Balido. La ricerca della verità

Di: Giusy Randazzo
21 Maggio 2020

 

Chi si intende di logica sa che non sarebbe possibile per un neofita comprendere un testo che ne tratti senza un’adeguata preparazione. In tutte le sue opere Michele Malatesta – filosofo che di logica si è occupato tutta la vita – permette anche al lettore meno informato di poter comprendere, quasi portandolo per mano in un mondo a lui sconosciuto. Così fa Balido in questo testo. Come il suo maestro, egli non dimentica di fornire a chi legge gli strumenti necessari per capire. Il lettore che vorrà davvero immergersi nell’analisi condotta da Balido sui testi di Mario Vittorino e di Agostino di Ippona potrà farlo, anche senza nulla sapere di logica, avendo l’accortezza di leggere dapprima l’Appendice che spiega in pochissime pagine la logica proposizionale ed enunciativa, con un accenno anche al nuovo capitolo aperto dagli studi pioneristici di Malatesta – a partire dall’indagine del Contra Academicos di Agostino in cui egli fa un’analisi degli atti linguistici in cui gli atti intenzionali si esprimono – a cui si deve «la prima simbologia diacritica per l’analisi degli ambiti di riferimento» dei verbi assertivi, direttivi, dichiarativi, espressivi che è «indispensabile soprattutto in contesti sintattici complessi dove regna sovrana l’ipotassi» (p. 161). In tal modo, chiunque potrà comprendere questo testo non senza l’ovvia fatica del concetto.

Ma qual è lo scopo di Balido? Certamente far chiarezza sulla posizione dottrinale di Vittorino e sulla «presunta oscurità degli scritti vittoriniani» (19), nonché sulla fallacia delle argomentazioni dei critici agostiniani che troppo superficialmente hanno giudicato sia il Contra Academicos sia il De immortalitate animae delle opere non serie. Agostino era invece un profondo conoscitore della logica e dunque per comprenderlo – o anche per confutarlo – bisognerebbe conoscere un vasto ambito (la logica degli indessicali e quella bulomatica e ancora la logica ostativa, erotetica, doxastica, epistemica e modale). Per tal motivo Balido ricorre ai segni diacritici di Malatesta per indicare l’ambito di riferimento soprattutto «dei verbi intenzionali in enunciati concatenati attraverso inferenze logiche, cosa che avviene spessissimo nel De immortalitate animae» (162). Nel ragionamento dell’Ipponnense sono per di più presenti molti entimemi e quindi passaggi logici non esplicitati che dimostrano come Agostino «alla stregua di un computer» (43) arrivasse alla conclusione con grande capacità cognitiva, senza dunque la necessità di una dimostrazione stringente che spiegasse tutte le premesse che era possibile inferire dalle conclusioni. Nella dottrina dell’anima molte furono le ambiguità e le incertezze con le quali si confrontò Agostino, «in quanto veniva messa in discussione l’individualità dell’anima ma anche il suo sostanziale legame con un proprio corpo» (92).

Agostino ripensa alle fonti dottrinali platonico-aristoteliche o stoico-neoplatoniche solo «in funzione strumentale e finalizzate ad un fine diverso da quello originario» (93). Le «notevoli difficoltà interpretative» dal punto di vista logico-formale dell’opera sono essenzialmente dovute al fatto che essa non era destinata alla diffusione. La prima argomentazione che Balido analizza riguarda l’animo come necessariamente «immortale perché soggetto (subiectum) in cui risiede la disciplina verità immutabile e sempre esistente che non può essere separata dal suo soggetto» (97). La disciplina – il contenuto ovvero la verità immutabile – risiede nell’animo ovvero il contenente, il subiectum. Se dunque l’una è immortale anche il subiectum in cui risiede la disciplina deve essere immortale. Pur essendo di fronte a un entimema che sottintende «l’antecedente dell’implicazione, per dedurre la conclusione» (98), Balido presenta lo schema d’inferenza esplicitando la premessa mancante, per mostrare la solidità del ragionamento di Agostino. L’analisi continua seguendo l’indagine dell’Ipponense che è finalizzata «a individuare cosa si presenta come immutabile nell’animo» (102) per poterne dimostrare l’immortalità. Anche nel caso dell’immortalità dell’arte, per esempio, il ragionamento dell’Ipponense è complesso poiché espone la sua argomentazione in modo brachilogico. Lo schema inferenziale presentato da Balido permette di scoprire ogni passaggio, esplicitando quelli sottintesi. Così avviene per tutti i successivi paragrafi dell’opera, in cui la logica diviene strumento complementare all’argomentazione per rendere manifeste le inferenze non immediatamente evidenti.

Anche nell’indagare Ad Candidum e Adversus Arium di Mario Vittorino, Balido fa un’operazione similare. Qui però analizza anche la tesi di Candido, dimostrando – come fa d’altronde Vittorino – come posizioni dottrinali contrarie a quelle scritturistiche non siano da eliminare tout court quando esse però nascano da un’autentica volontà dimostrativa, benché fideistica. Il rispetto con cui Vittorino tratta Candido dimostra la stima che egli aveva per l’ariano; gli riconosce infatti uno studio rigoroso pur ponendolo «davanti alla sua palese incoerenza» (65).  Lo stesso rispetto dimostra Balido che schematizza le inferenze dell’argomentazione di Candido, il quale intende dimostrare che Dio è sia ingenerato sia ingenerante (cfr. p. 50), «non è sostanza e perciò non è consustanziale» (61) e dunque Gesù è effetto di Dio, ma non generato. La posizione di Vittorino è chiara sin dall’inizio: egli «non intende mortificare il ruolo della ratio, che però deve esprimersi nel più vasto orizzonte dischiuso della fede, e sottolinea che se Candido ritiene di essere cristiano deve accettare ciò che le Scritture dicono di Cristo» (64). Eppure, come dimostra Balido, la premessa fideistica di Vittorino è supportata da argomentazioni logiche in cui essa trova conferma: «il suo filosofare non è prima della fede; a partire dalla fede la sua filosofia trova il suo impulso propulsivo, confermando il dato scritturistico per via razionale» (66).

Vittorino riesce a smantellare l’argomentazione di Candido, secondo la quale il Figlio è effetto di Dio (è stato prodotto ex nihilo e non generato), evidenziando l’antinomia a cui si giungerebbe se dovessimo al contempo asserire che Cristo ha detto la verità, dunque è Dio e che Cristo non ha detto la verità, dunque non può neanche essere effetto di Dio. Ma v’è di più. Vittorino dimostra – attraverso tutte le possibili definizioni del concetto di non esistente all’interno dell’indagine sugli esistenti – «l’impossibilità che il Figlio sia stato fatto dal nulla» (67).  Balido simbolizza, schematizzandoli, tutti i passaggi non esplicitati, mostrando come il retore abbia effettivamente una conoscenza profonda della logica che gli consente di utilizzare, per esempio, il connettivo poliadico di Galeno, per indagare l’essenza di Dio dimostrando non soltanto che Dio «è l’esistente (ὄν) per eccellenza» (73) ma anche che «Dio ha prodotto l’esistente da sé» (74) e infine – considerando «la generazione come manifestazione: il Padre è nascosto, il Figlio è la manifestazione del Padre» (75) – che il Figlio, «come il feto nel grembo della partoriente» (ibidem),  viene manifestato ovvero generato. La stringente argomentazione di Vittorino esce dall’ombra grazie a Balido, il quale restituisce al filosofo-retore non soltanto quell’intelligibilità che i critici ritenevano non avesse ma anche il merito di aver proceduto attraverso un rigoroso ragionamento dimostrativo. Nell’analisi dell’Adversus Arium, Balido sottolinea un altro aspetto dell’opera di Vittorino, il quale «oltre ad aver utilizzato approfondite conoscenze di logica […][ha] avviato importanti analisi linguistiche» (85) per esempio quella relativa ai termini di sostanza e di ipostasi.

Attraverso La Logica in Mario Vittorino e Agostino d’Ippona, Balido ancora una volta ci spiega quale sia il senso profondo della logica. Nella suddivisione delle scienze di Aristotele, essa non rientrava poiché considerata dallo Stagirita non soltanto trasversale ma anche necessaria a tutte le altre, in qualità di strumento. Michele Malatesta considerava la logica un mezzo attraverso il quale valutare il rigore scientifico delle argomentazioni per testare la validità delle inferenze e la solidità di conclusioni ritenute vere o per svelare i ragionamenti fallaci all’apparenza veri. Giuseppe Balido fa sua la lezione di Malatesta e ritiene che la logica, come già avvenuto, possa affiancare la «strumentazione filologica», come suo «strumento complementare […], col duplice fine di chiarire il senso del discorso dell’autore oggetto d’indagine e di controllarne il rigore, correggendo eventuali errori procedurali» (19). La logica dunque è anche uno strumento a difesa di talune argomentazioni spesso licenziate dai critici con giudizi sprezzanti che, come nel caso di Agostino, «sono attribuibili a limiti metodologici e certamente alla carenza di preparazione di coloro che li formulano» (25). Come Malatesta, Balido è poco tollerante verso chi argomenta senza il rigore scientifico necessario, non soltanto perché non saper nulla di logica non è comunque un buon motivo per non avvedersi delle contraddizioni e delle fallacie argomentative ma anche per una ragione di ordine etico.

I primi principi della logica sono definiti da Ryle transdisciplinari1, proprio perché le scienze – dure o molli che siano – non possono contravvenirvi. La logica è insomma certamente imprescindibile, come sosteneva Aristotele. Qualsiasi ragionamento infatti deve seguire necessariamente il λόγος, altrimenti è altro ma di certo non un ragionamento. La scientificità di una tesi dipende da questo assunto. Vero è anche che Einstein stesso sosteneva che se non si pecca contro la ragione non si combina nulla nella scienza2. Affermazione questa che non deve fuorviare, poiché egli riteneva che per cogliere il significato o il contenuto dei concetti e delle proposizioni occorresse una connessione con le esperienze sensibili, che «è puramente intuitiva, non è essa stessa di natura logica»3. L’intuizione, infatti, è un insight che sembra arrivare dall’esterno, da quell’intelletto passivo di cui parlava Aristotele. La ricerca della verità deve dunque prendere le mosse non dalla coerenza logica ma da una trasparenza immediatamente evidente che è data dall’intuizione. Può un’intuizione essere errata? Certamente, ma nel momento in cui essa ci sprona alla ricerca o a esercitare il dubbio, fino a giungere a una verifica che per via logica ci continua a far credere di aver raggiunto il vero anche se vero non è, deve essere autenticamente vera per noi. Se in seguito essa si rivelerà falsa a uno studio più accurato, dal momento che x ha asserito, attraverso il rigore scientifico, che quella teoria è vera, essa è comunque degna di nota. Questo è un principio che per Balido dovrebbe stare alla base di qualsiasi fatica concettuale ed è il significato più autentico dell’onestà intellettuale. Nella scienza si deve sempre partire da se stessi, insomma. Dalla verità che ci abita. Agostino certamente lo sapeva. E anche Kierkegaard: «Ciò che in fondo mi manca, è di veder chiaro in me stesso, di sapere “ciò ch’io devo fare” e non ciò che devo conoscere […]. Si tratta […] di trovare una verità che sia una verità “per me”, di trovare “l’idea per la quale io voglio vivere e morire”»4.

 

Note

1 Cfr. G. Ryle, Per una lettura di Platone (Plato’s Progress), trad. di M. Stefanoni, Guerini e Associati, Milano 1991, p. 119.

«Concepts can never be derived logically from experience and be above criticism. But for didactic and also heuristic purposes such a procedure is inevitable. Moral: Unless one sins against logic, one generally gets nowhere; or, one cannot build a house or construct a bridge without using a scaffold which is really not one of its basic parts», A. Einstein, Letters to Solovine, 1906–1955, trad. Wade Baskin, con un’introduzione di M. Solovine, Philosophical Library, New York 1987, p. 134, pos. 877.

3 A. Einstein, Autobiografia scientifica, trad. di A. Gamba, Boringhieri, Torino, 1979, p. 15.

4 S. Kierkegaard, Diario (Papirer), Vol. II, a cura di C. Fabro, Morcelliana, Brescia 1980, p. 41.

 

Giuseppe Balido
La Logica di Mario Vittorino e Agostino di Ippona
Una proposta metodologica per l’approccio ai testi filosofico-teologici
EDI
Napoli 2019
Pagine 182

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