa, come una catena, deve tirarci a sé condurci insieme a lei e non lasciarci soli nella nostra irredenta finitudine.
Il ti prego fa subito comprendere che questa poesia di Luzi è un vero e proprio inno, una supplica. Sebbene tutto il componimento sia spesso accostato a considerazioni di ordine trascendente e di tipo cristologico, possiamo intendere la preghiera nel magnifico modo in cui la intendeva Wittgenstein, e cioè come quel pensiero rivolto al senso della vita, alla vita nell’intero, a cercare di stabilire cosa questo senso rappresenti per noi. La parola viene pregata affinché essa arrivi, in prima istanza, a quel celestiale appuntamento. Questo è il primo dei due punti nevralgici della poesia. Il celestiale appuntamento potrebbe essere quello della supplica del peccatore rivolta a Cristo, potrebbe essere l’approdo al cielo come luogo di beautitudine promesso al fedele dopo la morte nella Gloria del Salvatore. Il celestiale appuntamento è ciò da cui tutto si irradia e in cui tutto si consuma, è il silenzio in cui, citando Eliot, giace the heart of light, il cuore della luce24.
L’appuntamento è il luogo del Sacro, ai limiti della significazione, ai limiti cosmici a cui Luzi aspira che la parola arrivi, accade il fatidico incontro tra ciò che siamo e ciò che abbiamo perduto, l’arrivo alla sommità fiorita di quel monte in cui gli dèi in fuga si sono ritirati. La parola, sia anche la parola poetica, ma che per noi si tratta del logos che comprende, il logos filosofico, si spinge fino al Sacro, alla Materia, al Tempo.
Un possibile tentativo metafisico potrebbe essere infatti un pensiero che vada, per dir così, oltre l’umano, che cerchi di arrivare davvero a una considerazione dell’Intero al di là del bene e del male, a una realtà fatta di lave, rocce, minerali, stelle, galassie, un anelito ben espresso dai densi versi di Glück: «I am tired of having hands / she said / I want wings – / But what will you do without your hands / to be human? / I am tired of human / she said / I want to live on the sun»25. E tuttavia, come compreso dal canto di Luzi, questa è una considerazione assai limitata: la parola non deve arrivare da sola, il logos non deve comprendere il Cosmo e le sue leggi senza l’umano che lo formula, senza risolvere quelli che Heidegger chiamava, commentando Rilke, il mistero del dolore, della morte e dell’amore. Il logos che comprende, il logos filosofico sulle cose prime e ultime non deve dimenticarsi dell’umano, il quale è calore e dunque corpo (il caldo di me), il quale è memoria e dunque vissuto (o almeno il mio ricordo). Il logos deve farsi carico, dunque, dell’enigma dell’esistenza umana fino ai limiti del pensabile, fino al Sacro, fino ai recessi dell’Essere che è Intero materico e temporale eternamente in divenire: Umano e Tempo, che nel linguaggio heideggeriano significano Dasein e Seyn, l’evento-appropriazione in cui entrambi divengono comprensibili.

[…] sii
luce, non disabitata trasparenza…

Sii luce, dice il poeta alla parola, un’esortazione che ha il sapore di una compiuta realizzazione. La raccolta di Luzi ha in esergo Giovanni 1,8. A ciò va aggiunto il versetto 10: «Egli [il Verbo, la parola, il logos] era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non lo riconobbe». Il mondo è nell’abisso, è nella tenebra dell’ignoranza, ignoranza che significa anche dolore. Si dica quindi alla parola: illumina lì dove è oscuro, sii un barbaglio di folgori, porta la scintilla, anche di gnosi, che è in me al compimento del fulmine; permettimi di abitare nuovamente nella nuvola di serenità e pace da cui sono caduto, fammi dimorare nella trasparenza, che è uno degli attributi, forse il principale, dell’Essere. Abitiamo di nuovo, sembra dirci Luzi, nella parola, nella sua luce, nell’ospitalità del suo Aperto.
Il verso che chiude il canto sembra però un ritorno all’enigma, a quell’enigma che è l’umano e la sua stessa esistenza in tutto questo, tra gli dèi, il Sacro, nel Tempo.

La cosa e la sua anima? O la mia e la sua sofferenza?

Che cos’è la cosa? E cosa l’anima della cosa? La cosa è il concetto più generale che esista per riferirsi all’ente. E non potrebbe darsi allora che questo per noi voglia dire la cosa come totalità dell’ente, cioè proprio quel Cosmo di cui abbiamo fatto tanto discutere? E che l’anima sia, pensando al Timeo platonico, l’intima ragione che muove e plasma il mondo, le sue leggi e il suo durare?
Mi avvalgo dunque di Marcel Proust, il quale nel Jean Santeuil, parlando della differenza tra due chiese una contemporanea e l’altra più antica, scrive:

E quindi non si aveva torto di venire ad ammirare, perché vecchia, quella chiesa che un tempo era stata brutta, mentre quella nuova era opera d’un architetto d’ingegno. Perché una bella chiesa prova solo la bellezza della immaginazione d’un architetto, mentre la vecchia chiesa abbandonata dimostrava le leggi in nome delle quali il sole e la pioggia ingialliscono le pietre, il vento vi semina la polvere.26

La differenza tra le due chiese è il tempo, il divenire che l’ha fatta invecchiare e senza il quale la chiesa più antica non avrebbe assunto ai nostri occhi la dignità che possiede, e che, nella sua bellezza, non ci avrebbe fatto accorgere della forza invisibile che governa tutte le cose. Quella chiesa abbandonata mostra le leggi in ragione delle quali essa è invecchiata. Leggi, dice Proust in modo commovente, «che sono più belle delle più belle cose del mondo»27. Più belle delle chiese d’oggi, delle Madonne di Raffaello, delle Sinfonie di Beethoven, più belle persino della Recherche stessa. Si tratta delle leggi del Tempo, del Cosmo che è eterno ed eternamente in divenire, l’anima luziana della cosa di cui, come somma bellezza più bella della bellezza di ogni cosa del mondo, si occupa la metafisica. Si tratta insomma degli dèi, i quali, ancora con Pavese, «sono il luogo, sono la solitudine, sono il tempo che passa»28. Il divenire che contempla nelle sue strutture, divine poiché sempiterne, la presenza incedibile dell’eterno.
La seconda domanda, la più significativa, quasi a voler intensificare in una direzione ben precisa il nostro argomento, fa cambiare invece sfondo, per dir così lo restringe, ne fa uno spicco. Si tratta allora della mia anima e della mia sofferenza? Sono in gioco il mio dolore, il mio patire, il motivo più abissale per il quale a questo mondo l’esserci umano è condannato a soffrire. La sofferenza è l’amica più devota di tutti i grandi artisti. I quadri di Van Gogh, l’opera tarda dell’ultimo Beethoven e persino la Recherche, non sarebbero stati possibili senza la sofferenza29. Perché è la sofferenza che ci fa pensare tutto questo che motiva e genera le nostre riflessioni. È l’appello di un Leopardi forse mai più gnostico di questo verso: «Arcano è tutto, / Fuor che il nostro dolor»30.
E cos’è dunque l’anima della seconda domanda luziana? L’anima è colei che fa partire la parola, è colei che pronuncia questa preghiera. L’anima è la voce del Dasein che reclama salvezza, il quale la ottiene con questo logos dalle ali spiegate che si libra su aerei flutti di luce. Mi sembra che quest’ultimo verso concentri in sé la riflessione più profonda che si possa tentare sullo statuto della metafisica: si tratta da una parte della totalità dell’ente e della sua anima, ovvero delle sue leggi, delle sue ragioni più intime, e dall’altra dell’esserci e della sua sofferenza, che in un tentativo metafisico come Tempo e materia viene argomentata come l’attrito, la pressione, spesso insostenibili, che il resto dell’ente esercita sulla sua finitudine. Io direi però che manca qualcosa. Una delle mie risposte è che il Dasein soffre perché si è distaccato da questa totalità, divenendo una forma e dunque proprio per tale ragione Einsamkeit e Endlichkeit, finita solitudine. La sofferenza è l’esistenza come separazione decaduta dal Sacro Cosmo. La metafisica mi sembra allora un tentativo di risposta a questi due interrogativi, che Luzi pone ma a cui la parola alata, il logos filosofico, deve tentare di rispondere.
Direi però che tutto questo ha un nome forse più nobile, un sentire più alto, come la punta di un diamante: Letteratura, la Lichtung, la radura in cui l’umano e il Cosmo si rendono comprensibili, in cui la preghiera coglie il senso del mondo e della vita e in cui avviene il riscatto. È in questo riverbero di luce che avviene la veduta del Sacro. Difatti, nel momento apicale del nostro discorso, Luzi canta davvero l’essenza della poesia, canta nell’epoca della povertà divenuta tempo di riscatto e pienezza, canta i sogni della letteratura spiegati coi sogni della metafisica, in cui umano, sofferenza e leggi cosmiche possono essere narrati e nella narrazione venire compresi.
La metafisica è dunque la bellezza che ci salva, che ci fa comprendere e pensare il concetto primo e ultimo di materiatempo, la quale viene definita da Biuso in questo modo: «C’è soltanto la materia e il suo divenire, c’è il tempo. La materiatempo diventa a volte, in sperduti e infimi grumi, consapevole di se stessa. La materiatempo è atto in atto, è energia infinita, è esperienza di se stessa, è dio»31. La metafisica è, con Rilke, questo canto che consacra e celebra, ed è anche i seguenti versi rilkiani: «In Wahrheit singen, ist ein anderer Hauch. / Ein Hauch um nichts. Ein Wehn im Gott. Ein Wind»32. Il canto è un soffio nella materiatempo, è un vento che sostiene il volo della parola, del logos filosofico, che sospinge le ali della metafisica. Si tratta della parola che si erge dall’abisso di dolore e sofferenza nel quale siamo caduti e che, con questo moto ascensionale, ci porta, proprio perché saliamo, di nuovo nel Sacro, nella Materia e nel Tempo. Stare nell’abisso significa sofferenza. Ascendere grazie alla metafisica ci fa provare la gioia che solo la conoscenza può dunque offrire. E ritrovare il Cosmo come materiatempo, alla fine, ci dona pace, ci consacra, ci salva.
Siamo dunque chiamati a rispondere allo sgorgo di questi versi adamantini di Mandel´štam, per comprendere l’aspirazione dei quali si sono rese a mio parere necessarie le riflessioni, parziali, fin qui condotte, versi con cui almeno per adesso posso concludere:

Verrà il giorno che aspetto
sento un aprirsi d’ala.
Ma il vivo pensiero-freccia
troverà il suo bersaglio?33

 

Note

1 Novalis, Hymnen an die Nacht, I, vv. 1-10. «Quale vivente, / dotato di sensi, / non ama tra tutte / le meravigliose parvenze / dello spazio che ampiamente lo circonda, / la più gioiosa, la luce – / coi suoi colori, / coi raggi e con le onde; / la sua soave onnipresenza / di giorno che risveglia?», trad. di G. Bemporad, Garzanti, Milano 2016, p. 5.

2 «Weiß ich nicht, und wozu Dichter in dürftiger Zeit», in F. Hölderlin, Le liriche, a cura di E. Mandruzzato, Adelphi, Milano 1993, v. 122, p. 524.

3 «Quel quadro! A causa di quel quadro uno potrebbe anche perdere la fede!», in F. Dostoevskij, L’idiota, trad. di E. Maini e E. Mantelli, Mondadori, Milano 2011, p. 295.

4 Cfr. F. Nietzsche, La gaia scienza (Die fröhliche Wissenschaft, 1882), a cura di A. Romagnoli, Barbera Editore, Siena 2007, p. 132.

5 M. Heidegger, Parmenide (Parmenides, 1982), a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2017, p. 204.

6 Cfr. Id., Lettera sull’«umanismo» (Brief über den «Humanismus»), a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2008, p. 73.

7 A. Sichera, Da Atene a Gerusalemme: per una nuova ermeneutica dell’applicazione, in Id., Ceux qui cherchent en gémissant. Crepuscolo e nascondimento di Dio nella scrittura letteraria, Bonanno Editore, Acireale 2012, p. 43.

8 R.M. Rilke, Die Sonetten an Orpheus, I, 19. «Se anche rapido muta il mondo / come figure di nuvole, /ogni cosa compiuta rimpatria /giù nell’origine. / Al di là del processo e del mutamento / più libero e più vasto / ancora persiste il tuo preludio / dio della lira. / Non è riconosciuto il dolore, / non è appreso l’amore, / e ciò che nella morte ci allontana, / non è disvelato. / Solo il canto sopra alla terra / consacra e celebra», trad. di F. Rella, Feltrinelli, Milano 2017, p. 55.

9 M. Heidegger, Perché i poeti? (Wozu Dichter?), in Sentieri interrotti (Holzwege, 1950), trad. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 296.

10 M. Luzi, Perché luce ti ritrai, in Per il battesimo dei nostri frammenti, in Le poesie, Garzanti, Milano 2020, vv. 1-4, p. 577.

11 Ricordo la nota espressione heideggeriana sul senso d’essere della luce: «Soltanto la luce lascia trasparire per lo sguardo l’oggetto in quanto oggetto visibile, e lascia passare lo sguardo, che vede, verso un oggetto da vedere. La luce è ciò che lascia passare. Il chiaro è visibilità (il visibile), estensibilità, apertura dell’aperto», in M. Heidegger, L’essenza della verità. Sul mito della caverna e sul «Teeteto» di Platone (Vom Wesen der Wahrheit. Zur Platons Höhlenglichnis und Theätet, 1988), a cura di H. Mörchen, trad. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1997, p. 81.

12 «La possibilità delle figure divine greche, il fondamento della loro credibilità consiste nel fatto che esse sono simili a idee», in C.G. Jung, K. Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia (Einfūhrung in das Wesen der Mythologie, 1942), trad. di A. Brelich, Bollati Boringhieri, Torino 2018, p. 157.

13 G. Leopardi, La ginestra, o il fiore del deserto, in Canti, Mondadori, Milano 2011, v. 51, p. 223.

14 A.G. Biuso, Tempo e materia. Una metafisica, Olschki, Firenze 2020, p. 85.

15 C. Pavese, Le muse, in Dialoghi con Leucò, Mondadori, Milano 2021, p. 171.

16 Novalis, Hymnen an die Nacht, III. «Il vincolo della nascita – la catena della luce», trad. cit., p. 17.

17 R.M. Rilke, Die Sonetten an Orpheus, I, 16, vv. 9-11. «Vedi, ora è il compito di legare insieme / frammenti e parti, come fossero il tutto. / Arduo sarà darti aiuto», trad. cit., p. 49.

18 Il verso di Mandel´štam è citato in P. Celan, La verità della poesia. «Il meridiano» e altre prose, a cura di G. Bevilacqua, Einaudi, Torino 2008, p. 54.

19 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica (Einführung in die Metaphysik, 1966), a cura di G. Vattimo, Ugo Mursia editore, Milano 2018, p. 37.

20 M. Luzi, Vola alta parola, in Per il battesimo dei nostri frammenti, in Le poesie, cit., p. 591.

21 F. Hölderlin, Sokrates und Alcibiades, v. 5. «Chi ha pensato a ciò che è più profondo ama ciò che è più vivo», trad. cit., p. 409.

22 «Die Grenzen meiner Sprache bedeuten die Grenzen meiner Welt», in L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Werkausgabe, volume I, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2016, p. 67, proposizione 5.6. «I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo», trad. di A.G. Conte, Einaudi, Torino 2009, p. 88.

23 E. Mazzarella, Perché i poeti. La parola necessaria, Neri Pozza, Vicenza 2020, p. 125. Il corsivo è nel testo.

24 «I was neither / Living nor dead, and I knew nothing, / Looking into the heart of light, the silence», in T.S. Eliot, La sepoltura dei morti (The Burial of the Dead), in La terra desolata (The Waste Land, 1922), in Poesie, a cura di R. Sanesi, Bompiani, Milano 2011, vv. 39-41, p. 256. «Non ero / Né vivo né morto, e non sapevo nulla, mentre guardavo il silenzio, / Il cuore della luce», trad. ivi, p. 257.

25 L. Glück, Blue Rotunda (Rotonda blu), in Averno (2006), trad. di M. Bagicalupo, Il Saggiatore, Milano 2020, vv. 1-8, p. 126. «Sono stanca di avere le mani / lei disse / Voglio delle ali – / Ma cosa farai senza le tue mani / per essere umana? / Sono stanca dell’umano / lei disse / Voglio vivere di sole», trad. ivi, p. 137.

26 M. Proust, Jean Santeuil, trad. di F. Fortini, Einaudi, Torino 1953, p. 415.

27 Ibidem.

28 C. Pavese, La vigna, in Dialoghi con Leucò, cit., p. 145.

29 «L’imagination, la pensée peuvent être des machines admirables en soi, mais elles peuvent êtres inertes. La souffrance alors les met en marche» in M. Proust, Le Temps retrouvé, a cura di P.E. Robert e B. Rogers, in À la recherche du temps perdu, a cura di J.-Y. Tadié, Gallimard, Parigi 2019, p. 2295. «L’immaginazione e il pensiero possono essere macchine mirabili in sé, ma possono essere inerti. La sofferenza allora le mette in moto», trad. di M.T. Nessi Somaini, Rizzoli, Milano 2012, p. 296.

30 G. Leopardi, Ultimo canto di Saffo, in Canti, cit., vv. 46-7, p. 101.

31 A.G. Biuso, Tempo e materia. Una metafisica, cit., p. 149.

32 R.M. Rilke, Die Sonetten an Orpheus, I, 3, vv. 13-14. «In verità cantare è un altro respiro. / Un respiro nel nulla. Un soffio nel Dio. Un vento», trad. cit., p. 23.

33 O. Mandel´štam, Io la luce aborrisco, in Ottanta poesie, a cura di R. Faccani, Einaudi, Torino 2009, vv. 9-12, p. 25.

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