Sentimenti del tempo ed esperienza estetica

Di: Giuseppe Frazzetto
31 Gennaio 2020

 

1. L’estetizzazione pressoché generalizzata caratterizzante le culture cosiddette “occidentali” è un fenomeno recente; di conseguenza restano ancora inesplorate non poche implicazioni del fenomeno. Qui tenteremo d’accennare a una questione non di rado lasciata in ombra dalle analisi finora disponibili, ovvero quella del rapporto fra estetizzazione e sentimento del tempo.
Faremo ricorso a quella che ci sembra un’analogia strutturale fra alcuni atteggiamenti propri delle esperienze estetiche e alcune nozioni provenienti dal campo religioso. Nell’ambito delle concettualizzazioni della teoria politica questo genere di analogia è ormai alquanto usuale. Ci riferiamo ovviamente alla cosiddetta “teologia politica”. Tale concetto, ci ricorda Roberto Esposito, «interpretato da alcuni come legittimazione religiosa del potere e da altri come presupposto politico della religione, […] è stato ricondotto da Carl Schmitt all’analogia strutturale tra categorie politiche e dogmi teologici»1. “Analogia strutturale” che secondo Schmitt (argomenta Agamben) implica la secolarizzazione dei concetti teologici. Agamben discute della derivazione dalla teologia cristiana di due paradigmi:

la teologia politica, che fonda nell’unico Dio la trascendenza del potere sovrano, e la teologia economica, che sostituisce a questa l’idea di un’oikonomia, concepita come un ordine immanente – domestico e non politico in senso stretto – tanto della vita divina che di quella umana. Dal primo, derivano la filosofia politica e la teoria moderna della sovranità; dal secondo, la biopolitica moderna fino all’attuale trionfo dell’economia e del governo su ogni altro aspetto della vita sociale2.

Dal nostro punto di vista, ipotizzeremo che la secolarizzazione dei concetti teologici abbia assunto (e, a maggior ragione, assuma oggi sempre più) una configurazione estetica3.

2. Un’importante analogia fra nozioni religiose e categorie estetiche riguarda la nozione di esperienza estetica, quale viene elaborata in un lungo lavorio iniziato nel Rinascimento, e alcuni aspetti della diade eschaton katéchon.
Non è questa la sede per formulare ipotesi sull’evidente attualità della diade4. Quanto è in gioco nell’opposizione fra le due formulazioni è per così dire all’ordine del giorno.
Eschaton, il compiersi dei tempi; katéchon, l’impedimento di quel compiersi. Katéchon è qualcuno o qualcosa che “ritarda” l’eschaton.
La nostra ipotesi è che le due nozioni possano delineare (sia pure solo metaforizzandola, nel peggiore dei casi) un’opposizione fra due diversi “sentimenti del tempo” connessi all’esperienza estetica.
A una prima considerazione, sembrerebbe agevole indicare la presenza di impulsi o implicazioni escatologiche nelle varie forme dell’Avanguardia, laddove sarebbero catecontici gli esiti più o meno inavvertiti delle tradizioni culturali e/o degli intenti ideologicamente orientati alla consacrazione dello status quo e/o al mero intrattenimento. Sarebbe insomma escatologica la sostanza dell’Avanguardia, catecontetica quella di quanto i francofortesi chiamavano “industria culturale”5 e Clement Greenberg definiva spregiativamente Kitsch6, e che da parte nostra nomineremo decorativo-inerte.
Secondo questo schema facile e non errato, l’Avanguardia vorrebbe porsi come contestuale o propedeutica all’avvento della “fine dei tempi” (la Rivoluzione, la Fine della Storia, l’inizio della “vera storia dell’Umanità”, ecc.); di conseguenza giudica tutto il resto come qualcosa che “trattiene” il compiersi auspicato.
Si potrebbe del resto suggerire che l’ossessione7 dell’Avanguardia per le forme culturali che ritiene inferiori e/o per l’arte del cosiddetto “sistema dell’arte” rifletta le imprese “apocalittiche” dei movimenti minoritari millenaristici, in contrasto con la Chiesa ritenuta colpevole del “ritardo della Parusia”. In questo caso, riprendendo il riferimento alle argomentazioni di Agamben citate, si dovrebbe dire che l’arte del sistema dell’arte risulterebbe guidata da un paradigma “economico”, evidentemente fondato appunto sul ritardo della parusia – ma che senza troppe difficoltà potrebbe essere visto come concausa, catecontica, di quel ritardo.

3. Uno stigma della fase attuale (“postcontemporanea”, potremmo paradossalmente definirla)8 è la diffusa identificazione fra esperienza estetica ed esperienza religiosa. Una fenomenologia che spesso può essere colta in forme persino ingenue. Non di rado nel rapporto con l’arte si cerca un che d’eccessivo: più o meno consapevolmente l’ipotetica esperienza estetica prende il posto di un’esperienza religiosa. L’esperienza estetica si accampa in un mondo secolarizzato e razionalizzato come l’estrema risorsa dell’indicibile e dell’irrazionale.
Fatto è che la considerazione pressoché sacrale del produrre e del consumare inestricabilmente connessa agli sviluppi della complessità postcontemporanea trova il suo doppio fantasmatico nella sacralizzazione surrogata del Sé mediante l’esaltazione del produrre & consumare individuali.

Dalla parte dei creativi (soprattutto i non professionisti) un qualcosa che prende il posto dell’arte, ma che è solo creatività per così dire a proprio uso e consumo, viene spesso immaginato come momento imprescindibile d’una rigenerazione “spirituale” e identitaria, se non come un ritorno alle Madri. Tale concezione diffusissima dell’attività produttiva genericamente “artistica”, di certo favorita dal trionfo d’un modello psicanalitico frammentario e frainteso, produce oggidì non pochi equivoci e disastri più o meno grandi – sebbene il più delle volte per fortuna innocui.
Dall’altra parte, dalla parte del pubblico, il modello sacrale a cui si è fatto appena cenno conduce alle mille modalità del rapporto con l’arte come ricerca incessante e sempre frustrata di un’emozione straordinaria, rivelatrice, salvifica. Non svilupperemo questo tema, del resto oggi assai frequentato (fra le polemiche contro il turismo culturale e la frenesia dei “mostrifici”, ecc.).

4. Il sentimento del tempo connesso all’esperienza estetica, pensata (com’è giusto che sia) in termini “moderni”, si inscrive spesso nell’area dell’apocalittico. Non forniremo qui una dettagliata descrizione del formarsi di questa connessione, che anzi proporremo come un assioma. Ci limiteremo a ricordare un’argomentazione in cui il nesso si espone in forma estremistica.
Per Benjamin l’esperienza dell’opera scardina il tempo omogeneo e vuoto trasformandolo in Jeztzeit, tempo-ora (o tempo-ora-per-sempre). In altri termini l’esperienza estetica (in ciò etica e politica) coincide col tempo della festa e/o della rivoluzione, col tempo dell’ipotetica “vera festa”, il tempo straordinario che sfonda il tempo ordinario e forse lo fonda. Si tratta del momento in cui “si spara contro gli orologi delle torri”, secondo l’icastico mitologema proposto da Benjamin nelle Tesi di filosofia della storia.

5. Amplieremo necessariamente l’argomentazione accennando alla connessione fra la diade katéchoneschaton e un’altra: coltivazione / caccia.
Se sviluppiamo le implicazioni estetiche e/o cultuali di questa opposizione ci troviamo alle prese col riferimento a due diversi metodi di incontro col Sensato.
Il modello “coltivazione” ovvero cultura è il nostro attuale modello di riferimento “automatico”, sebbene forse non possa più esserlo in concreto. Tale modello si configura come installato in una dimensione locale che privilegia necessariamente il cambiamento lungo l’asse cronologico. Il coltivatore è stanziale, ma per così dire si sposta nel tempo insieme alla coltivazione. La sua attività consiste specificamente nel fare in modo (avendo cura) che il raccolto futuro, non ancora esistente, possa esporsi all’esistenza.
Il coltivatore è dunque nella storia, sia nel senso del percorso diacronico, sia nel senso del resoconto di quanto è avvenuto, dato che quanto è avvenuto probabilmente potrà costituire il modello di ulteriori cure, coltivazioni, raccolti, storie. La sua collocazione cronologica oscilla continuamente, con movimento pendolare, dal passato al futuro. La sua collocazione è spazialmente immobile, eppure quel luogo è oscillante fra la storia già avvenuta e la storia che dovrà avvenire – e, d’altra parte, fra le storie già raccontate e quelle ancora da raccontare.
Il coltivatore ha perennemente a che fare con la diade mito/storia. Il mito (ed eventualmente il rito) è il fondamento di attività, esistenze, ragioni di sensatezza. Un fondamento legato al passato: la storia ne è il suo darsi concreto, il suo esporsi all’esistenza.
Si tratta d’un fondamento saldissimo e insieme assai incerto. È saldo perché incardinato a un luogo, concreto o metaforico: il campo coltivato, la specializzazione dello studioso, la provincia finita di significato d’una professione, ecc. È incerto perché il nesso passato-futuro è ogni volta da rinegoziare. Anzi si potrebbe supporre che quel nesso non possa mai darsi in un effettivo presente, considerata l’inarrestabile oscillazione fra ciò che è stato e ciò che sarà – ovvero fra qualcosa di cui si è già data storia, in entrambi i sensi, e qualcosa d’altro che in effetti non esiste (o, almeno, ancora non esiste).
La risposta più semplice (e forse quella più frequente) a questo nodo problematico è la ripetizione. Ri-facciamo il già fatto. Tuttavia non è possibile. Il già-fatto fu portato all’esistenza da altri; oppure da noi, può darsi, ma quando non eravamo come adesso (eravamo più giovani, più forti ma meno esperti, più illusi o speranzosi, ecc). La coltivazione (= cultura) del coltivatore è necessariamente orientata a ribadire i nessi di appartenenza se non di identità. Noi siamo come i nostri avi, ne condividiamo-ereditiamo i tratti, i luoghi, gli usi, noi siamo identificati dalla nostra terra e dal nostro sangue, più recentemente dalla nostra nazione; Io sono lo stesso di allora, con qualche chilo in più e molti capelli in meno, Io non sono un altro, Io sono = Io. Beninteso non è così, non può essere così. I nostri maggiori non eravamo noi, Io non sono come ero, Io non è = Io.
Del resto, la struttura profonda della coltivazione-cultura è innervata nel mutamento, nella storia. Possiamo ripetere il procedimento che ci fruttò il raccolto: ma si tratta appunto d’un procedimento, ovvero d’un percorso, un metodo, una storia. Il coltivatore sa di essere uno strumento d’una storia (la storia della sua coltivazione); sa che la sua prestazione consiste specificamente nel far sì che qualcosa di non ancora esistente si esponga infine all’esistenza. Di conseguenza la dinamica del suo agire (anzi del suo essere quel che è, un Io che tenta di essere Io sapendo di diventare non-Io) è inevitabilmente apocalittica.
Come si sarà compreso, usiamo qui tale termine così ambiguo nel suo significato forse più corrente: apocalisse sarebbe una conclusione/rivelazione. (Resta poi da stabilire se si tratti d’una conclusione definitiva oppure della stazione d’un percorso ulteriore, in cui qualcosa si conclude e qualcosa d’altro inizia). La storia della coltivazione a un certo momento si imbatterà in un’apocalisse. Ripetiamo, è la struttura profonda del procedimento culturale a richiedere l’inevitabilità dell’apocalisse. L’apocalisse sarebbe insomma il raccolto. Certo, non il raccolto effimero d’un ciclo produttivo minore (un ciclo di coltivazione annuale, l’argomentazione d’un singolo scienziato, la “ricerca” d’un singolo artista): quelle apocalissi individuali e/o epocali sono semmai l’esporsi all’esistenza, in casi concreti, di alcuni elementi strutturali della dinamica culturale.
L’apocalisse di cui parliamo è invece la grande, definitiva conclusione del percorso, là dove il Sensato pur sempre rinviato infine si fa esistente.
La dinamica apocalittica della coltivazione è perciò in perenne/strutturale tensione con la dinamica catecontica della ripetizione, che rinvia il compimento svalutando ogni singolo compiersi come effimero e solo parzialmente sensato, il quanto il Sensato definitivo è pur sempre da compiersi.
Due manifestazioni esplicite di questa tensione appaiono la scienza (cammino di scoperta ipotizzato come destinato a compiersi ovvero a completarsi) e l’arte contemporanea, che dal paradigma scientifico ha saccheggiato quasi tutte le proprie formulazioni, ossessionata dalle nozioni di “morte dell’arte” e/o di “ultima opera possibile”.

6. Il modello caccia/raccolta sembra opporsi punto per punto alle peculiarità che si sono accennate. Innanzitutto, il cacciatore non è stanziale: si sposta, in qualche modo. Si sposta fisicamente, oppure il suo spostamento è legato ai temi, alle risorse, alle province finite di significato. Si pensi al tipico cacciatore odierno, l’utente della rete: può essere recluso nella propria stanza, da slacker disincantato o da problematico hikikomori, ma in effetti è dovunque.
Il dovunque è un repertorio di cose esistenti. Non si tratta di cose che verranno all’esistenza col trascorrere del tempo, con la cura, la competenza, e via dicendo; sono cose esistenti che bisogna incontrare, per poterle raccogliere o cacciare o fruire ecc. Si tratta di cose che certamente hanno una collocazione nel tempo, e che si installano in una storia; tuttavia per il cacciatore la loro dimensione cronologica e storica è in fin dei conti alquanto (o del tutto) irrilevante. Per il cacciatore l’elemento essenziale è incontrare la cosa (cliente, animale, notizia, ecc.) di cui ha bisogno, a cui è interessato, con cui può imbastire un breve rapporto.
La dimensione cronologica del cacciatore in altri termini è il presente. Poco o nulla importa del passato della cosa, la preda; ciò che conta è il poterla avere presente, per poterla predare.
L’emblema odierno di tale presentificazione reiterata è ovviamente l’ipertesto9. Suggeriremo una sua nativa affinità con lo sciamanesimo.

7. Una narrazione di tipo sciamanico è parzialmente sequenziale. Non può che essere sequenziale, dato che narratore e destinatari sono nel tempo – nel tempo delle loro vite. In una narrazione di tipo sciamanico ci sono inizio peripezie e conclusione; tuttavia se c’è qualcosa che si sviluppa, c’è soprattutto qualcosa che ritorna. La vicenda sequenziale è infatti la storia d’un avvicinamento (che probabilmente potrà ripetersi) a qualcosa che da parte sua esiste. L’atteggiamento sciamanico non si muove verso l’incontro futuro con un Sensato non ancora (o non più, in alcuni casi) esistente, bensì con un Sensato sempre-presente, che è qui, accanto al ricercatore sciamano. Ma si tratta d’un qui usualmente non visibile: la ricerca consiste allora in una “caccia” ai frammenti del Sensato, presenti ma nascosti. A differenza del “coltivatore”, il “cacciatore” non deve costruire, allevare, prendersi cura ecc. La sua abilità risiede nel conoscere tempi e luoghi in cui la “preda” (il frammento del Sensato) si manifesta – talvolta per un istante, del resto.
Dal punto di vista dell’attitudine “coltivatrice”, ovvero apocalittica, quanto fa il cacciatore-sciamano è eminentemente catecontico. Non c’è alcuna fine (rivelazione) da aspettarsi; c’è l’inesauribile caccia dei frammenti del Sensato.
Di conseguenza, per il coltivatore quei frammenti sono tutt’altro che sensati. Li considera anzi scorie che ostacolano il compiersi dei tempi, erbacce che infestano la radura in cui si compirà infine il darsi del Sensato.
In modo complementare, il cacciatore giudica futile l’ostinazione apocalittica implicita nell’attitudine del coltivatore. La ricchezza inesauribile dell’esistente (oggi si dice: la complessità) con cui il cacciatore si misura, cercando sì di ridurla a narrazioni che ne diano ragione, ma sapendo di non poterla dominare una volta per tutte, quella ricchezza gli appare svilita e immiserita dalle cocciute monoculture dell’apocalittico.
Il cacciatore sa (o scommette su quella possibilità) che la preda esiste, sebbene usualmente non sia visibile e raggiungibile. Il presente sensato è per lui quanto si dà nell’incontro col ritorno del potenziale manifestarsi della preda.

8. Se tentiamo di applicare quanto scritto finora alla storia delle immagini, ci rendiamo conto del conflitto fra implicazione sciamanica e attitudine apocalittica latente in moltissime testimonianze figurative.
Tale conflitto si lega all’inevitabile diversità d’approccio fra l’esperienza estetica per così dire attiva, quella dell’artista, e quella per così dire passiva, ovvero quello dell’osservatore (individuo o “pubblico” che sia).
Un’immagine si dà nella propria definitiva completezza e, per l’osservatore, in uno sguardo immediato (sebbene quell’immediatezza possa poi dare origine a una perfino interminabile interpretazione). In altri termini, per l’osservatore qualunque immagine ha una componente apocalittica: è l’apparizione definitiva d’un qualcosa.
Tuttavia qui si apre un dilemma. Un’aporia dell’immagine, che l’immagine incontra sempre e comunque e che non potrà mai essere superata. L’immagine è un visibile prodotto. La procedura di produzione in linea di principio potrebbe essere pensata interminabile ovvero catecontica. Il tentativo di neutralizzare questo rischio (che il postmoderno beninteso trasformò in opportunità) sempre presente per l’artista diede origine a innumerevoli precetti, teorizzazioni, aneddoti: dall’ipotizzare che l’artista abbia già mente l’opera prima della procedura di esecuzione dell’opera stessa (ipotesi su cui ci sia consentito d’avanzare un rispettoso sospetto), all’ipotesi che a un certo momento un “non so che” ingiunga all’artista di interrompere il procedimento in quanto giunto al compimento (alla manifestazione apocalittica del sensato dell’opera). Tuttavia il pericolo d’un asintotico percorso d’elaborazione catecontica resta pur sempre insito nell’operatività artistica, sebbene per fortuna solo di rado con gli esiti estremi narrati da Balzac in Le Chef-d’œuvre inconnu (1831), dove si narra la frenetica e interminabile ricerca compiuta dal pittore immaginario Édouard Frenhofer, incapace di “fermarsi” e quindi destinato a sfregiare il suo desiderato capolavoro riducendolo a un informe caos10.
Tuttavia il progressivo sostituirsi al modello “coltivazione” di un’attitudine connessa al modello caccia/raccolta determina (a partire dalla metà del ‘900) una sorta di fuga dall’immagine. Tale “escapismo” si connette direttamente a una questione che qui è impossibile affrontare, ovvero il passaggio dal primato del punto di vista ritenuto oggettivo (ad esempio nella prospettiva pittorica) al punto di vista mobile, per così dire “sciamanico”, del cinema.
Un effetto evidente ma forse non adeguatamente studiato di tale modificazione concerne una messa in discussione dello statuto tradizionale dell’osservatore. L’esperienza visiva è spesso pensata non in termini di definitività totalizzante più o meno improvvisa (cioè “apocalittica”) ma in termini si spostamento, di modificazione del punto di vista, di interazione fra lo spettatore e una compagine di elementi installati in uno spazio.
Un esempio di consapevolezza rispetto a questo mutamento può apparire la nota polemica contro il Minimalismo proposta da Fried in Art and Objecthood11: collocando i suoi “oggetti” nello spazio e determinando perciò la necessità d’uno spostamento dell’osservatore, secondo Fried il Minimalismo scade in “teatro”, ovvero in una situazione di mera presenceis basically a theatrical effect or quality – a kind of stage presence») anziché di presentness. Fried ha poi sviluppato l’argomento in Absorption and Theatricality: Painting and Beholder in the Age of Diderot, dove si dà rilievo alla corrispondenza di sguardi fra l’osservatore e i personaggi raffigurati – sguardi che comprometterebbero la “purezza” della contemplazione estetica, costringendo l’osservatore a ricordarsi di se stesso invece d’annullarsi nel “rapimento” (Absorption) e determinando così la presenza d’una situazione “teatrale”, nel senso per lui negativo sopra ricordato12.

9. La fede implicitamente esposta da Fried nella possibilità di un’immagine artistica apocalittica, definitiva, rivelatrice oggi può apparire mera illusione. Innumerevoli testimonianze (provenienti sia dall’ambito dell’arte intenzionale che da quelli del decorativo-inerte)13 mostrano che, quasi a sancire la (provvisoria?) conclusione di dialettiche secolari, il momento attuale sia quello di un’implosione dell’eschaton in katéchon. Si reagisce immediatamente alla finitudine, senza elaborarla, contrapponendole così il desiderio d’una pienezza interminabile, istante per istante. Una paradossale pienezza incompleta, beninteso, che in effetti rinvia a ulteriori conclusioni.
L’opposizione fra eschatonkatéchon appare così infranta. Il tempo usuale non è più percepito come il tempo dell’attesa in quanto non c’è alcun eschaton; eppure non è percepito nemmeno come katéchon, epoca del ritardo, del rinvio, proprio perché non c’è eschaton. Il tempo quindi si fa effettualmente vuoto.
Tale vuoto è destinato a un costante tentativo di riempimento: eschaton implode nel vuoto che s’è determinato, strutturandosi in mille microcompimenti, microrivelazioni.
La vita quotidiana è l’ambito d’elezione di questa implosione dell’apocalisse (istantanea, corrente, ripetuta). La sua forma è l’estetizzazione della vita, dai bassifondi della gamification alle ipotetiche vette d’un che di sublime.
La mentalità dei tempi di conseguenza ricerca instancabilmente l’eccelso (l’“eccellenza”), il sacro inteso come esperienza stordente e appunto apocalittica, il sedicente “rituale” come evento infine sensato – sebbene insensato.

 

Note
1 R. Esposito, http://www.treccani.it/enciclopedia/teologia-politica_%28Enciclopedia-Italiana%29/
2 Cfr. G. Agamben, Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Neri Pozza, Vicenza 2007, p. 13.
3 Come del resto mostra il libro di Agamben appena citato, nei suoi molteplici riferimenti a situazioni spettacolari quali le acclamazioni, i trionfi, ecc.
4 Attualmente la parola “apocalisse” appare con frequenza stupefacente nelle sedi più varie (articoli, discussioni sulla Rete, programmi televisivi, ecc.), tanto da rendere possibile parlare di una sorta di “Sindrome dell’apocalisse”. C’è da dire che usualmente l’intento di chi usa oggi il termine è di riferirsi alla fine, e non allo svelamento. Di là dalla segnalazione appena fatta, noteremo che riflessioni di alto livello su tematiche apocalittiche e catecontiche sono tutt’altro che infrequenti nella seconda metà del ‘900 e in questo inizio di millennio. Ricorderemo in particolare Jacob Taubes, Escatologia occidentale [1947], recentemente ripubblicato a cura di E. Stimilli, Quodlibet, Macerata 2019; Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a c. di Clara Gallino, Einaudi, Torino 1977 (nuova ed. a c. di Giordana Charuty – Daniel Fabre – Marcello Massenzio, 2019)  e Massimo Cacciari, Il potere che frena, Adelphi, Milano 2013. Ma l’interesse per tematiche escatologiche caratterizza numerosi spunti presenti nelle pubblicazioni di Giorgio Agamben, a partire da La comunità che viene, Einaudi, Torino 1990. Un caso particolare è quello della discussione sul “tono apocalittico” (heideggeriano) di Jacques Derrida, Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia [1983], in G. Dalmasso (a cura di), Di-segno. La giustizia nel discorso, Jaca Book, Milano 1984.
5 È ovviamente impossibile qui ricostruire la fortuna e poi il relativo abbandono della nozione di “industria culturale”, da Max Horkheimer – Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo [1947], Einaudi, Torino 1966, fino a esempi recenti come Henry Jenkins, Cultura convergente [2006], Apogeo, Milano 2007.
6 C. Greenberg, Avanguardia e kitsch [1939], in Id., L’avventura del modernismo. Antologia critica, Johan & Levi, Monza 2011.
7 Ossessione che qui daremo per scontata, senza tematizzarne modi e motivi.
8 Mi sia consentito far riferimento qui al mio L’implosione postcontemporanea. L’arte nell’epoca del web globale, Città Aperta, Troina 2002. Del resto gli accenni ad alcune peculiarità dell’estetizzazione diffusa presenti in questo paragrafo sintetizzano argomentazioni esposte nei miei Molte vite in multiversi. Nuovi media e arte quotidiana, Mimesis, Milano 2010; Epico Caotico. Videogiochi e altre mitologie tecnologiche, Logo Fausto Lupetti Editore, Bologna 2015; Artista sovrano. L’arte contemporanea come festa e mobilitazione, Logo Fausto Lupetti Editore, Bologna 2017.
9 Sul tema dell’ipertesto, di cui qui è impossibile delineare adeguatamente i termini, cfr. almeno E. Aarseth, Cybertext: Perspectives on Ergodic Literature, John Hopkins University Press, Baltimore 1997; L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media [2001], Olivares, Milano 2002.
10 Sul testo di Balzac cfr. M. Serres, Genesi [1982], Il melangolo, Genova 1988.
11 M. Fried, Art and Objecthood, in “Artforum”, estate 1967. Il testo citato subito dopo è Id., Absorption and Theatricality: Painting and Beholder in the Age of Diderot, University of California Press, 1980.
12 Un tema assai presente nella riflessione estetica odierna è appunto quello della “posizione” di chi si confronta con proposte artistiche. Uno dei versanti più significativi di tali analisi riprende la diade benjaminiana aura/traccia (cfr. ad esempio H. R. Jauss, Traccia ed aura. Osservazioni sui “Passages” di Walter Benjamin, in “Intersezioni” 3, 1987, pp. 483-504), e quindi l’opposizione fra “perdersi nell’opera” e, per così dire, “lasciarsi penetrare dall’opera”. Cfr. ad esempio A. Pinotti, Sindrome cinese. Benjamin e la soglia auratica dell’immagine, in “Rivista di Estetica”, n.s., 52/1, 2013, pp. 159-178.
13 Alcune riflessioni su tali tematiche sono presenti in alcuni miei testi, in particolare in Realismo traslatorio 1. Tutti GOSURealismo traslatorio 2. Epiche implose: la Settima e l’Ottava Stagione di Games of Thrones; Star Wars: Gli ultimi Jedi; Ready Player One, in www.giuseppefrazzetto.it.

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