Kant e il progetto filosofico di un ewigen Frieden

Di: Stefano Piazzese
16 Novembre 2020

 


Il diritto degli uomini dev’essere tenuto come sacro, per quanti sacrifici ciò possa costare al potere dominante. Qui non è possibile fare due parti uguali e immaginare il mezzo termine di un diritto pragmatico-condizionato (a metà strada tra l’utile e il diritto), ma davanti al diritto ogni politica deve piegare le ginocchia e solo così essa può sperare di pervenire, sia pure lentamente, a quel grado in cui le sarà dato brillare di durevole splendore
1.

Il progetto filosofico kantiano – Zum ewigen Frieden. Ein philosophischer Entwurf (1795-96)2 – da cui prendiamo le mosse per lo sviluppo del nostro argomento è radicato, come ogni filosofia, nella storicità di chi lo ha posto in essere. Il presente lavoro non ha la pretesa di trattare in modo esaustivo la dottrina politico-giuridica in Kant a partire da un punto, ovvero il testo a cui facciamo riferimento – bisognerebbe dedicare una trattazione ampia solamente al titolo dell’opera in questione, oppure alla differenza tra Articoli provvisori e Articoli definitivi -, ma ci concentreremo su un’affermazione tratta dall’Appendice I della Seconda sezione per porre una domanda fondamentale che aprirà la strada all’elaborazione della tesi che qui vogliamo affermare: il pensiero kantiano, considerato uno dei pilastri dello stato liberale, non legittima dinamiche etico-giuridiche che hanno luogo a partire dal distacco della politica dalla morale – sentiero che in molti casi gli stati liberali anche contemporanei percorrono, sia in materia di politica interna quanto in materia di politica estera -, e mette in guardia nei confronti di un potere esercitato senza il vaglio della ragione critica. Vedremo anche alcune problematicità insite nelle tesi kantiane.

Iniziamo da una precomprensione storica che sta a fondamento della nostra lettura: la Rivoluzione francese e la Guerra d’indipendenza americana comportarono per Kant la necessità di un ripensamento della questione politico-giuridica europea e non solo, in quanto, come avremo modo di approfondire, il ripensamento di cui parliamo si esplica nei termini di un ampliamento anche geografico di tale questione. Siffatta necessità è dovuta al pericolo, sempre incombente, di una guerra di sterminio – bellum internecinun – tra due Stati, in tal senso il quinto articolo preliminare afferma: «La guerra è infatti solo il triste mezzo necessario nello stato di natura (dove non esiste tribunale che possa giudicare secondo il diritto) per affermare con forza il proprio diritto»3. Da qui l’idea di una relazione universale e pacifica come principio di diritto e non di pura filantropia. Anche nei Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre (1797), viene ribadito il suddetto principio: «Questo diritto, in quanto riguarda la possibile unione di tutti i popoli, in vista di certe leggi universali del loro possibile commercio, può essere chiamato diritto cosmopolitico (ius cosmopoliticum4.
Il progetto politico di una relazione universale e pacifica di tutti i popoli della terra si declina nel seguente movimento: partendo dal diritto pubblico nazionale (Staatsbürgerrecht), verso il Diritto cosmopolitico (Weltbürgerrecht), per mezzo del diritto internazionale degli stati in rapporto tra loro (Ius gentium), così come leggiamo anche dalla sez. II § 61 in Die Metaphysik der Sitten (1797), dove gli interlocutori di Kant sono principalmente «gli operatori del diritto e della morale, vale a dire i giuristi ed educatori, o in generale tutti coloro che hanno il compito di formare le coscienze»5. La dimensione cosmopolitica – che verrà, appunto, affrontata da Kant nella sezione seguente Das Weltbürgerrecht §62 – è un momento successivo alla dimensione internazionale declinata nei termini di rapporti fra Stati, il cui fondamento risiede nel concetto di congresso come sua forma etico-giuridica:

Per congresso si intende qui però soltanto una coalizione cui liberamente aderiscono diversi Stati, revocabile in qualsiasi momento, e non una unione che (come quella degli stati Americani) è fondata su una costituzione statale e perciò irrevocabile. Esclusivamente grazie a un congresso può essere realizzata l’idea di un auspicabile diritto pubblico dei popoli che decida le controversie in modo civile, mediante un processo per così dire, e non in modo barbaro (alla maniera dei selvaggi), con la guerra6.

È chiaro come il progetto di una pace duratura fra i popoli sia un’idea fondante del diritto secondo Kant, e abbiamo sentito l’esigenza di dare uno sguardo più ampio in apertura per cogliere meglio questo aspetto di cui parliamo, poiché è necessario che quest’ultimo sia collocato e compreso attraverso una lettura unitaria del pensiero politico kantiano. Difatti, il Progetto per una pace perpetua va letto non solo all’interno della vicenda storica da cui ha scaturigine – la pace di Basilea viene comunemente indicata come causa principale dello scritto kantiano -, altresì va inserito all’interno di una speculazione politico-giuridica che si manifesta nel pensiero di Kant, seppur con sfumature diverse, già da molti anni prima.
Cosa significa che ogni politica deve piegare le ginocchia davanti alla morale?7 Da questa domanda fondamentale, e dalla risposta che ne segue, è possibile individuare l’articulus stantis aut cadentis della dottrina politica e giuridica di Kant. Nel Progetto il filosofo afferma l’accordo della politica con la morale secondo il concetto trascendentale del diritto pubblico8:

Tale procedura è favorita dall’ambiguo atteggiamento della politica in rapporto alla morale, per cui di quest’ultima la politica utilizza ai propri fini l’una o l’altra delle due specie di massime. […] Con la morale nel primo significato (cioè come etica) la politica si dichiara facilmente d’accordo, abbandonando il diritto degli uomini alla mercé dei loro capi; ma con la morale nel secondo senso (cioè in quanto dottrina del diritto), davanti alla quale dovrebbe inchinarsi, la politica trova opportuno non accordarsi affatto e preferisce negarne ogni realtà e ridurre tutti i doveri a puri obblighi di benevolenza. Ma quest’insidia propria ad una politica che teme la luce del sole verrebbe dalla filosofia facilmente smascherata mediante la pubblicità di quelle massime, se la politica avesse solo il coraggio di permettere al filosofo di dare pubblicità ai di lei principi9.

Va precisato che il vincolo della pace di cui parla il filosofo nella sua forma storico-istituzionale è la costituzione di una federazione di Stati che faccia valere il diritto internazionale: essa è da intendere come una federazione di popoli liberi – Volkerbünd – il cui fine è quello di un foedus pacificum – da non confondere con il patto di pace pactum pacis -, e mai, come erroneamente spesso s’intende, nei termini di uno stato unico – Völkerstaat. Difatti, leggiamo dal Secondo articolo definitivo per la pace perpetua – Il diritto internazionale deve fondarsi su una federazione di stati liberi: «I popoli […] si ledono a vicenda già per il solo fatto della loro vicinanza e ognuno dei quali, per la propria sicurezza, può e deve esigere dall’altro di entrare con lui in una costituzione analoga alla civile, nella quale può venire garantito ad ognuno il proprio diritto. Questa sarebbe una federazione di popoli, che non dovrebbe essere però uno Stato di popoli»10. Nessuno Stato di popoli potrebbe essere garante delle premesse giuridiche poste dal filosofo in quanto esso, ipso facto, lederebbe la possibilità di garantire a ciascun Stato il proprio diritto. Possiamo affermare che il carattere repubblicano della dottrina politica kantiana trova qui la sua estensione su scala globale, ovvero in termini di politica internazionale e in merito al comune perseguimento, da parte di tutti i popoli della terra, del progetto di una pace duratura di cui, ricordiamo, non deve importare la sua piena realizzabilità come presupposto razionale – è un disegno pienamente realizzabile? – quanto il suo costituirsi come tensione morale e prassica che guida i rapporti tra gli Stati per non ricadere nella barbarie. Da qui la necessità di creare nuovi istituti giuridici come garanti e custodi del progetto, ovvero un campo di dispiegamento e di applicazione dei principi morali, un nuovo orizzonte trascendentale.

Perché il progetto di una pace perpetua tra i popoli della terra è sempre attuale? Norberto Bobbio risponde alla luce della stretta correlazione che lega i concetti di pace e di guerra, una correlazione presente nello scritto kantiano – «il trattato di pace può ben porre fine alla guerra attuale, ma non allo stato di guerra (cioè alla possibilità di trovare pretesti per una nuova guerra): il quale stato di guerra nemmeno si può a sua volta definire semplicemente come ingiusto, poiché in esso ognuno è giudice in causa propria»11-, prospettiva costituente la chiave ermeneutica adeguata a una lettura del progetto politico-giuridico, poiché esso non è esente dal disincanto e dalla consapevolezza che la guerra e la violenza sono espressioni che ineriscono alla natura umana e che però, in forza della ragione, l’uomo può – Können– e deve – Muß – impegnarsi a respingere ed evitare:

Il concetto di pace è così strettamente connesso a quello di guerra che i due termini «pace» e «guerra» costituiscono un tipico esempio di antitesi. […] È stato osservato più volte che è sempre esistita una filosofia della guerra, mentre è ben più recente la filosofia della pace, di cui il primo grande esempio è Kant. Gran parte della filosofia politica è stata una continua riflessione sul problema della guerra. […] Il tema della pace o, che è lo stesso, dell’ordine (interno) è sempre stato trattato di riflesso rispetto al tema della guerra o del disordine; la pace come lo sbocco, uno dei possibili sbocchi, della guerra […], giacché è il fenomeno della guerra, di una guerra sempre più distruttiva e sempre meno comprensibile nei suoi fini e nei suoi effetti […] che richiede una qualche spiegazione e una giustificazione: la guerra, non la pace. Di fronte alla guerra sempre più percepita come evento tragico eppure immanente alla storia umana, ecco nascere i vari tentativi di dare una risposta alla domanda: perché la guerra e non la pace?12

La domanda di Bobbio dice la tensione utopistica – non-luogo, o luogo non-ancora-realizzato ma la cui necessità morale di realizzazione incombe come presenza costante – presente sin dal primo articolo dell’opera di Kant, dove il filosofo afferma che la pace tra i popoli della terra non appartiene allo stato di natura, e che bisogna istituirla, infatti, nella forma di un progetto politico-giuridico. Va precisato che, a tal riguardo, Bobbio (e non solo) respinge totalmente e sconsiglia di leggere lo scritto kantiano in termini utopistici13, citando lo stesso Kant nel saggio Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio (1798), dove viene formulata una severa critica da parte del filosofo all’utopia. Ma se per utopia intendiamo proprio una fase della teoresi filosofico-politica, ovvero un momento della progettualità o la progettualità stessa che può esser tale solo se indica un luogo non ancora realizzato14, non si può negare che nell’Entwurf  kantiano sia presente questo indicare: «lo stato di pace deve dunque essere istituito»15; leggiamo ancora, dalla chiusa del progetto: «allora la pace perpetua, […] non è una vuota idea, bensì un compito che, assolto per gradi, si avvicina costantemente al proprio scopo (poiché i periodi di tempo nei quali si compiranno simili progressi diventeranno sperabilmente sempre più brevi)»16.
Il fatto stesso che la realizzabilità di questo fine non possa esser garantita non comporta la sua impossibilità, in quanto esso è un orizzonte verso cui protendersi: la razionalità ci obbliga ad agire secondo questo fine, e siffatto agire considera possibile la pace perpetua tra i popoli anche se nel momento stesso dell’agire tale progetto dovesse mancare di realtà sensibile – Ding oder Unding. Il diritto razionale, dunque, trova la pienezza del suo scopo nel progetto filosofico kantiano – espressione della dottrina applicata del diritto, Ausübende Rechtslehre – da perseguire storicamente per mezzo della volontà morale degli uomini: questo è il senso utopico sia del progetto etico-giuridico in questione quanto dell’intera filosofia kantiana della storia.
L’imperativo morale manifesta come sua possibilità realizzabile, come sua estrinsecazione nelle forme storico-istituzionali, l’uscita dallo stato di natura – aspetto molto complesso se si pensa che è lo stesso sviluppo delle disposizioni naturali, secondo il filosofo, a permettere il conseguimento di un ewigen Frieden – dove non vi è via di scampo alla guerra, dimodoché «per gli Stati che stanno tra loro in rapporto reciproco non può esservi altra maniera razionale per uscire dallo stato di natura senza leggi, che è soltanto lo stato di guerra, se non rinunciare, come singoli individui, alla loro libertà selvaggia (senza leggi)»17. Ai sovrani e agli Stati è consentita un’alternativa alla guerra – stato di natura -, ovvero la tensione verso un progetto cosmopolitico, la cui possibile realizzazione può avvenire solo «sottomettendosi a leggi pubbliche coattive e formando uno Stato di popoli (civitas gentium) che si estenda sempre di più, fino ad abbracciare alla fine tutti i popoli della terra»18.
L’inclinazione bellicosa – Furor impius intus fremit horridus ore cruento -, che inerisce alla natura umana, è contraria al diritto e costituisce una costante minaccia del suo sussistere nella forma dell’Entwurf  kantiano; ne consegue che il progetto in esame si esplica prima di tutto nei termini di un impegno morale. Da qui il legame politica-morale in Kant: l’imperativo morale è l’insieme «di leggi incondizionate imperative secondo le quali noi dobbiamo agire»19, e una volta riconosciuta l’autorità propria di questo concetto di dovere è impossibile, secondo il filosofo, non poterlo attuare in quanto esso, in tal caso, e per tale ragione, sconfinerebbe dall’ambito della morale, – ultra posse nemo obligatur -, al quale invece indissolubilmente appartiene al punto tale da sancire che «non può esserci dunque alcun conflitto della politica come dottrina pratica con la morale come dottrina del diritto, […] a meno che non s’intenda per morale una universale dottrina della prudenza»20. Qual è la concezione di guerra che qui viene espressa?21 Rispondere brevemente a questa domanda è essenziale per comprendere quanto sia stato interpretato in modo errato questo scritto, come se si trattasse di una totale condanna e/o ripudio dello stato di guerra in nome di una fiabesca condizione cosmopolitica ingenua nei riguardi dell’umana natura. Alberto Burgio afferma che «il fondamento ultimo della posizione kantiana è la condanna della guerra da parte della ragione legislatrice, il suo perentorio imperativo di considerare la pace – come leggiamo nella Pace perpetua – alla stregua di un dovere immediato»22.

Kant traccia qui una linea di demarcazione tra il politico morale che corrisponde all’imperativo di cui abbiamo già dato definizione, e il moralista politico che applica una pura dottrina della prudenza intesa come «teoria delle regole per la scelta dei mezzi più atti a conseguire i nostri scopi calcolati in base all’utile»23, e che dunque, in nome della sua ragion d’essere, negherebbe l’esistenza della morale come principio primo di ogni agire politico.
Qual è il ruolo del filosofo all’interno del contesto teorico e prassico delineato da Kant? La risposta a questa domanda ci viene dal secondo supplemento, Articolo segreto per la pace perpetua, aggiunto alla seconda edizione dello scritto (1796), dove si delimita uno spazio entro cui il filosofo può e deve esercitare la propria libertà critica di pensiero nei confronti dello Stato e dei rapporti fra gli Stati. Le parole di Kant, però, non sono da intendere semplicisticamente come tentativi di ‘ritagliare’ uno spazio di inalienabile libertà di espressione, in quanto tale spazio è accompagnato dall’invito a tenere in considerazione «le massime dei filosofi circa le condizioni che rendono possibile la pace pubblica»24, poiché esse possono scaturire solo dall’ampiezza di prospettiva e dalla profondità di veduta che attengono allo sguardo del filosofo. Alla base dell’enunciazione kantiana vi è certamente una precomprensione positiva della figura del filosofo, una fides secondo cui quest’ultimo apparterrebbe a una classe «per sua natura immune da spirito fazioso, ed incapace di cospirare»25, e da qui la differenza con il giurista – rappresentante della potenza dello Stato – che invece tende a riflettere e a lavorare concettualmente solo in riferimento alle norme vigenti. La motivazione che spinge Kant a formulare e a evidenziare la suddetta diversificazione la si può evincere dal fatto che il lavoro del giurista richiede in sé e per sé gli strumenti della bilancia e della spada – simboli, ovviamente, della teoria/prassi giuridica -, riconoscendo a quest’ultimo simbolo un ruolo di preminenza di fronte a una situazione conflittuale in cui il peso della spada – vae victis–, per l’appunto, ha il potere di abbassare uno dei piatti della bilancia. Ecco la grande tentazione del giurista – Kant specifica: di quel giurista che non sia ad un tempo anche filosofo -, estranea alla ratio philosophandi che anche nel caso delle leggi date e definite non rinuncia ancora e sempre a intelligere per verificare se tali leggi abbiano bisogno di essere migliorate26.
Qui risiede la superiorità reale del ruolo del filosofo che consiste, come stiamo vedendo, nel custodire ed esercitare una funzione di vigilanza critica della ragione – libertas philosophandi – soprattutto nei riguardi dell’autorità, contro la falsa superiorità di quel potere ritenuto tale solo per mezzo dell’accompagnamento della potestas all’esercizio delle proprie funzioni – tale discorso va esteso anche alle altre funzioni dello Stato. L’utilizzo da parte di Kant degli aggettivi superiore e inferiore non deve fuorviarci verso un’ermeneutica di trionfalismo filosofico a spese dell’attività giuridica, in quanto tali aggettivi esprimono una constatazione de facto che pone l’esercizio critico del pensiero come il bene più grande a cui l’umanità sia giunto; bene da esercitare e da difendere in ogni ambito della vita, in particolar modo della vita politica incarnata nelle istituzioni in cui essa si sviluppa. La presunta funzione ancillare, servile, della filosofia nei confronti delle altre funzioni dello Stato è una distorsione lato sensu che nasce dal non vedere «se essa porti la fiaccola avanti alle sue graziose signore o ne regga lo strascico»27: pertanto le massime del filosofo non devono, per forza, essere preferite alle decisioni del giurista, nondimeno esse devono incontrare sempre la possibilità di essere espresse e ascoltate.
Kant chiarisce i termini della posizione che il filosofo deve assumere non solo entro i confini del proprio Stato, altresì in vista del tentativo, che ha scaturigine dal dovere morale, di instaurare una pace tra gli Stati per evitare l’orrore della guerra, tentativo che assume la sua forma storica nel Volkerbünd: «che i re filosofeggino o i filosofi diventino re, non ce lo dobbiamo attendere e anzi neppure desiderare, poiché il possesso della forza corrompe inevitabilmente il libero giudizio della ragione»28 – ricordiamo che queste parole costituiscono una clausola segreta che ha lo scopo di ricordare l’importanza che gli argomenti dei filosofi possono avere in riferimento «alle condizioni che rendono possibile la pace pubblica»29, e che devono essere prese in considerazione dagli Stati che sono sul punto di armarsi per la guerra. Va precisato che quando Kant afferma che il possesso della forza corrompe inevitabilmente il libero giudizio della ragione bisogna sempre tenere a mente quanto prima è stato detto a proposito della differenza tra il ruolo del giurista e quello del filosofo. Ebbene, l’invito è solenne: «Ma che i re o popoli sovrani (cioè popoli che si reggono secondo leggi di uguaglianza) non lascino perdere o ammutolire la classe dei filosofi, ma la lascino parlare pubblicamente, questo è indispensabile agli uni e agli altri per avere luce sui loro propri affari»30. Sia contestualizzando la frase kantiana, sia astraendola da quel contesto politico, che sebbene sia relativamente lontano cronologicamente dal nostro ci è allo stesso tempo vicino in quanto lo stato di guerra che inerisce alla natura umana e alla vita di uno Stato è un impulso che non può essere mai annichilito, mostra una consapevolezza che si estende a tutti i tempi e a tutti i luoghi dove gli individui hanno edificato le strutture del potere.
Per quanto concerne il possesso della forza vogliamo domandarci ancora il perché del suo contrasto inevitabile – corrompe – con il libero giudizio della ragione. La risposta kantiana a questa domanda è la seguente: il possesso della forza ha in sé la legittimazione del proprio agire che può, in alcuni casi, non tener conto dei giudizi della ragione e del dovere morale. L’ascolto prestato alle massime dei filosofi ha lo scopo di placare il possibile contrasto.  Risulta problematica, certo, la tesi kantiana se si pensa che il filosofo pur non esercitando il potere del sovrano o dello Stato, nel momento stesso in cui gode dell’ascolto di questi ultimi, vive una dinamica interna all’esercizio del potere. Infatti: godere del privilegio che le proprie massime vengano ascoltate dai sovrani o dagli Stati non è forse un esercitare e/o un avere potere?
Volendo ampliare l’affermazione kantiana – come prospettiva politica per comprendere anche il nostro tempo – possiamo affermare che il rapporto tra il possesso della forza e il libero giudizio della ragione può manifestare una Krìsis, una separazione/frattura, irrecuperabile al punto tale che il secondo venga del tutto censurato e sopraffatto dal primo: la storia, e non solo quella dei regimi totalitari del Novecento, ha manifestato e manifesta questa realtà. Su questo problematico e necessario rapporto, il filosofo è chiamato, ieri come oggi, a vegliare, interrogarsi, formulare problemi e a indicare possibili strade da percorrere.

 

Note

  1. I. Kant, Per la pace perpetua. Un progetto filosofico (Zum ewigen Frieden. Ein philosophischer Entwurf, 1795-96), a cura di N. Merker, Editori Riuniti, Roma 1985, p. 37.
  2. Il titolo potrebbe essere reso in italiano anche nel seguente modo: Alla pace perpetua. Si trattava infatti anche della ironica citazione di un’insegna di osteria nella quale era dipinta un cimitero.
  3. I. Kant, Per la pace perpetua. Un progetto filosofico, cit., p. 7.
  4. I. Kant, Primi principi metafisici della dottrina del diritto (Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre, 1797), trad. di F. Gonnelli, Laterza 2005, p. 287.
  5. I. Kant, Metafisica dei costumi (Die Metaphysik der Sitten, 1797), trad. di G. Landolfi Petrone, Bompiani, Milano 2006, p. VIII.
  6. Ivi, p. 313.
  7. Cfr. supra, nota 1.
  8. Si ricorda al lettore l’appendice I Sulla discordanza tra morale e politica in ordine alla pace perpetua.
  9. I. Kant, Per la pace perpetua. Un progetto filosofico, cit., pp. 41-42.
  10. Ivi, p. 13.
  11. Ivi, p. 15.
  12. N. Bobbio, Teoria generale della politica, a cura di M. Bovero, Einaudi, Torino, 1999, p. 467.
  13. N. Bobbio in I. Kant, Per la pace perpetua. Un progetto filosofico, cit., p. XVII.
  14. Cfr. a tal riguardo M. Cacciari, Occidente senza utopie, Il Mulino, Bologna 2016, p. 63: «L’utopia contrasta realmente con la realtà in atto? Dovremmo allora intendere come utopica ogni teoria rivoluzionaria o, più precisamente eversiva. L’utopia non si pone il problema della realizzabilità delle idee che propugna? Ne afferma tuttavia la piena desiderabilità – e come non tendere alla realizzazione di ciò che si desidera, di cui si avverte prepotente il bisogno? L’utopia rappresenta un alter mundus? Qualsiasi progetto tende a farlo, almeno nella misura in cui non voglia apparire semplice ri-forma di un Ordine precedente – e la stessa ri-forma, poi, se realmente opera per ri-attualizzare un sistema decaduto o scomparso, progetta qualcosa che rispetto all’oggi apparirà comunque un novum».
  15. I. Kant, Per la pace perpetua. Un progetto filosofico, cit., p. 9.
  16. Ivi, p. 42.
  17. Ivi, p. 16.
  18. Ibidem.
  19. Ivi, p. 27.
  20. Ivi, p. 28.
  21. Per un approfondimento sullo stato di natura in relazione al progetto kantiano e al giudizio di valore sull’utilità della guerra come mezzo per raggiungere il fine della pace, argomenti presenti anche negli altri scritti del filosofo che abbiamo già citato, si rimanda a A. Burgio in I. Kant. Per la pace perpetua, trad. di R. Bordiga, Feltrinelli, Milano 2013, pp. 132, 150.
  22. A. Burgio in I. Kant. Per la pace perpetua, cit., p. 132.
  23. I. Kant, Per la pace perpetua. Un progetto filosofico, cit., p. 28.
  24. Ivi, p. 26.
  25. Ivi, p. 27.
  26. Ibidem.
  27. Ibidem.
  28. Ibidem.
  29. Ivi, p. 26.
  30. Ivi, p. 27.

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