Sognare una scuola impossibile per renderne possibile una vivibile

Di: Augusto Cavadi
30 Settembre 2019

 

La politica – dunque anche la politica scolastica – cammina a piccoli passi, frutto di tensioni, mediazioni, spesso compromessi. Rarissimamente procede per sbalzi radicali e, tra queste rare volte, ancor più raramente provoca  progressi tali da compensare effetti collaterali disastrosi. È per questo motivo che nel corso dei decenni  mi sono convinto, ormai forse irreversibilmente, che  l’unica vera rivoluzione sia il riformismo.

Ma come negare che il riformismo nella storia, anche recente, sia anche la bandiera dell’immobilismo paludoso? La politica dei piccoli passi può evitare di banalizzarsi in conservazione dell’esistente – dunque in anticamera delle insurrezioni reazionarie – solo a patti che la gradualità tattica sia illuminata da un’utopicità strategica. Nel caso del sistema scolastico: le riforme, che hanno bisogno di consenso non solo tra le forze politiche ma anche tra governanti e attori del mondo della scuola, possono risultare davvero tali se realizzate alla luce di un modello progettuale ardito, spiazzante. Onirico.

Filosofi e poeti, educatori e artisti, profeti e scienziati hanno perciò il dovere, più ancora che il diritto, di volare alto e in avanti: legislatori e amministratori della cosa pubblica, se dotati della saggezza richiesta, proveranno a tradurre nella concretezza degli atti quotidiani i sogni dei visionari.

A un vecchietto che, entrato nel sistema dell’istruzione a cinque anni, non è riuscito di evaderne per quasi settant’anni (essendo tuttora impegnato – sia pur occasionalmente – in questa o quell’altra istituzione universitaria) è lecito correre il rischio di passar per matto esprimendo opinioni, diagnosi e ipotesi di soluzione maturate da studente prima e quindi, dopo pochi mesi di interruzione tra la laurea e il primo incarico di insegnamento, da docente1.

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Ciò che colpisce – che dovrebbe colpire – a prima vista sono gli spazi della scuola. Come le caserme, come le prigioni, si tratta di spazi chiusi, delimitati e delimitanti, reclusivi e detentivi. In Italia gli edifici scolastici meno oppressivi e più dignitosi risalgono quasi sempre al periodo monarchico e fascista (1861 – 1943): aule grandi, corridoi spaziosi, luoghi predisposti per gli esercizi ginnici. Poi la fantasia di architetti che avevano dimenticato gli anni della formazione scolastica, non di rado unita alla logica del risparmio del denaro pubblico (e, nei casi peggiori, del lucro privato), ha creato aule piccole, corridoi stretti, luoghi all’aperto e al chiuso insufficienti per le attività sportive dell’intero corpo discente. E comunque la consegna, dalla scuola materna alle soglie dell’università (dove la situazione talora migliora per scarsa affluenza di alunni, talaltra peggiora di molto), è di stare quattro, cinque, sei o talora sette ore seduti su sedie piccole tra banchi stretti. Seduti e – preferibilmente- zitti (se non quando interrogati). È come tenere ogni giorno migliaia, milioni di cagnolini  legati alle proprie cucce mediante corde più forti delle corde fisiche. Di norma l’insegnante ha, nel corso della mattinata, qualche ora libera per fare due passi, fumare una sigaretta al giardino pubblico o curiosare in libreria: ai ragazzi è concesso  solo un intervallo di quindici minuti che, di solito, non basta per fare una coda al bar. Alunne e alunni si abituano così agli assetti prevalenti cui saranno sottoposti negli uffici pubblici e nelle aziende private: micro-spazi, con piccole scrivanie o parti di scrivania, da non abbandonare se non in casi di estrema necessità. Se, e quanto, ogni soggetto produca effettivamente, risulta quasi irrilevante2.

In alcune scuole secondarie superiori non è neppure previsto che i genitori possano firmare, a inizio d’anno, la liberatoria al dirigente scolastico per consentirgli di autorizzare l’uscita dal recinto della scuola3. È vero, comunque, che i dirigenti sono intimoriti dal fatto che le norme sulla sicurezza – previste dal Codice civile – vengono applicate al caso degli edifici scolastici senza nessun adattamento: giuristi e legislatori dovrebbero preoccuparsi di capire la specificità di quei contesti e agire di conseguenza.

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Inevitabilmente la considerazione degli spazi si intreccia con la considerazione dei tempi: la scuola prevede per i minori dei tempi di lavoro (tra lezioni in aula e compiti a casa, non meno di nove-dieci ore) che la società ritiene insopportabili per gli adulti. Quanto tempo resta all’allievo per ascoltare musica, fare sport, uscire con gli amici, amoreggiare con la coetanea preferita, leggere un romanzo, andare al cinema, conversare con i nonni o – semplicemente – apprendere la preziosa lezione della noia? In teoria poco o niente. In pratica vige una sorta di patto inespresso: tu docente continui ad assegnarmi pagine di traduzione dal greco o equazioni di secondo grado da risolvere; io a casa faccio quello che posso; il giorno dopo ti riferisco ciò che ho potuto imparare secondo la mia capacità soggettiva di sopportazione (e di ambizione); tu mi fai una tiratina d’orecchie, magari metti un voto inferiore alla sufficienza e, poi, agli scrutini finali, dal 4 al 5 tutti i voti passano “d’ufficio” (in genere su proposta del dirigente scolastico o del suo vice o del docente di religione) a 6. Le apparenze della legalità sono salve: della sostanza etica di una relazione ipocrita, nei due sensi, chi se n’importa davvero?4

Se non si considera il peso psicologico di questi tempi da dedicare ai “compiti” scolastici  – di cui i compiti “per casa” sono solo una parte -, non si giustificano le urla di giubilo ogni volta che a una classe viene comunicata una giornata di vacanza imprevista o anche solo il taglio di un’ora o due dovuto al malessere fisico di un insegnante (persino benvoluto): non si tratta di sadismo, ma di legittima difesa. Dietro motivazioni ideologiche – anche contradditorie – in nome delle quali si organizzano “cortei”, “scioperi”, “occupazioni”…gli adulti onesti (docenti e genitori in primis, ma anche giornalisti e commentatori) dovrebbero riconoscere l’insofferenza accumulata da ragazzini sottoposti a ritmi di lavoro ingiustificabili sia dal punto di vista medico che psico-pedagogico.

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Spazi stretti e carichi di lavoro sproporzionati poggiano su una determinata filosofia dello studio: che, sin dai primissimi anni, viene presentato come un obbligo, un dovere. Un imperativo morale, almeno ipotetico: se vuoi trovare un lavoro qualificato, devi studiare. In questa prospettiva l’essenziale (il gusto dell’apprendere, la gioia di conoscere, la liberazione dalle angustie mentali dell’ignoranza) diventa un optional: la scena è conquistata (anche nella valutazione sociale) da effetti collaterali secondari quali la fatica, la perseveranza, la puntualità, la pazienza. Non senza ragioni, Gianni Rodari osservava che «nelle nostre scuole, generalmente parlando, si ride troppo poco. L’idea che l’educazione della mente debba essere una cosa tetra è tra le più difficili da combattere»5.

La “scuola dell’obbligo” non è cancellabile perché sino a una certa età il soggetto non è in grado di capire cosa significhi davvero studiare: ma oltre un certo limite anagrafico dev’essere chiaro che poter studiare è un diritto che non abolisce il diritto all’ignoranza. Siamo alla radice della questione: l’organizzazione scolastica attuale è incompatibile con una visione dello studio quale privilegio esistenziale. Una società è ingiusta quando nega questo privilegio a chi non ha i soldi e quando lo impone – tenta, invano, di imporlo, con metodi polizieschi – a chi ha i soldi, ma non l’apprezza. La scuola si chiama così dal greco scholé che, in latino, si traduce otium: siamo riusciti a trasformarla – a deformarla – in un luogo di negazione dell’otium, di neg-otium. Nel luogo della fatica, della competizione, del perenne “a-che-mi-serve?”. Nessuna meraviglia, dunque, se raramente essa sforna alunni innamorati di qualcuna delle discipline (termine che già da solo meriterebbe qualche approfondimento critico !) previste dai programmi.

Quando ciò accade, questi innamorati dovrebbero essere individuati e reclutati come i  nuovi docenti. Ma qui si chiude il cerchio infernale. Una scuola-caserma (il riferimento agli universi concentrazionari di Foucault è scontato)  non ha bisogno di poeti della matematica, di scienziati della letteratura, di appassionati delle arti figurative; né costoro accettano – di norma – di entrare a lavorare in un ambiente asfittico che non li gratifica né socialmente né economicamente. Tra i dieci migliori alunni di ogni classe è già tanto se almeno uno decide di abbracciare l’insegnamento nelle scuole medie (unica carriera al mondo in cui la progressione è possibile solo…cambiando mestiere: da docente a dirigente scolastico. Neppure tra i preti è così e già all’università ci sono fasce di docenza scalari6). La scuola che sogno è una scuola che abbandona l’illusione di poter “formare” gli insegnanti: si preoccupa, invece, di “riconoscerli” e di trattenerli come la risorsa più preziosa.  A meno che si accontenti di affidare le generazioni a burocrati diligenti, fedeli trasmettitori di contenuti appresi con ascetici “sacrifici” e restituiti con puntigliose, noiosissime, tecniche (sinceramente convinti che le innovazioni telematiche  possano regalare alla relazione pedagogico-didattica proprio quell’anima che essi solo potrebbero conferire).

 

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Note

1 Esperienze biografiche e considerazioni politico-pedagogiche che non riprendo in queste pagine sono rintracciabili nel mio saggio La scuola che ho trovato, la scuola che lascio in   “Annali” del Liceo classico G. Garibaldi di Palermo, Anni 2002 – 2009 (nn. 38 – 45), Maggio 2011 , pp. 234 – 239.

2 Alcune aziende nel mondo dei computer stanno sperimentando assetti rivoluzionari: gli impiegati – tutti, non solo i quadri dirigenti – possono alzarsi, passeggiare in veranda, andare a giocare un po’ al tennis da tavolo con qualche collega, quando vogliono. Questa elasticità nei movimenti consente loro di sgranchirsi, insieme ai muscoli, anche i neuroni: alla fine della giornata, o del mese, saranno valutati in base ai risultati raggiunti, non alla resistenza psico-fisica nel restare inchiodati alla propria postazione di lavoro.

3 Un anno, in un istituto tecnico femminile di Acireale, ho dovuto affrontare una battaglia per far ritirare dal dirigente scolastico la circolare con cui imponeva a ragazze tra i quattordici e i venti anni di trascorrere il quarto d’ora di “ricreazione” addirittura nell’aula stessa ! “Se Lei si assume la responsabilità di accompagnarle in giardino, lo faccia pure a suo rischio”. Ero al mio primo anno d’insegnante in ruolo: da allora ho sempre sfruttato tutte le occasioni per fare lezione in luoghi aperti, adiacenti l’edificio scolastico, o anche chiusi ma più ampi (come aula magna o biblioteca) . Inoltre, dovunque ci trovassimo, ho concordato con gli alunni che potessero alzarsi, uscire e ritornare dall’aula senza chiedermi permesso, purché non più di due per volta. Chi permaneva troppo a lungo, bloccava i compagni in aula e – in ogni caso – rivelava con il suo comportamento abituale il grado di interesse e di partecipazione al processo di apprendimento. Nel prosieguo degli anni, più di un ex-alunno mi ha poi confidato che questa possibilità di prendere fiato, senza dover contrattare il permesso di volta in volta con l’insegnante (dichiarando di aver bisogno del bagno anche quando il bisogno era solo di una boccata d’aria), lo aveva responsabilizzato molto più dei divieti sistemici dei miei colleghi.

4 Personalmente ho potuto fare poco in questo campo: come auspicavo (invano) dai miei colleghi, mi limitavo a lasciare per casa un carico di lavoro che, ai fini della sufficienza (dunque della preparazione intelligentemente manualistica), non superasse i 30 minuti. Chi aveva desiderio sincero, o semplicemente interesse a voti più alti della piena sufficienza (6-7), poteva chiedermi dei testi extra-scolastici da leggere e recensire o in classe a voce alta o per iscritto.

5 G. Rodari, Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie, Einaudi, Torino 1978, p. 22.

6 Nell’opinione comune, rafforzata dai criteri attuali di remunerazione economica, la “carriera” di un docente si misura prima sulla base del grado di scuola in cui insegna (materna, elementare, secondaria inferiore, secondaria superiore), poi in base al “salto” o all’università o alla dirigenza di un istituto. Chi conosce la vita effettiva nelle aule sa che la professionalità di un insegnante di scuola primaria ha una specificità che andrebbe valorizzata, incrementata e riconosciuta perché non è per nulla “inverata” (e superata) dalla professionalità di un docente liceale (che invece, per il solo fatto che insegna ad alunni di età maggiore ottiene uno stipendio più alto e un più alto riconoscimento sociale). In generale, poi, la professionalità – e dunque anche i carismi specifici di un insegnante, in quanto pedagogo –  non  sono assimilabili alla professionalità di un docente universitario, cui è richiesto un livello di approfondimento scientifico e specialistico non necessariamente (pur se auspicabilmente) accompagnato da una capacità pedagogico-didattica. Ancora più netta la differenza professionale fra un docente (di qualsiasi ordine e grado) e un dirigente scolastico: quest’ultimo può essere (come spesso è in origine) un mediocre o pessimo insegnante e svolgere le funzioni dirigenziali in maniera dignitosa se non egregia (almeno quando possiede un minimo di sensibilità pedagogica). Viceversa l’esperienza ci consegna bravi, talora ottimi, insegnanti che – pur di ottenere quei miglioramenti retributivi e di rispettabilità sociale che non sono altrimenti ottenibili secondo l’organizzazione attuale della scuola –  si imbarcano nella carriera di dirigenti scolastici con risultati patetici (cfr. il dossier da me curato, Presidi da bocciare, Di Girolamo, Trapani 2010). L’unica alternativa seria a questo regime tanto demotivante sarebbe l’istituzione, per ogni grado di scuola, di una triplice fascia: ordinari, esperti, eminenti. Ogni insegnante comincerebbe come ordinario, nella scuola materna come al liceo; dopo un certo numero di anni potrebbe chiedere il passaggio alla fascia successiva (sulla base di pubblicazioni sul proprio ambito di docenza, del giudizio segreto del comitato di valutazione dei suoi colleghi e di un comitato di genitori – sino alla terza media – o di alunni – nel quinquennio successivo e all’università). Dopo un altro periodo di servizio potrebbe chiedere, infine, il passaggio alla terza fascia (sulla base dei criteri validi per l’accesso alla seconda fascia, ma anche di un colloquio con colleghi già dichiarati “eminenti”, con cui confrontarsi pubblicamente). L’accesso a questa terza fascia costituirebbe un momento di gratificazione per il collega che si sia esposto liberamente a questo discernimento collettivo, ma  anche una sorta di festa per la comunità scolastica che avrebbe saputo attrarre, stimolare, trattenere nella propria cerchia una personalità così preziosa. Così, in qualche decennio, diventerebbe normale che ci siano insegnanti di scuola primaria che godano del prestigio e dello stipendio di docente “eminente” e docenti di liceo o di istituti universitari che godano del prestigio e dello stipendio di docenti “ordinari” o “esperti”. Aggiungo di non essere così ingenuo da ignorare che ipotesi come questa che propongo solleverebbero l’opposizione inferocita di partiti e sindacati (realmente o sedicenti) progressisti, dunque dell’area politico-culturale in cui mi riconosco; ma è dal 1968 che i miei compagni di strada rifiutano idee valide di cui si appropriano, distorcendone il senso, partiti e organizzazioni sindacali di ispirazione conservatrice o reazionaria; per poi, dopo decenni, rivendicare quelle stesse idee e recepirle nella versione più bieca possibile. Le disavventure, tuttora attuali, della categoria “meritocrazia” sarebbero in proposito estremamente significative.

 

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