Creature e creatori. Linee di fuga e r-esistenze naturalculturali
1. The Age of Statistical Science Fiction
È oggi piuttosto comune tra i manager e i professionisti del settore finanziario credere nell’avvento della Singolarità Tecnologica, in particolare tra coloro i quali si ritrovano a dover affrontare la problematica gestione dell’enorme Big Data flow proveniente dalle piattaforme Social e dal web in generale. Eserciti di minatori virtuali scavano quotidianamente nelle profondità inesplorate degli sconfinati database di Google, alla ricerca di sempre più preziose informazioni. Se gli ultimi ritrovati del gene editing, dell’Intelligenza Artificiale e dell’automazione rendono plausibile l’ipotesi della Singolarità, con la conseguente esplosione della cosiddetta Superintelligenza1, è stato altresì osservato che difendere l’inevitabilità di tale fenomeno significherebbe attribuire una dimensione di prevedibilità teleologica all’evolversi delle vicende storiche e culturali umane. Secondo i sostenitori della Singolarità sarebbe possibile, nonché auspicabile, dati alla mano, stabilire con un certo margine di precisione cosa accadrà al rapporto sempre più intimo che abbiamo instaurato con le nostre macchine e i nostri oggetti intelligenti, da oggi e fino ad almeno i prossimi quarant’anni. Se la Legge di Moore è corretta – e così la sua versione potenziata ad opera del manager di Google Ray Kurzweil, la Legge dei ritorni acceleranti2 – ci ritroveremo ben presto ad abitare un mondo di artefatti pensanti e tecnologie di controllo sempre più pervasive, che solo in pochi saranno in grado di comprendere e gestire. Questo momento futuro, oltre che incombente, sarebbe già inevitabilmente inscritto nella filigrana delle virtualità – o tendenze – del presente. Come rileva Pasquinelli, «given the degree of myth-making and social bias around its mathematical constructs, Artificial Intelligence has indeed inaugurated the age of statistical science fiction»3.
Questo percorso lineare assegna uno statuto di inevitabilità e immutabilità agli eventi futuri, contribuendo a creare un diffuso clima di sconforto dominato dal senso d’impotenza, come testimonia il proliferare di atteggiamenti disfattisti e distruttivi, il disinteresse generale nel produrre benessere già in seno alla propria comunità, la scarsa sensibilità per le tematiche ambientali che riguardano l’intero ecosistema. È lecito dunque chiedersi se l’evolversi delle dinamiche socio-culturali si muove insieme all’andamento – reale o ideale – del progresso tecnoscientifico, e dunque in una prospettiva di armonica e globale cooperazione in vista di un’auspicabile e totale rivoluzione, di un telos largamente partecipato simile al Punto Omega già teorizzato dal gesuita Pierre Teilhard de Chardin, o se, diversamente, le obiezioni sollevate in ambito etico e politico in materia di uguaglianza dei diritti e di equa distribuzione delle risorse economiche e dei mezzi tecnologici siano legittime. La possibilità di affrontare in maniera efficace e risolutiva l’argomento è minacciata da diversi fattori e questioni ancora aperte sul piano filosofico – ontologico ed epistemologico prima ancora che etico – e, non ultimo, ideologico: questo, infatti, rappresenta il nodo centrale di ogni dibattito sul tema fin dagli albori di ARPAnet e della cibernetica, all’ombra di una torbida tendenza militarizzante e di inquietanti ritorni a regimi totalitari, sottese preoccupazioni per i Paesi leader del Capitalismo Avanzato4.
Molto discusso è il futuro del mondo del lavoro, con l’annunciata scomparsa di interi settori occupazionali, della crisi del sistema neoliberista e la conseguente possibilità risolutiva di un reddito di cittadinanza universale. Particolarmente colpiti i settori più strettamente connessi al lavoro manuale, ma non solo: lo sviluppo della robotica e dell’IA si prepara a invadere la sfera del significato, del lavoro creativo e intellettuale, fino a questo momento appannaggio esclusivo delle menti umane, come emerge dalle ricerche rivolte ai processi comunicativi umano-macchina e di traduzione da una lingua all’altra, le diagnosi mediche o le consulenze legali.
Di fatto, niente di nuovo: l’orizzonte già dipinto da Capek nel 1929 nel dramma in tre atti R.U.R. Rossum’s Universal Robots si realizza in tutta la sua concretezza, destinando il genere umano alla coatta e collettiva inazione in un mondo popolato da esseri robotici, ma a conti fatti del tutto viventi, che sostituiranno Sapiens nel dominio dell’agire, poi del pensare, del sentimento e infine della riproduzione – in ultimo, infatti, «le donne non faranno figli a uomini che sono inutili»5. Il contrappasso della sterilità femminile si realizza compiutamente nella presa di coscienza ultima che qualcosa di inevitabile è accaduto, che il filo del tempo e del progresso non si può più riavvolgere e che, se è vero che il lavoro nobilita l’uomo, l’Homo ludens6, delegando sempre più le sue mansioni agli strumenti tecnologici, ha firmato la sua personale condanna alla obsolescenza.
In un’ottica siffatta, la forza lavoro e la risorsa umana impiegata fa da cartina di tornasole principale alla verifica dello spessore morale di un popolo. Quanto più il singolo è in grado di produrre valore, tanto più sarà degno di appartenere alla comunità globale: la produzione di valore è garanzia di umanità e l’occupazione vecchia maniera si configura come agire moralmente orientato. Come rileva Braidotti, in questo modo «la tirannia dell’opinione è posta: senza identità [e ruoli] fiss[i] che poggiano su solide basi, le regole elementari del decoro umano, la responsabilità politica e la probità morale sarebbero minacciate».7
Uno degli aspetti più interessanti del nostro secolo si sviluppa proprio a partire da questo diffuso paradosso: se è vero che la macchina ha emendato l’uomo dal dovere che la divinità punitiva ha lui imposto (il mito di Adamo gioca un ruolo chiave in questo contesto, chiarificando alcuni degli assunti impliciti di tante previsioni catastrofiche sul lavoro automatizzato), come spiegare le nuove forme di schiavitù digitale dovute al bisogno tempestivo di aggiornamento, all’iper-connessione, all’assottigliarsi e al confondersi della differenza tra tempo libero e tempo dedicato alla produzione e gestione di informazione? Come non tenere conto delle inedite forme di schiavitù emerse dal divenire-cyborg? A ben guardare, dunque, anche la meno auspicabile (per alcuni) delle prospettive contribuisce al disegno di un domani migliore.
Secondo Yehya, «il cyborg, dalle grandi imprese, è concepito soprattutto come un investimento redditizio, come un umano riprogettato e migliorato che può essere programmato soltanto per svolgere due funzioni: la produzione e il consumo, estirpando così le attività improduttive e le distrazioni come i sogni, i desideri erotici […] e altre emozioni»8. In passato forme di tutela del lavoratore erano state garantite dalla trasparenza della dinamica di produzione e di compenso: essere in grado di definire cosa si produce, per chi lo si produce e a che prezzo, garantiva la possibilità di approssimare un possibile scarto concreto tra aspettative di guadagno e guadagno effettivo. Ma cosa fare se il valore siamo noi, il tempo che siamo?
La rivoluzione in atto esorta con urgenza governi e istituzioni da un lato a più adeguate forme di retribuzione per tutte quelle attività che non sono ancora considerate lavoro, dall’altro di aggiornamento culturale equamente distribuito, che sia all’altezza dell’accresciuta richiesta di alfabetizzazione tecnologica, affinché ne corrisponda un incremento dell’impiego anche tra le fasce economicamente deboli della popolazione, quelle più colpite da un digital divide che non è più possibile gestire attraverso fantasie neo-luddiste atte a stigmatizzare il nuovo, in una diffusa sorta di tecnoetica negativa9. Occorre comprendere che a uscire vincente da questa retorica del negativo è solo chi detiene i nuovi mezzi di produzione. D’altra parte, il rischio è quello di dover fare i conti con una cultura quasi del tutto asservita alle logiche del profitto, come accade sempre più di frequente in ambito accademico.
La risposta che si è tentato di fornire – entro i confini italiani, ma non solo – è quella di un reddito di cittadinanza universale. Una proposta che ha radici nella Rivoluzione Francese e la cui paternità è stata individuata in Thomas Paine e precisamente nel suo saggio Agrarian Justice, il quale, per la prima volta, fa emergere una connessione tra lo sviluppo della civiltà – in particolare i progressi della scienza e della coltivazione – e il drammatico immiserimento dei ceti più poveri della sua società. Una considerazione che verso la metà dell’Ottocento sarà ripresa dall’economista David Ricardo, secondo il quale la disoccupazione sarebbe la spontanea conseguenza della meccanizzazione delle attività produttive. Secondo Paine, tuttavia, più che allo sviluppo tecnico, la responsabilità maggiore va all’ «invenzione della proprietà privata. Tale istituto ha ingiustamente privato la maggioranza dei mezzi di sostentamento»10 che spetterebbero loro di diritto, in quanto la terra, pur se coltivata, è un bene comune a tutti. A questo punto, secondo l’autore, giunti all’età di ventuno anni la somma di «fifteen pounds sterling»11 dovrebbe essere assegnata a ogni cittadino tramite un fondo appositamente creato dalla nazione di appartenenza. Come osserva ancora Campa, l’originale ipotesi di Paine insiste molto su di un punto: «Non si pensi che il reddito di cittadinanza venga concesso per carità cristiana o con l’intenzione di realizzare il socialismo» e ammette, piuttosto, «che si tratti dell’ultima spiaggia per salvare un capitalismo ormai agonizzante. Un capitalismo che ha prodotto progresso tecnico e ricchezza, ma non ha mantenuto la promessa di un benessere diffuso e della piena occupazione, nemmeno della classe media. C’è ormai la consapevolezza, anche tra i conservatori più avveduti, che il capitalismo si sta avvitando su se stesso»12.
2. Cyborg, tecno-corpi, oncotopi, soggettività nomadi. R-esistenze affermative
Che il Capitalismo Avanzato sia giunto al punto da cannibalizzare se stesso, poggiando interamente su dinamiche che il sistema, meno solido di un tempo, non sarebbe più in grado di sostenere, è questione ancora aperta13. Errato è però cercare riparo in un passato ideale, in retrotopie e arretrati modelli economici. Errato è anche pensare la tecnoscienza come unica ancora di salvataggio possibile da un futuro che si prospetta di globale estinzione. Emergono così, dal dibattito filosofico (e non solo) contemporaneo, altre proposte, alcuni modelli alternativi e delle configurazioni inedite che aprono una stagione di nuovo rinascimento utopico e che hanno come punto di snodo e approdo di pensiero le possibilità aperte dal divenire-animale e divenire-macchina, dei quali ha discusso anche Deleuze. Letture di questo genere sono ben esemplate dalle filosofe del femminismo radicale, del post-colonialismo e del neo-materialismo, eredi dirette della tradizione post-strutturalista – la sola che, dopo Marx, era riuscita a cogliere con lucidità le dinamiche di potere interne al proprio tempo. Studiose del calibro di Rosi Braidotti, Donna J. Haraway, Judith Butler e – in una veste tecnoprogressista – Helen Hester, del collettivo transxenofemminista Laboria Cuboniks. Sono filosofe post-umaniste capaci di indagare in modo critico la necropolitica14 dominante tipica del paradigma antropocentrato, rilevandone i sottesi impliciti, tracciando genealogie e cartografie del presente a partire dal rapporto sempre sofferto di Sapiens con ciò che per secoli è stato definito l’Altro – reificato, razzializzato, sessualizzato15.
Per capire cosa intendiamo quando parliamo di postumanesimo, che pure è un termine che abbraccia un bacino ormai ampio e articolato di movimenti e sottoculture, ritengo utile partire dal pensiero di pioniere come Haraway e Braidotti, per le quali due programmi post-umani sono oggi i più urgenti: 1. ri-immettere il discorso sulla specie umana all’interno di un cosmos più ampio, popolato da creature animali e macchiniche, nate e create, naturali e artificiali, uomo e donna. Figlie del pensiero di Foucault le filosofe del postumano indagano le micro-relazioni di potere interne alla cultura occidentale, con particolare riguardo per la dimensione linguistica, retorica ed epistemologica, in una chiave discorsiva però sempre personale; 2. contro la potenza distruttiva del discorso apocalittico e fallologocentrico – veicolo di incertezza, paura, alienazione, perdita di speranza per un futuro desiderabile, sempre aperto, dei molteplici piani di esistenza attuali – esse riconoscono alla rete, intesa come inter-connessione di individui tramite i nuovi mezzi di comunicazione, ma anche come inter-scambio di relazioni e feedback positivi, una potenzialità rinnovatrice, capace di indirizzare verso percorsi alternativi pur rimanendo sempre lucidi difronte alle indubbie criticità dell’era post-umana. Come è evidente, queste pratiche di r-esistenza naturalculturale nascono e trovano terreno fertile nella stretta collaborazione triangolare tra donne, animali-altri e macchine. In questa cornice le domande poste dalle femministe di inizi anni Novanta restano aperte e attuali: in che modo i progressi tecnoscientifici e la rete internet rendono plausibile la liberazione delle soggettività nomadi non-essenzializzate? E perché, se il cyborg è il figlio ribelle del Capitalismo Avanzato16, quel padre occupa ancora un posto privilegiato al tavolo del nostro futuro? Che aspetto hanno le creature che popoleranno il domani?
Alter-ego del cyborg, altro personaggio mitico del nuovo millennio che incontriamo all’interno dell’Universo di Haraway, è l’OncoMouseTM:
OncoMouseTM is an ordinary commodity in the exchange circuits of transnational capital. A kind of machine tool for manufacturing other knowledge-building instruments in techno science, the useful little rodent with the talent for mammary cancer is a scientific instrument for sale like many other laboratory devices. Above all, OncoMouseTM is the first patented animal in the world. By definition, then, in the practices of materialized refiguration, s/he is an invention. Her natural habitat, her scene of bodily/genetic evolution, is the techno scientific laboratory and the regulatory institutions of a powerful nation-state.17
L’OncoMouseTM, essere transgenico, nato in laboratorio e dunque artificiale prima ancora che naturale, manipolato con il gene responsabile del tumore al seno, è il simbolo più chiaro, la metafora inequivocabile del dominio necropolitico che il Capitalismo Avanzato, per il tramite della tecnoscienza, esercita sui corpi viventi. Ennesima dimostrazione dello stretto intreccio tra bios, tecnoscienza e denaro è quanto Haraway evidenzia nelle pagine successive, sulla scorta di Wolf:
Capital also squirts directly into industrial biotechnology. Every year between 1990 and 1994 in California’s Silicon Valley, ‘more money has been invested in new biotechnology and health-care companies in the valley than in any of the industries that currently dominate the economy’ (Wolf, 1994)’.18
In una regione nota per i suoi computer e per la sua avanguardia tecnologica, fa specie osservare la quantità di fondi mossi in direzione delle scienze della vita, più che verso gli sviluppi dell’information technology. Una tendenza che non sembra essersi risolta con l’andare degli anni, come anche dimostra chiaramente il report annuale del centro di ricerca dell’ormai decennale progetto SENS19.
Attraverso le sue figurazioni mostruose e perturbanti – dal cyborg, all’OncoMouseTM, dal FemaleMale© alle Specie da compagnia, parenti stretti della pecora Dolly o delle più recenti gemelle Crispr – il lavoro di Haraway ci invita a tessere un innovativo sistema di alleanze tra coloro i quali sono stati definiti i diversi, gli esclusi dal discorso tecnoscientifico, complici nelle pratiche di opposizione e r-esistenza al dominio asfissiante del New World Inc.
Lo sviluppo più fertile di questa linea di pensiero confluisce nel Manifesto Xenofemminista del collettivo Laboria Cuboniks. Come è stato rilevato da Braidotti, si tratta di un «pensiero teorico e politico»20 alternativo, che considera concetti di parità dei diritti e giustizia sociale sotto una nuova luce: contro l’inerzia del pensiero polarizzante, che fa dell’emotività il veicolo privilegiato di zombie ideologici che si credevano seppelliti (conseguenza più diretta e radicata di una distorta visione post-moderna, dualistica e divisiva, che ha spezzato il mondo nei compartimenti binari dello zero e dell’uno), il discorso postumanista post-antropocentrico cerca un varco d’accesso a una realtà parallela, che ha la forma ricorsiva e complessa di una figura frattale, più che la sicura ma illusoria linearità di un cerchio e di un quadrato. Inoltre, esso è un pensiero intrinsecamente materialista e lo è nella misura in cui:
Il postumanesimo filosofico […] accentua l’esigenza di un’ontologia processuale. Il pensiero è il risultato di un’attività nomade, in transizione tra posizioni potenzialmente contraddittorie. Il postumanesimo filosofico non si definisce topologicamente, soprattutto nell’era dell’economia globale e delle reti telematiche, ma non per questo è privo di radici, come se fosse una visione proveniente dal nulla. L’essere in divenire o in transizione del soggetto pensante non lo colloca fuori dalla storia e dal tempo21.
In definitiva, il postumanesimo filosofico non si fonda su una capricciosa e intellettualistica velleità di contesa sul terreno delle verità. È un pensiero non-ideologico e non-atemporale. Esso è piuttosto l’affiorare dell’intuizione precorritrice di una rottura tra il dato ideologico dominante e il concreto del divenire storico. E dunque lungi dal posizionarsi in un astratto Iperuranio, esso emerge dalle contingenze di fatto e dalle esigenze di riorganizzazione del problematico assetto economico, sociale e politico globale.
Note
1 Per una disamina approfondita del concetto di Superintelligenza: N. Bostrom, Superintelligence. Paths, Dangers and Strategies, Oxford University Press, Oxford 2014.
2 R. Kurzweil, The Age of Spiritual Machines, Viking Press, New York 1999.
3 M. Pasquinelli, «How a Machine Learns and Fails: A Grammar of Error for Artificial Intelligence» in Spheres Journal. Journal for Digital Cultures, n.5, 2019, p. 4.
4 «È importante segnalare che la tecnologia, come l’arte, è un riflesso della società che la produce: non si tratta perciò di un fenomeno neutrale, e nemmeno incontrollabile, né di una forza autonoma, come sono soliti rappresentarla alcuni tecnofili. Possiamo certamente sostenere che il metodo scientifico è per definizione esente dalle ideologie, ma non si trovano nella stessa situazione i direttori degli istituti, dei laboratori e delle corporazioni scientifiche, né tanto meno coloro che assegnano sovvenzioni ai diversi programmi accademici» (N. Yehya, Homo Cyborg, (El cuerpo transformado, 2001), trad. di C. Milani e R. Schenardi, Elèuthera, Milano 2017, p. 17). Su tale controversia si veda ancora N. Yehya, Homo Cyborg (2017).
5 K. Capek, R.U.R Rossum’s Universal Robots, trad. di A. Catalano, Letteratura universale Marsilio, Venezia 2015, p. 100.
6 Si veda: V. Flusser, La cultura dei media, (Medienkultur, 1997) trad. di T. Cavallaro, Bruno Mondadori, Milano 2004 e Byung-Chul Han, Nello sciame. Visioni del digitale (Im Schwarm. Ansichtendes Digitalen, 2013), Nottetempo, Roma 2015.
7 R. Braidotti, Per una politica affermativa. Itinerari etici (Nomadic Theory. The Portable, Columbia University Press, 2012), trad. di A. Balzano, Mimesis, Milano-Udine 2017, p. 125.
8 N. Yehya, Homo Cyborg, cit., p. 81.
9 R. Campa, La società degli automi. Studi sulla disoccupazione tecnologica e il reddito di cittadinanza, D Editore, Roma 2017, p. 17.
10 T. Paine, Political Writings, Cambridge University Press, Cambridge 2000 , in R. Campa, La società degli automi. Studi sulla disoccupazione tecnologica e il reddito di cittadinanza, cit., p. 17.
11 R. Campa, La società degli automi, cit., p. 21.
12 Ivi, p. 102.
13 D’altro canto, che il Capitalismo Avanzato abbia attuato strategie di reinvenzione per continuare riproporsi nella Storia, mascherato ma sempre uguale a se medesimo, è una osservazione altrettanto significativa e diffusa. Si veda: N. Yehya, Homo Cyborg, cit.; R. Braidotti, Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, (The Posthuman, Polity Press 2013), trad. di A. Balzano, DeriveApprodi, Roma 2016.
14 Si tratta di un concetto caro a Braidotti, la quale intende così descrivere i processi tecnologicamente mediati tipici della nostra contemporaneità nei suoi aspetti più macabri e cruenti. Essi sono acutamente individuati, per il tramite di Chomsky e sempre a partire dalle analisi di Foucault sulla biopolitica, in un «‘nuovo umanesimo militare’, il cui emblema sono gli interventi umanitari». La stagione del post-umanesimo, evidenzia ancora la filosofa di Utrecht, non può essere compresa nelle sue molteplici e non-lineari sfaccettature se non a partire dalla centralità assunta, nell’odierno dibattito politico, dal tema della morte e dai nuovi modi di morire. R. Braidotti, Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, p. 132.
15 Utilizzo ancora una formula cara a Braidotti, che mi sembra sintetizzi bene il lavorio culturale alle spalle dell’immaginario occidentale legato all’animale, alla donna, alla macchina.
16 Una definizione di Haraway.
17 D.J. Haraway, T. Nichols Goodeve, Modest_Witness@Second_Millennium. FemaleMan_Meets_OncoMouse: Feminism and Technoscience, Routledge, New York and London 1997, p. 79.
18 Ivi, p. 93.
19 https://www.sens.org/wp-content/uploads/2019/05/SENS-Research-Foundation-2019-Annual-Report.pdf (consultato il 24/12/2019).
20 R. Braidotti, Per una politica affermativa. Itinerari etici, cit. p. 52.
21 Ivi, p. 55.
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