La tradizione del Rubicone
Che Gaio Giulio Cesare abbia, nel 49 a.C., violato i confini dello Stato Romano in senso proprio -oltre i quali non si poteva entrare armati e senza prima aver congedato l’esercito- superando, a nord-ovest di Rimini, l’attuale fiume Rubicone, è, se non certo per il doveroso dubbio a cui la distanza del tempo e la molteplicità delle interpretazioni ci inducono, quantomeno ampiamente probabile, a causa della convergenza di molte autorevoli fonti su questo punto. Come invece questo atto, che cambiò radicalmente il quadro politico romano nei secoli a seguire, sia effettivamente avvenuto è cosa sicuramente più sottoposta a discussione.
I resoconti e le tradizioni -che hanno vinto la guerra illustre contro il tempo e la censura ecclesiastica, che ha selezionato, per ragioni ideologiche, solo alcuni testi da trascrivere dal complesso della produzione trasmessaci dal mondo antico- sono discordanti fra loro e risulta a dir poco arduo giudicare gli autori maggiormente affidabili per la ricostruzione di questo episodio. Il problema principale che pone tale preciso passaggio della storia è relativo alla veridicità o meno della famosissima frase Alea iacta est e alla corretta sintassi della sentenza. Il fatto che sia stata pronunciata o no, i suoi possibili diversi toni, determinati da una struttura sintattica o da un’altra, cambierebbero infatti il suo senso e qualificherebbero il gesto di Cesare in maniere diverse. Una forma piuttosto che un’altra accrediterebbe l’immagine del condottiero romano nel senso di un politico bramoso di potere, oppure di un eroe civile impegnato nel salvare la patria dalla sua deriva piuttosto che di un militare baldanzoso e sicuro della sua forza o di altro ancora.
Cesare stesso descrive l’episodio, anche se in modo assai essenziale e non senza il sospetto di una manipolazione degli eventi per fini ideologici: «Cognita militum voluntate, Ariminum cum ea legione proficiscitur, ibique tribunos plebis, qui ad eum confugerant, convenit. Reliquas legiones ex hibernis evocat et subsequi iubet»1. Una ricostruzione degli avvenimenti di scarsa utilità storica, molto probabilmente reticente e comunque stringatissima al fine di illustrare un gesto di tale rilevanza.
Un punto di avvio per cercare di comprendere le ragioni del passaggio del Rubicone da parte di Cesare e della sua parzialissima ricostruzione dei fatti può essere analizzare le motivazioni di un tale resoconto degli avvenimenti
Diversamente dal De Bello Gallico, il cui scopo era l’autocelebrazione della rapida e vittoriosa impresa della conquista della Gallia, il De Bello Civili doveva risultare una specie di giustificazione dei suoi atti di fronte al Senato e non destinata alla pubblicazione (che fu infatti sicuramente postuma). Cesare doveva quindi eludere con abilità retorica gli aspetti maggiormente passibili di critica delle sue azioni e, in particolare la scelta dell’insubordinazione al Senato, da mitigare nel suo racconto e certo non da celebrare. In tale prospettiva appare sicuramente interessante anche come sia sottolineata la rapida adesione al suo progetto da parte dei tribuni della plebe, a rimarcare il suo forte legame con il popolo, argomento a cui ricorrerà in più di un’occasione, in questo in sintonia con i dittatori di tutti i tempi impegnati a giustificare il loro ricorso alla forza e la loro ribellione alle leggi dell’ordinamento che hanno rovesciato o che intendono rovesciare. Pure appare significativo che, stando alla sua ricostruzione dei fatti, le sue legioni non abbiano varcato il Rubicone con lui, ma lo abbiano fatto solo in seguito, quando ordinò loro di raggiungerlo. Una tale versione appare funzionale ad accreditare la tesi di una ribellione di Cesare non premeditata e di un attacco alle istituzioni repubblicane deciso solo a fronte del rifiuto di Pompeo ad accogliere le sue richieste, determinate da amore per la patria e dal desiderio della sua salvezza.
In questa luce il racconto fatto da Cesare appare quindi poco credibile, in quanto dominato da finalità ideologiche e non di documentazione storica.
Ancora diverso è l’intento di Plutarco: «non scrivo infatti storie, ma vite»2, dice nell’introduzione della comparazione fra Alessandro e Cesare, qualificandosi subito come un autore interessato alla tradizione e all’èpos dei personaggi che prende in considerazione più che alla ricostruzione oggettiva della storia. Eppure è proprio da lui che viene la versione più accreditata: «si getti il dado»3. Una versione nella quale spicca l’imperativo, che dà risolutezza alla frase e dissolve i margini interpretativi e retorici. Plutarco ci dice inoltre che le informazioni sul presunto motto risalgono alle Historiae (perdute) di Asinio Pollione, che si trovava al fianco di Cesare il giorno del passaggio del Rubicone e che quindi rappresenta, almeno per lo scrittore greco, una fonte diretta.
Nella tradizione di Plutarco si pone anche la testimonianza di Svetonio, che ha probabilmente latinizzato e corrotto l’espressione greca, farcendola di retorica, mitigandone la veemenza e accrescendo la pietà di Cesare: «Eatur […] quo deorum ostenta et inimicorum iniquitas vocat: alea iacta est»4. Probabilmente in questa versione l’est è solo una delle corruzioni non infrequenti nei testi di Svetonio, in questo caso dell’imperativo esto.
Appare quindi difficoltoso reperire una tradizione sicura, ma il notevole numero di fonti, che ci confermano che la frase sia stata pronunciata, compresa quella riportata di Asinio Pollione, ci fa per lo meno supporre che effettivamente Cesare abbia sentenziato qualcosa, anche se la sintassi e la retorica della frase rimangono purtroppo incerte.
Note
2 Plut., Vit. Par., Alex., trad. a., 1.2
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