Sullo statuto del presente: ontologia e storia

Di: Alberto Giovanni Biuso
16 Novembre 2020

 

I Il presente: ontologia

Esse cognoscere aude. Metafisica vuol dire anche coraggio, il coraggio di conoscere l’essere, di non fermare il corpomente né alla concretezza dell’empiria né alle consolazioni della trascendenza, per volgere invece la persona verso l’universale che emerge, traluce, abita gli enti. L’universale che sta prima e dentro di loro senza costituire un assoluto, una volontà, un mistero.
Un’ontologia coerente oppone anzitutto la ovvia precedenza dell’essere rispetto alla conoscenza dell’essere, il quale è conoscibile anche attraverso l’intuizione intellettuale, che invece l’empirismo, Kant e il pensiero postkantiano escludono. Uno dei fondamenti della tesi che la realtà nella sua struttura non dipenda da alcuna mente (realismo ontologico) e che nel modo in cui appare sia conoscibile (realismo epistemologico), è la compresenza di essere e nulla nel divenire. Infatti il divenire intrama l’intero universo, accade nei gangli stessi della materia atomica e molecolare, la cui struttura non dipende da una mente percipiente ma al contrario forma la mente capace di percepirla. E lo fa in modalità temporali. La materia è dunque dialettica, poiché risulta complessivamente dalle forze plurali e cangianti che le appartengono; ed è differenza poiché tutto ciò che le appartiene muta in essa costantemente. Lo stesso vale per quella parte di materia che chiamiamo corpomente. Il corpomente muta e perciò può distinguere un prima e un dopo rispetto al suo stato presente, ovvero cosa resta complessivamente di se stesso, cosa c’è ancora, cosa non c’è e cosa non ci sarà più. Sia nella dimensione ontologica sia in quella epistemologica, il niente non è mai semplice negazione ma è la differenza che scaturisce da tali processi. Ogni determinazione non è negazione ma è questa differenza.
Gli enti non sono l’essere non perché l’essere sia una volontà/persona che li abbia voluti e creati (è questo uno dei limiti maggiori e costanti di ogni filosofia ispirata al monoteismo creazionista, compresa la Scolastica) ma perché la loro struttura è fatta di parzialità, finitudine e oscurità rispetto all’essere come trasparenza, attrito, differenza che rende possibile gli enti senza coincidere con nessuno di loro, né come enti singoli né come universali logici e ontologici.
La realtà è fatta di enti, eventi e processi. Tra i secondi possiedono uno statuto specifico gli eventi storici. Uno statuto specifico ma anche enigmatico, per numerose e complesse ragioni. Quando inizia e quando si conclude un evento? Qual è la sua relazione con ciò che precede e con gli eventi a esso successivi? Un evento è qualcosa di autonomo o dipende sempre da chi lo osserva, lo vive, lo studia? Una definizione che è già una risposta ad alcune di queste domande è che un evento consiste in «un cambiamento percepito» e che dunque «perché vi sia un evento occorre quindi che il cambiamento si produca veramente nel mondo e che sia accessibile a una pluralità di osservatori virtuali, contemporanei e in grado di comunicarsi a vicenda i risultati delle proprie osservazioni»1.
Importante, in tale plesso, è la condizione per la quale un evento ‘si produca veramente nel mondo’, a garanzia della indipendenza del reale da una qualsiasi coscienza che lo osservi. Una delle condizioni di una metafisica realistica e plurale, cioè in grado di seguire i cangianti contorni della realtà e non di imporre alla realtà i propri schemi concettuali, è che il livello ontologico non venga ricondotto e ridotto a quello soltanto epistemologico, che l’essere non venga identificato con la percezione. Che cosa significa dunque ‘esistenza reale’? L’esistenza non è riducibile alle sue espressioni fisiche e chimiche, agli atomi e alle molecole. Questa forma ingenua di materialismo si scontra con la possibilità stessa del linguaggio, il quale consiste sia nel suono fisico sia nel suo significato concettuale, senza il quale il suono fisico sarebbe del tutto insignificante, alla lettera. Ora, se le logiche di primo ordine ammettono come variabili soltanto strutture individuali e quelle di secondo ordine ammettono anche le classi, le conseguenze logiche e ontologiche di tale presupposto conducono all’esistenza degli universali. Siamo infatti realisti ogni volta che enunciamo una proposizione che riguardi un numero di enti superiore a 1 e non sia possibile tradurre tale proposizione in una proposizione di primo livello, in una espressione della logica del primo ordine che riduca tutto a un solo elemento. Ma è esattamente questo ciò che succede quasi ogni volta che formuliamo enunciati, quasi ogni volta che apriamo bocca.
Il limite del realismo platonico, come Aristotele comprese, non sta nel postulare un’esistenza che vada al di là dell’esperienza empirica ma nel separare tale al di là, μετά, dall’esistenza empirica. L’universale non è un individuale separato ma è ciò che permette agli enti individuali di esistere in relazione a ciò che come individui non sono, e che permette di conoscere tali enti nella loro identità con se stessi e nella differenza con ciò che non sono. Differenza che assume gradi, livelli, espressioni molto diverse tra loro. Differenza che è quindi un altro nome dell’essere.
L’esistenza empirica, come argomenta Meinong, è una forma soltanto particolare della consistenza ontologica. La quale non sta in un altrove ma costituisce la struttura stessa del qui e ora, dove il qui sono tutti i luoghi – lo spazio – e l’ora sono tutti gli istanti passati, presenti e futuri – il tempo.
Nel tempo si esiste, nello spazio si è estesi. Questo è un buon punto di partenza per tentare di comprendere come sia fatta la realtà. Essa si compone infatti, come accennato, di enti, eventi e processi, i quali occupano uno spazio e accadono nel tempo. Ci sono tuttavia degli enti che non esistono, come i numeri e i divini. I primi non occupano spazi, i secondi neppure accadono nel tempo se al divino associamo la caratteristica dell’eternità. Un’altra espressione della differenza tra lo spazio e il tempo è che gli enti durano nello spazio (endure) e gli eventi accadono nel tempo (perdure). Gli enti dunque esistono, gli eventi persistono, vale a dire esistono in tempi diversi.
Ma anche tali differenze vanno molto attenuate, sino anche a dissolverle, se osserviamo che sia gli enti sia gli eventi sono sottoposti a mutamenti, vale a dire a trasformarsi mentre la loro identità persiste. In caso contrario non si tratterebbe infatti di mutamento ma di distruzione. Un ente persiste quando vi sono vari tempi nei quali esiste e muta quando – come suggerisce Russell – «una proposizione che concerne un’entità x è vera in un tempo e falsa in un altro tempo»2. Quell’entità infatti rimane la stessa, tanto che è possibile riferirsi sempre a essa nell’attribuirle predicati diversi, e tuttavia se i predicati attribuiti sono per l’appunto diversi significa che essa non è più esattamente quella che era prima, non è esattamente la stessa.
Se riflettiamo con attenzione su quanto abbiamo appena detto intuiremo che la differenza tra enti ed eventi permane, certo, ma si assottiglia sempre più. Gli enti infatti continuando a esistere nel tempo, in realtà anche perdurano. E gli eventi non sono localizzati soltanto nel tempo; per esistere e persistere devono essere individuati anche nello spazio.
Gli eventi possono essere puntuali se esistono in un istante e possono essere estesi quando persistono in un intervallo. Questa seconda categoria di eventi può essere ulteriormente distinta in eventi statici, che chiamiamo stati, e in eventi dinamici, che chiamiamo processi.
Ma anche queste distinzioni/separazioni si mostrano troppo rigide e quindi inadeguate poiché di fatto tutto ciò che sembra statico è in realtà dinamico a un qualche livello della sua struttura, molecolare o atomico. E questo significa che l’immobilità non sta negli enti e negli eventi ma sta in chi li osserva. La stasi è una prospettiva epistemologica, non è una struttura ontologica del mondo.
Gli enti, gli eventi, i processi che appaiono statici sono esattamente ciò che chiamiamo presente, sono lo spazio. Il quale non è quindi qualcosa di diverso dal tempo ma costituisce uno dei suoi modi, il modo presente. Esserci significa certamente essere presente, sia nel senso di esistere ora sia nel senso di persistere ancora. Quando un ente cessa di persistere, allora finisce anche la sua esistenza, finisce la sua presenza.
Non si dà quindi dualismo tra gli enti e il tempo, come invece sembrerebbe evincersi dall’ipotesi trascendentista per la quale l’esistenza temporale è una relazione tra un ente e il tempo. Questo implicherebbe infatti che enti e tempo siano due strutture diverse, il cui elemento mediatore sarebbero appunto gli eventi.
Una seconda forma di dualismo che caratterizza il trascendentismo è dunque quella tra tempo ed eventi, con un primato ontologico dei secondi sul primo. Infatti il trascendentismo pur non aderendo interamente alle ipotesi riduzioniste sul tempo, certamente le privilegia, riducendo il tempo sempre ad altre ‘entità’ o ad aspetti di altre entità.
Il dualismo trascendentista finisce quindi con il ricondurre e ridurre il tempo agli eventi, laddove invece tempo ed eventi non sono due forme dell’essere ma costituiscono esattamente l’unico essere che è e che accade, che esiste e che persiste. Tempo ed eventi costituiscono due aspetti della stessa realtà.
Il trascendentismo ha a suo fondamento una ben precisa versione degli universali, per la quale essi non sono localizzabili nello spazio – soltanto gli enti lo sono – e hanno una relazione con lo spazio soltanto in quanto instanziati in oggetti che abbiano una localizzazione; un dispositivo concettuale che si ripete per quanto riguarda la relazione tra gli enti e il tempo, che non sarebbe diretta ma mediata dagli eventi, la cui natura è proprio di essere mediatori tra il tempo in quanto tale e le cose che sono nel tempo.
In realtà, il tempo non è una dimensione che precede gli eventi ma è generato dal movimento stesso degli enti e dà loro senso. Il tempo è il mutamento. Il tempo sono gli eventi. Il tempo è il divenire che intesse semplicemente tutto, sia l’intero sia ciascuna delle sue espressioni. Il tempo-eventi-divenire è l’identità della linea generata dagli eventi – linea certamente non uniforme ma rizomatica e vibrante – e la differenza degli eventi generati: diversi, stratificati, infiniti, indeterminati. Dato che tutti gli enti sono in realtà degli eventi, questo vuol dire che la realtà è intrinsecamente temporale e di essa è parte fondante l’ora, l’adesso presente, lo spazio.

 

II Il presente: storia

«Ideologia» è una delle più importanti parole polisemantiche del nostro vocabolario. La molteplicità dei suoi significati rende ogni volta necessario esplicitare in quale significato la si usa. Qui la si intende come il mare stesso nel quale i pesci sociali nuotano, senza naturalmente rendersi conto che è proprio in quel mare che stanno nuotando, tanto è loro familiare l’acqua. Un’ideologia è infatti un insieme articolato e connesso di valori, credenze e simboli comuni al corpo collettivo, un’identità nella quale individui diversi e società anche lontane nel tempo e nello spazio si riconoscono sino a dare per assolutamente ovvio che quei valori, quelle credenze e quei simboli siano di fatto non soltanto positivi e da accogliere/praticare ma anche indiscutibili e veri sempre. L’ideologia «è l’unità della rappresentazione, una unità che peraltro non esclude la contraddizione o il conflitto»3.
In questo senso l’ideologia di gran parte delle società contemporanee è l’individualismo. Un termine che va inteso non nell’accezione empirica della singola persona con il suo corpomente, con la sua volontà, con la sua soggettiva vicenda esistenziale e relazionale ma come principio etico-teologico supremo, al quale commisurare ogni norma giuridica, ogni legittimità dei comportamenti, ogni riferimento al bene e al male, ogni destino.
L’individuo così inteso e l’individualismo come paradigma ontologico ed etico non esistevano nelle civiltà antiche, comprese quella greca e romana. Le quali avevano dei tratti individualistici ma il cui paradigma era olistico, così come lo sono state sino a tempi recenti – e in gran parte lo sono ancora –  società come quella indiana, cinese, giapponese e altre. Il dato di fatto, anzi, è che la gran parte delle società e civiltà sinora esistite hanno condiviso sino a tempi recenti – vedremo tra poco quanto recenti – la convinzione che il corpo sociale costituisca un tutto unitario, nel quale l’individuo esiste, nasce, viene accolto, opera all’interno di uno spaziomondo che trascende la propria persona e nel quale la persona può esprimere le proprie potenzialità, solidali o conflittuali che siano; uno spazio nel quale ciascuno viene dunque sostenuto, guidato e anche controllato e punito, in quanto la società non è la semplice somma degli individui che la compongono ma costituisce un tutto del quale l’individuo è una variabile.
Queste società non negano di certo – e come potrebbero? – l’esistenza di individui con le loro peculiarità e irriducibilità al gruppo. Declinano però tale consapevolezza in un individualismo debole che è atteggiamento e paradigma assai diverso rispetto all’individualismo forte della più parte delle società contemporanee, certamente di quelle europee ed anglosassoni ma sempre più anche delle altre, le quali ritengono invece che l’individuo costituisca da solo la sintesi dell’intera specie e che quindi, ad esempio, tutti i corpi intermedi tra l’individuo e la specie siano degli ostacoli al pieno dispiegamento dell’umanità come umanità del singolo.
Questa idea, così singolare e controintuitiva – dato che nessun cucciolo umano ha la minima possibilità di sopravvivere da solo, fuori dalla comunità e dai corpi intermedi che gli danno sostentamento, formazione, risorse, difesa, garanzie – ha avuto una lunga storia, come è inevitabile che sia, prima di apparire e dispiegarsi in tutta la sua potenza nel presente. Questa storia si genera con il paradigma cristiano della sacralità di ogni essere umano che viene al mondo in quanto figlio dell’unico Dio, il quale ha inviato il suo unico Figlio a redimere l’umanità peccatrice in ciascuno dei suoi membri. Cristo è venuto per salvare te, proprio te.
L’individualismo, una delle più straordinarie novità del cristianesimo, è stato per molti secoli contenuto – nel molteplice senso di questa parola – nella e dalla prospettiva gerarchica dell’età che chiamiamo Medioevo, per dispiegarsi poi in tutta la sua potenza a partire dalla Riforma luterana, la quale ha voluto esplicitamente contrapporsi alla Chiesa Romana, giudicata una semplice ed evidente, per quanto nascosta, prosecuzione del principio olistico latino, a favore invece del dialogo a tu per tu del cristiano con Dio, dissolvendo la mediazione del corpo ecclesiastico e della stessa struttura cattolica, vale a dire universale. Il luteranesimo, tuttavia, liberò l’individuo soltanto nella sfera religiosa. La nascita dell’individualismo moderno non sarebbe stata possibile in una società, come quella tedesca e, appunto, luterana, dove l’elemento politico era invece ancora plasmato secondo la mentalità e i paradigmi medioevali. L’individualismo si impone, e lo fa in modo inarrestabile, in altre società, come quelle inglese e francese.
L’individualismo nasce, in sostanza, quando muta radicalmente il significato della relazionalità umana che da rapporti tra corpimente diventa il rapporto dei corpimente con le cose, da relazionalità politica diventa quindi relazionalità economica e soltanto economica. Se per i fisiocratici e per Quesnay la fonte della ricchezza è ancora la terra, l’agricoltura, i campi e le rendite che dalla terra possono ricavarsi; se l’elemento centrale dell’economia è ancora il valore d’uso dei beni – l’aria e l’acqua, ad esempio, non sono ricchezze ma beni naturali e inalienabili–, per Adam Smith invece «la situazione dello scambio è la situazione fondamentale da cui emerge il valore della merce. E una volta dato l’individuo, bisogna farlo allontanare dal valore d’uso»4.
L’individualismo è il fondamento ontologico del paradigma economico del liberismo, per il quale il valore di un bene consiste nella quantità e natura di altri beni con i quali si è disposti a scambiarlo; il valore di un bene consiste nel suo prezzo; il valore di un bene consiste nel suo valore di scambio e questo valore è a sua volta radicato nella quantità di lavoro necessario a produrre quel bene. Il valore di un bene consiste quindi nel tempo necessario a produrlo e nella quantità di merce prodotta e disponibile allo scambio.
Tempo di ogni singolo produttore. Quantità discreta, separata, autonomizzata. Se questa è l’ontologia dell’economico, è chiaro che qualunque ente ed evento può diventare occasione di scambio, qualunque ente ed evento – compreso il corpo umano – può diventare e diventa una merce. L’individuo mette sul mercato se stesso e compra il lavoro e il tempo degli altri individui.  Allo stesso modo, ogni singolo individuo nascendo e da solo rimanendo debole, isolato, destinato a una vita «solitary, poor, nasty, brutish, and short»5, si unisce agli altri e si subordina a un governo soltanto per sfuggire a tale condizione.
La naturale politicità dell’animale umano, l’essere il Dasein sempre anche un Mitsein sono da Hobbes esclusi in partenza e alla radice. All’ontologia olistica di Aristotele e del suo allievo Heidegger, l’individualismo anglosassone sostituisce un’ontologia soggettivistica il cui luogo supremo e naturale è il mercato. In altre parole, e come anche l’aristotelica-heideggeriana Hannah Arendt ha osservato, la dimensione politica diventa semplicemente succedanea e conseguente a quella economica, la quale determina in tutto e per tutto la vita degli individui e delle collettività alle quali gli individui danno vita. Per Arendt, infatti, la modernità è caratterizzata anche e specialmente dalla politica ridotta a tecnica e amministrazione, mentre invece presso i Greci essa costituiva il modo globale di esistere6.
L’individualismo economico, vale a dire il paradigma sotto il quale sta e dentro il quale abita il XXI secolo, nasce dunque e si esprime nella linea che da Locke e Hobbes perviene a Marx, passando per Hume, Mandeville, Smith. La contrapposizione marxiana fra struttura economica e sovrastruttura giuridica, culturale, religiosa, politica ha come radice il fatto che «ogni uomo […] diventa in qualche misura un mercante»7. Con Marx la dimensione economica transita da elemento tecnico/finanziario della produzione e degli scambi a elemento antropologico e ontologico. La prospettiva di Adam Smith trova dunque il suo apogeo nella filosofia di Karl Marx. È anche per questo che il Novecento e il nostro presente sono caratterizzati dal fatto che «l’economico come categoria fondamentale rappresenta il culmine dell’individualismo e, come tale, tende a essere supremo nel nostro universo»8.
La modalità nella quale il paradigma individualistico si esprime dentro la cultura e società francese consiste in una forma analoga e insieme molto diversa di rimozione della centralità del politico. Se il liberalismo e il liberismo britannici pongono al posto della dimensione politica quella economica e mercantile (il valore di scambio, appunto), l’ideologia francese pone l’universalismo dei Diritti dell’uomo, sintetizzati nello slogan rivoluzionario che, al di là della sua ricezione ormai del tutto passiva e semplicemente retorica, pone problemi insolubili. Fin dal governo giacobino e poi soprattutto con i governi comunisti del Novecento, il conflitto tra Liberté ed Egalité ha mostrato la strutturale incompatibilità tra i due elementi: essere liberi significa anche essere liberi di volersi diseguali rispetto agli altri; essere eguali implica una quantità più o meno consistente ma in ogni caso rilevante di repressione rispetto a ogni tentativo di mettere in atto una libertà che rende differenti. Per quanto riguarda la Fraternité, si tratta dell’ammissione esplicita delle radici cristiane dell’universalismo rivoluzionario: gli umani come fratelli, al di là di ogni differenza di luogo, di tempo, di pensiero, di credenze. Vale a dire quanto ci sia di più lontano dalla complessità e dalla semplice realtà della condizione umana, che è fatta di identità, certo, ma anche di differenze, è fatta di continuità ma anche di scarto, è fatta di relazioni sia pacifiche sia violente. A ogni livello. Non a caso la Francia, che sino al XVIII secolo era costituita da un complesso reticolo di autonomie e poteri, divenne uno Stato realmente unitario soltanto con il governo giacobino e a costo, come sempre, di massacri delle minoranze antirivoluzionarie.
Si tratta di una dinamica che mostra l’apparentemente paradossale continuità tra individualismo e totalitarismo in quanto «il totalitarismo è interno al mondo moderno, all’ideologia moderna. […] Il totalitarismo risulta dal tentativo, in una società in cui l’individualismo è profondamente radicato e predominante, di subordinarlo al primato della società come totalità»9.
Essendo l’individualismo una forma dell’utopia, tanto da costringere sempre le società che lo adottano a contemperare i suoi elementi distruttivi con interventi pubblici nell’economia e interventi burocratico-statali che si configgono nei corpi stessi degli individui (la biopolitica che nella recente epidemia Covid19 ha visto il suo trionfo), essendo dunque utopico, l’individualismo si alimenta di un’altra potente radice cristiana: il volontarismo opposto all’Ἀνάγκη; una posizione che nella teoria politica si chiama più tecnicamente artificialismo. Il quale costituisce una chiara, per quanto tranquillamente accettata e praticata, espressione della tracotanza del moderno, della ὕβρις che si esprime in forme numerose e diverse.
Due esempi tra di loro solo apparentemente estranei:
– il transitare dalla giusta richiesta di gestione della propria sessualità all’idea che non esistano generi sessuali e che essere maschio o femmina sia frutto dell’educazione ricevuta e della volontà di essere, appunto, femmina o maschio. Una forma, questa, di artificialismo estremo, che ritiene davvero possibile e reale un abito sessuale in tutto costruito dalla mente, indossato sempre e soltanto a propria scelta e desiderio e, in generale, il negare che «si dia un abito sociale mos, ethos – che gli individui non indossino a propria scelta, ma di cui in una certa misura nascano già ‘vestiti’, sia pure affidato al genio personale del loro ‘portamento’»10;
– la debolezza, l’impopolarità e l’impossibilità della Repubblica di Weimar imposta alla Germania sconfitta dopo la I Guerra mondiale. La Costituzione di Weimar si rivelò infatti fragile sino all’inapplicabilità poiché in profondo conflitto con la dimensione olistica dell’intera storia tedesca.
Questi e altri eventi mostrano che la possibilità dell’ideologia di trasformare le società è profonda ma è anche parziale e limitata, tanto che quando il volontarismo/artificialismo spinge a forzare gli elementi costitutivi del corpo sociale la conseguenza è un rimbalzo che produce il contrario di quanto si vorrebbe imporre. Esistono dunque dei «limiti all’artificialismo moderno oltre a quelli che ha cominciato a additarci l’ecologia, limiti che attengono alla natura sociale dell’uomo come essere pensante. Sarebbe ora di cominciare a prendere coscienza di questa specie di necessità, che ci sfugge proprio perché ci sembra in contrasto con i nostri sogni più cari degli ultimi secoli»11.

 

III Il presente: filosofia

Goethe è un grande scrittore anche per la ragione che nonostante fosse immerso nell’individualismo romantico nutriva in sé una natura talmente greca da sapere e sentire che la molteplicità è inseparabile dall’unità, che la differenza è inseparabile dall’identità. E viceversa. E che, come disse con grande chiarezza Tommaso d’Aquino, «ordo autem massime videtur in disparitate consistere»12, che la ricchezza delle differenze rinvia sempre a un ordine e che l’ordine consiste nella misura delle differenze dentro l’ordine stesso.
Il paradigma olistico è questo. Molte delle inquietudini interiori e delle violenze pubbliche del presente nascono dall’averlo dimenticato a favore invece di un artificialismo frutto solo di wishful thinking, di fantasie culturaliste, di prospettive lontanissime dalla salute del materialismo.
La filosofia è invece un modo di vivere all’interno di una comunità, nel dialogo, nel confronto, nel sentirsi esistere in una relazione continua con altri umani animati dalla stessa forma, passione, interesse, intenzione, vita.
La filosofia si radica in ogni possibile presente in almeno tre modi: consapevolezza dei limiti umani, della nostra infima misura dentro lo splendore e l’immensità dell’intero; disincanto nei confronti della condizione di dolore e di morte non soltanto dell’umano ma di tutto ciò che è vivo; metamorfosi di questo consapevole disincanto in azione, in opera, in trasformazione della vita propria e delle relazioni, dei legami, della politica.
Esistere nel presente significa esserci non nel semplice presente fisico e matematico, infinitamente divisibile e anche per questo di fatto insussistente, ma nel presente come percezione della durata e suo significato. Un presente semantico prima di tutto. L’esistere ha una struttura asintotica, sempre aperta e mai definitiva. Vivere significa precisamente questo incompiuto che in ogni suo momento è sempre realizzato.
Una sentenza attribuita a Metrodoro (la n. 10) esprime con chiarezza la potenza del pensare il presente e nel presente all’interno del flusso senza fine del divenire: «Ricorda che nato mortale, con una vita limitata, tu sei assurto, grazie alla scienza della natura, fino all’infinito dello spazio e del tempo e hai visto ciò che è, ciò che sarà, ciò che fu».
La filosofia è quindi conoscenza e pratica del tempo infinito dentro il tempo limitato che siamo, è la consapevolezza che una parte della materia universale ha di esistere per un arco, una parabola, un percorso sempre limitati ma non per questo meno densi, filosofia è diventare l’infinito che si è.
È quanto Ernest Renan definisce il «punto di vista di Sirio», la stella più luminosa che i nostri occhi di terrestri possano scorgere. È vedere il mondo come lo percepirebbe una roccia, in uno sforzo di oggettività che liberi il presente dal suo limite e dia al qui e ora la solidità della durata.

 

Note

[Ringrazio Lucrezia Fava ed Enrico Moncado per la loro attenta lettura del testo e per i consigli che lo hanno migliorato]
1 K. Pomian, «Evento», in Enciclopedia Einaudi, vol. 5, Einaudi, Torino 1978, p. 978.
2 D. Costa, Esistenza e persistenza, Mimesis, Milano-Udine 2018, p. 118.
3 L. Dumont, Homo Aequalis. I Genesi e trionfo dell’ideologia economica II L’ideologia tedesca (Homo aequalis. I. Genèse et épanouissement de l’idéologie économique II. L’idéologie allemande. France-Allemagne et retour, Gallimard 1977 e 1991), trad. di G. Viale e M. Valensise, Adelphi, Milano 2019, pp. 42-43.
4 Ivi, p. 249.
5 «solitaria, povera, sporca, bestiale e breve» (T. Hobbes, Leviathan, I, 13).
6 H. Arendt, Vita Activa. La condizione umana (The Human Condition, 1958), trad. di S. Finzi, Bompiani, Milano 1996.
7 A. Smith, Ricchezza delle nazioni, I, cap. IV, § 1.
8 L. Dumont, Homo Aequalis, cit., p. 91.
9 Ivi, p. 32; il corsivo è di Dumont.
10 E. Mazzarella, L’uomo che deve rimanere. La smoralizzazione del mondo, Quodlibet, Macerata 2017, p. 28.
11 L. Dumont, Homo Aequalis, cit., p. 154.
12 Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 96, a. 3.

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