Q: l’orgasmo del male

Di: Giusy Randazzo
3 Agosto 2010

Scrivere una recensione del romanzo Q non è un’impresa facile, perché bisognerebbe decidere quale strada privilegiare, il che implica l’esclusione di molti altri spunti che il romanzo offre al lettore. Quella storica è ovviamente la prima scelta, ma non può essere percorsa senza il risvolto filosofico che essa ispira, alimentata anche dal Luther Blisset Project che ha dato vita al romanzo. Il nome dell’autore è infatti, come tutti sanno, uno pseudonimo collettivo dietro al quale una rete di personaggi reali si era assunta il compito di sbeffeggiare il potere, mostrando falle e disvelando ignobili compromessi.

Q narra la storia di un trentennio che va dalle prime dispute in seno al luteranesimo (1518) alla pace di Augusta (1555). Il narratore è un uomo senza volto e senza identità, che attraversa le vicende assumendo ogni volta un nome diverso. Eppure la sua personalità si organizza intorno a un centro, che ancora una volta anonimamente chiamiamo Io, che ci consentirebbe di riconoscerlo in mezzo a una folla. In qualche modo è esattamente ciò che accade con Luther Blisset: ci rifiuteremmo di credere che un’azione proposta a suo nome sia veramente sua se non rientrasse nel modo di essere proprio di Luther Blisset. Non importa che non esista se ciò che genera parla per lui e lo identifica.

Q è un romanzo completo che necessita, per non essere tradito, di una riflessione ampia che non si limiti agli avvenimenti narrati. La storia è anche un giallo, che va ben oltre i possibili plot. Non c’è un assassino, ma una spia che sa di essere soltanto un traditore dei vinti o un fedele servo del potente Carafa. È l’unico però che ha ben presente la finalità del suo agire, pur coincidendo con quella del suo padrone e probabile aguzzino.

Il Piano. […] La maggior gloria di Dio. […] Imporre un ordine al mondo. Concedere alla Chiesa di Pietro di rimanere l’arbitro indiscusso del destino degli uomini e dei popoli… Un messaggio semplice: il timore di Dio. Un apparato gigantesco e complesso che lo inculchi nei costumi e nelle coscienze. Diffondere il messaggio, gestire il sapere, osservare e vagliare l’animo degli uomini, inquisire ogni spinta che osi oltrepassare quel timore. Carafa si è arrogato l’immane compito di aggiornare le fondamenta di quel potere, alla luce dei tempi nuovi. L’ambizione che egli incarna ha attinto da ogni debolezza del corpo della Chiesa, riuscendo a trasformarla in un punto di forza. Lutero è stato il suo piú acerrimo nemico e il suo migliore alleato. Senza intaccare il timore di Dio, il frate agostiniano mise tutti di fronte alla necessità di un cambiamento. (p. 619)

Eppure Q., il traditore e la spia, è una sorta di saggio che riesce a riemergere più puro tra i puri nonostante abbia reso possibile la strage di Frankenhausen, nonostante abbia aperto le porte di Münster ai mercenari del vescovo-principe Von Waldeck, nonostante la responsabilità della morte, della tortura, della fine di molti. In lui la ragione prevale raccogliendo un senso che altrove e negli altri si perde costantemente, fagocitato da una volontà estrema di fuggire dall’oppressione, dalla prigionia delle idee; risucchiato in un fondo votato all’assurdo dall’eccessiva familiarità con la morte; divorato da un dio che «prende col ferro, stritola, sprofonda, schiaccia» (p. 294), che è dalla parte di ogni Carafa, dei Fugger, dei principi, dei potenti, del denaro e delle banche e che, eruttando potenza, abbandona il suo esercito di umili «sparendo dal mondo con tutte le sue promesse e lasciandoci in pegno la vita» (p. 170). Rimane a inorridire questa strana contraddizione che non si risolve mai e che obbliga costantemente a cercare il senso di una fede che si origina dallo scherzo, dalle orge, dal sangue, acquistando una forza e producendo un impegno tale da far tremare persino la terra calpestata.

-Per il grande spettacolo di questa sera. Io rigetto con assoluta fermezza l’idea del peccato originale! Per questo ora mi spoglierò delle vesti e, nudo come padre Adamo, andrò per le strade per invitare gli abitanti della città a riscoprire l’uomo incorrotto che sta dentro di loro-. […]Qualcuno comincia a ripeterlo per scherzo e, quasi per sfida, visto il freddo che fa là fuori, una dozzina di persone comincia a spogliarsi. […] Jan grida a squarciagola. Jan è completamente nudo. Jan esce dal locale. […] Ci sparpagliamo tra i vari capannelli di persone buttandoci a terra in preda a finta agitazione, ma ci scappa da ridere. […] Molti ci imitano divertiti, pensando a una carnevalata. Altri la prendono fin troppo seriamente. Qualcuno comincia a piangere e si inginocchia per chiedere il battesimo. (pp. 260-261)

E se questa contraddizione, follia-fede, resta insoluta, allora l’unica scelta possibile per pacificare la ragione è il ristoro ragionevole di chi abbandona l’idea della folle fede, per abbracciare quella della follia della fede. E Q, in tal maniera, permette di comprendere più delle Lettere di Paolo di Tarso la follia della croce, più di Timore e Tremore di Kierkegaard il sacrificio di Isacco. Una comprensione però che fa di Dio l’Anticristo che combattono. Una partita, dunque, tra senso e nonsenso che si gioca a più livelli per stabilire la classifica manicomiale dei folli partecipanti, scelti da Dio giocando a dadi. Una partita tra la follia di una ragione perversa e la follia figlia di Paura.

Ma di quella paura simile alla vertigine dello spaesamento, del fascino dell’ignoto e della possibilità estrema, delle regioni inesplorate e della visione profonda. Diversa dall’ebbrezza di vino, birra o acquavite. Senza quei fumi e l’impasto dei pensieri e la logorrea insensata. (p. 426)

Il burattinaio di questo teatrino dell’orrido è Dio che letto con le categorie di questo tempo è davvero realissimo perché troppo inumano per poter esser stato partorito dall’umano.

Eppur sorprende, forse addirittura stuzzicando il furore sacro e intimissimo che è in ognuno di noi, quella drammatica tensione verso la libertà che diventa la prigionia di un’altra verità da salvaguardare con gli stessi atroci mezzi: teste tagliate, chiodi conficcati nelle unghia, dita che saltano, corpi arrostiti, gole tranciate. Sorprende il modo strano di essere folgorati sulla via di ogni nuova Damasco attraverso le orge, le ubriacature, l’allegria smodata, la follia collettiva, in cui ognuno diventa Bacco, ma un Bacco totalmente privo di musicalità e di gioia -un dio minore figlio del Dio feroce a cui ogni azione, ogni pensiero, ogni preghiera, ogni barile di sangue è da ricondurre- un Bacco che gode a incarnarsi negli ultimi, in coloro che non hanno più nulla da perdere, neanche la vita, in chi non si fa immobilizzare dalla paura, perché vive già l’Apocalisse e urla, si dispera, piange, si terrorizza se qualcuno gliela vuol portare via.

Meglio crederci fino in fondo allora, meglio continuare a sognare piuttosto che prendere atto della follia collettiva. Lo leggo nei loro occhi, nelle espressioni stravolte di quei volti: meglio un pappone saltimbanco, sí, sí, il figlio di Matthys, meglio lui, ma ridateci l’Apocalisse, ridateci la fede. Ridateci Dio. (p. 319)

È Bacco, sì, a entrare a Münster nel 1534 e a renderla la città dei folli, in un modo che avrebbe lasciato spaesato persino Euripide: nessuno è più quello di prima e nessuno tornerà a esserlo.
Un Bacco, che ora si chiama Jan Matthys ora Jan di Leida, feroce; che pur di essere riconosciuto, amato e venerato, commette stupri, uccide, imprigiona, tortura, massacra. Dimentico della violenza combattuta, diventa violento per impartire una nuova verità, stordito dal piacere del potere, impaurito dalla possibilità di perderlo. Un eterno ritorno dell’uguale sull’onda della nuova catechesi da somministrare alle solite vittime soltanto per qualche attimo liberate e libere di poter essere predate nuovamente, di poter essere soggiogate al timor di ogni nuovo dio incarnato.
Il Q. traditore che apre le porte della città ai mercenari si fa salvatore, sembra scegliere tra due mali il minore: quello che conduce presto alla morte, attardandosi con i più violenti, di certo non per umana bontà.

Jan Matthys di Haarlem: in pezzi dentro un cesto di paglia. Jan Bockelson di Leida, Bernhard Knipperdolling, Hans Krechting: torturati con tenaglie roventi, giustiziati ed esposti al pubblico ludibrio in tre gabbie, appese al campanile di San Lamberto. (p. 403)

Ancora una volta, dunque, ogni lato si porta dietro il suo rovescio, a un punto tale che per poter comprendere sino in fondo bisogna scegliere di stringere nel pugno della ragionevolezza la moneta della follia nella sua contraddittoria interezza: fedeltà e tradimento sono in Q –romanzo e uomo- un’altra coppia inseparabile.

È Q. il più sensato. Legge e coglie la contraddizione senza alcuna volontà di dipanarla, come Qoèlet -nome che sceglie per esser quello che è- per dimostrare che di Dio bisogna avere timore, perché è lui che comprende l’incomprensibile lasciando a noi una durata insensata: questa vita in cui tutto è vano, in cui gli opposti coesistono.

Tempo di nascere, tempo di morire,/tempo di piantare, tempo di sradicare,/tempo di uccidere, tempo di curare,/tempo di demolire, tempo di costruire,/tempo di piangere, tempo di ridere,/tempo di lutto, tempo di baldoria,/tempo di gettare via le pietre,/tempo di raccogliere le pietre,/tempo di abbracciare, tempo di staccarsi,/tempo di cercare, tempo di perdere,/tempo di conservare, tempo di buttare via,/tempo di strappare, tempo di cucire,/tempo di tacere, tempo di parlare,/tempo di amare, tempo di odiare,/tempo di guerra, tempo di pace. (Qoèlet o Ecclesiaste, 3, 2-8)

È Q. il più sensato. Lo è fino alla fine quando comprende che l’unica àncora per non perdersi nell’insensatezza è la defezione da chi ha servito per tutta la vita, è rimanere fedele all’amico che ha tradito, che è il suo alter ego: l’anonimo narratore che trascina il lettore nella tempesta di eventi, scegliendo di volta in volta il nome per interpretare la nuova rappresentazione.

Perché siamo le due facce della stessa moneta, perché abbiamo combattuto la stessa guerra e nessuno dei due ne esce vincitore. Il campo è di Carafa, la speranza dei pezzenti è sprofondata nel fango, ma anche Qoèlet deve uscire di scena. (p. 622)

Come Qoèlet, anche per Gert dal Pozzo è chiaro, in un lampo di lucida follia, l’incomprensibile senso del tempo:

Il segno non è intorno a te, non è nei muri, nei mattoni, nella calce, nei ciottoli, no, non troverai ciò che vai cercando. Il segno è la ricerca stessa, il segno sei tu che arranchi nel fango delle strade. Siete voi. Noi che siamo in cerca: noi che siamo l’adesso, il già e non ancora. I vecchi sono fermi, sono già stati. Vecchi credenti già morti. Il mattone della Cattedrale non dice nulla. I vostri sguardi invece dicono che Dio è qui, Dio è qui adesso, il Suo Spirito è tra di noi, in questa giovinezza, in queste braccia, questi muscoli, gambe, seni, occhi. (p. 237)

Tutti temi che ritornano per intero nell’Ecclesiaste.

E Gert o Lot o Gustav o Ludovico o Tiziano racconta i fatti, onnisciente, in un andirivieni cronologico, divenendo nella seconda parte un nuovo Odisseo che narra al re Alcinoo –qui il buon Eloi, quel Lodewijck Pruystinck «bruciato extra muros il 22 di ottobre del 1544» (p. 405)- e nella terza parte un nuovo Dante che ancora una volta incontra Beatrice.

Quanto a voi, donna Beatrice, ciascuna delle ragazze che frequentano il Caratello dovrebbe rinascere tre volte prima di acquisire un fascino pari al vostro. […]Non posso impedirmi di pensare che Beatrice è una creatura speciale, luminosa. (pp. 472 e 541)

È lei, che stringendolo per mano, lo accompagna prima al Purgatorio, regalandogli una catartica ragione agli eventi vissuti, e poi, navigando assieme a lui, gli permette di approdare nel Paradiso –una Istanbul accogliente e prolifica- da cui inizia e finisce la narrazione di chi si erge vivo tra i morti.

Le bacio la mano, tenendola per un istante tra le mie: – La prospettiva di viaggiare al tuo fianco rende piú dolce la sconfitta, Beatrice. Si toglie i capelli dal viso con una carezza: – Sconfitta, Ludovico? Lo credi davvero? Non siamo forse ancora vivi e liberi di solcare il mare? (p. 633)

Se è la fede lo scandalo a cui assistiamo leggendo Q -che ci farebbe pregare sol per chiedere che Dio non esista, che spingerebbe persino Jeshu-ha-Notzri a ripiegare sulla piana salvifica dell’ateismo, neppure dell’agnosticismo- è, però, il sadismo, di cui il romanzo è intriso, a spingere all’ultima riflessione.

Il sadismo è tipico della specie umana. Gli animali non lo possiedono. Nessuna ragione può giustificare il sadismo. Lo si condanna e basta, senza alcuna attenuante. Nei rari casi in cui se ne trova una, altro non è che la follia. Il romanzo di Luther Blisset forse fa pervenire a una nuova lettura di questo male umano: dietro al sadismo si cela la sottrazione della pietà. La pietà non è un prodotto innaturale dell’uomo come tutti quelli che vanno sotto l’egida della subcultura, lo è diventata forse, ma la sua origine è naturale, senza dubbio. Esiste anche tra gli animali, anche se non ne coinvolge la sensibilità, anche se non assume la nostra stessa accezione emotiva, pur sempre però è ascrivibile a quel meccanismo che permette di giungere allo stesso risultato: l’interruzione della violenza. E c’è sempre uno scopo nella violenza degli animali: cibo, territorio, riproduzione, difesa. Forse era così anche per la specie umana prima che Dio facesse la sua comparsa provvidenziale, arrogandosi il diritto di essere l’unico a provare pietà. La pietà salvava l’umanità. Questo era l’unico prodotto della natura che dovevamo proteggere e che non nasceva da un dio ma, come ogni altro meccanismo naturale, era proprio dell’uomo in quanto funzionario della specie, era proprio di questa Voluntas, cieca e irrazionale, che tende a proteggersi dalla distruzione. Pietà e sadismo sono indissolubilmente legati, inversamente proporzionali: al punto zero della pietà corrisponde il punto massimo del sadismo. Come la rotellina che regola l’intensità della luce: più diminuisce la pietà più aumenta il buio fino alle tenebre del male.

Nel sadismo, la violenza è fine a se stessa e nessun messaggio vocale, iconico, fisico, nessuna pietà estranea all’autore riesce a interrompere la potenza orgasmica del godimento della visione della sofferenza altrui. Sono chiamati “mostri”, i sadici. Un mostro che potenzialmente alberga in tutti, che ha una radice comune: è parte di un processo a domino che coinvolge l’intera umanità e trova il suo punto di origine in Dio. Siamo, dunque, tutti responsabili, in un gioco al massacro in cui ognuno opera facendosi predatore della pietà altrui fino al tradimento del sadismo: il godimento della violenza stessa senza nessuno scopo che non sia il godimento stesso, con una potenza orgasmica che defluisce solo nel momento in cui la vittima non esiste più. E per non esistenza non si intende soltanto la morte, ma la scomparsa persino materiale dell’essere umano: «è condennato a morte per il taglio della testa, per esser poi abbruciato et le ceneri lasciate al vento». (p. 139)

Al punto massimo del sadismo né gli occhi terrorizzati di un bambino né lo sguardo pietrificato di una madre, né l’agonia di un uomo torturato né le urla di un popolo disperato possono fermare questo orgasmo del male.

L’Apocalisse non è un obiettivo da raggiungere, è in mezzo a noi. Negli ultimi vent’anni ho sentito tanto gridare all’Apocalisse, che se oggi venisse davvero, ci vorrebbe del bello e del buono per riuscire a distinguerla dalla sorte quotidiana riservata agli uomini. (p. 355)

Non ci sono trombe ad annunciare l’Apocalisse, il segno è il fumo dei roghi di libri e di intellettuali, che annebbia il cielo e le menti, per controllare cielo e menti.

Osceno altare innalzato all’oblio, la parola di Dio scaccia quella degli uomini, vomita il suo trionfo sopra le nostre schiene, seppellisce il nostro sguardo sotto una coltre impenetrabile; il suo fiato alita sopra le nostre teste; il suo occhio ci scova implacabile, ci dà la caccia fin dove non potremmo nasconderci, dentro i nostri pensieri, dentro il desiderio di poter essere, un giorno, piú saggi. A uccidere ogni curiosità, e ogni ingegno. Sale piano il fumo del rogo dei libri. A manciate raccolgono i volumi che vengono scaricati sul selciato dai carri, e li gettano nel falò; una colonna di fuoco alta fino a lambire il cielo; per richiamare gli angeli col fumo. (p. 311-312)

È forse anche nella speranza del risveglio dei dormienti che proprio Q, il libro fantasticamente salvo da quei roghi, è non soltanto un romanzo illuminante, ma anche il manifesto di un nuovo Illuminismo. Una schiera di intellettuali promuovono la nuova γκύκλιος παιδεία rigettando il mito del genio romantico attraverso la rinuncia all’ordine logico stabilito dal Quattrocento al Seicento, per una nuova paideia, ancora una volta «in-disciplinata», e ancor di più attraverso la rinuncia all’identità, ai diritti d’autore, perché omnia sunt communia.

«I libri cambiano il mondo soltanto se il mondo riesce a digerirli» (p.415) e perché questo accada bisogna collaborare alla diffusione.
Q
è anche gratuito, è possibile scaricarlo da Internet1.
Q
gratuitamente offre al lettore la realtà, educandoci a leggerla senza bisogno di Beatrice.

Beatrice mi dà una sottile lamina di ferro bucherellata, grande quanto la pagina. – È il nostro codice di famiglia. Lo usiamo da molti anni per metterci al riparo dagli occhi indiscreti. Sovrapponi la griglia al foglio. Gli spazi intagliati nella lamina isolano parole, pezzi di frase, sillabe, che improvvisamente acquistano senso. (p. 599)

Note

1 Per il download gratuito del romanzo: http://www.wumingfoundation.com/italiano/downloads_ita.htm

Luther Blisset
Q
Einaudi, Torino 2010 (2000)
«Stile Libero Big»
Pagine 677

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