La nuova scienza in Italia nel primo Settecento
Nell’Italia di inizio Settecento la nuova scienza non si impose in modo uniforme in tutta la penisola ed ebbe i suoi maggiori centri di diffusione, limitandosi ai più noti, nelle città di Bologna, Padova, Firenze, Pisa, Roma e Napoli, alle quali se ne potevano aggiungere altre minori ma culturalmente vivaci, come, per esempio, Modena e Livorno.
L’ambiente bolognese aveva annoverato, nella seconda metà del Seicento, personaggi come Anton Felice Marsili, Geminiano Montanari, Domenico Guglielmini e Marcello Malpighi e poteva contare, a inizio Settecento, sull’opera di Luigi Ferdinando Marsili, Anton Maria Valsalva, Giovanni Battista Morgagni, Eustachio e Gabriele Manfredi, Vittorio Francesco Stancari, Jacopo Bartolomeo Beccari, Matteo Bazzani, Francesco Maria Zanotti e sulla straordinaria esperienza dell’Accademia degli Inquieti, successivamente trasformatasi, grazie al progetto di Marsili, nella celebre Accademia ed Istituto delle Scienze, concepita nella prospettiva delle più avanzate accademie scientifiche del tempo, con particolare riguardo alla Royal Society, con la quale l’ambiente bolognese intratteneva rapporti privilegiati. Legami che si aggiungevano a quelli in essere con l’Académie des Sciences a partire dal 1669, quando Colbert si garantì le competenze e il talento di Giovanni Domenico Cassini, nominandolo direttore del nuovo Osservatorio astronomico di Parigi, dando così nel contempo avvio all’instaurarsi di una dinastia di intellettuali della famiglia Cassini ai vertici della scienza ufficiale francese.
La diffusione dei nuovi principi si realizzò in modo avvertito a Bologna dopo il 1660, grazie soprattutto all’opera di Malpighi, Giovanni Domenico Cassini e Montanari, e assunse prima la forma del richiamo ai metodi dell’Accademia del Cimento e, poi, a quelli della Royal Society. Col passare del tempo il modello dell’accademia inglese acquistò sempre maggior prestigio e il suo progetto baconiano di realizzazione di una storia naturale universale, propagandato agli scienziati bolognesi da Henry Oldenburg, venne fatto proprio e perseguito dai migliori di essi, quali Malpighi e Luigi Ferdinando Marsili, che tentò di organizzare l’Istituto delle Scienze su quel modello.
Un altro punto di riferimento fu, come si è visto, l’Académie des Sciences e il suo concetto di utilità pratica e sociale della ricerca. Soprattutto dopo che Giovanni Domenico Cassini assunse la direzione dell’Osservatorio astronomico di Parigi, i collegamenti con la scienza francese divennero assai intensi. L’influenza di Cassini su Montanari, Guglielmini ed Eustachio Manfredi fu profonda e l’intero ambiente bolognese ottenne un grande giovamento dal rapporto con un centro, come quello parigino, all’avanguardia nella ricerca scientifica. Notevole fu l’ascendente esercitato da Cassini anche su Luigi Ferdinando Marsili, che ne condivideva la concezione strumentale dell’astronomia e che venne supportato tecnicamente da quello nel compito di attrezzare l’Osservatorio realizzato su Palazzo Marsili, e, successivamente, sostenuto moralmente e scientificamente nel progetto e nella realizzazione dell’Istituto delle Scienze.
L’attività dell’Istituto costituì un elemento determinante nello stimolare la ricerca scientifica degli ambienti progressisti di Bologna, dove mantenne sempre un ruolo prioritario lo sperimentalismo di tradizione galileiana, gassendista e baconiana, cosicché, a Settecento avanzato, la stessa concezione di razionalità rimandava ai modelli inglesi di carattere baconiano, newtoniano e lockiano. L’attitudine sperimentale coltivata nell’ambiente legato all’Istituto delle Scienze portò Bologna a divenire un centro di ricerca assai prestigioso, al quale spesso si rivolgevano i giovani ricercatori per completare la loro formazione, come, anche, le istituzioni della penisola e quelle straniere, per trovare conferme ai loro dati d’osservazione o per avviare progetti comuni di ricerca e di studio.
Il collegamento europeo e il valore della ricerca bolognese possono essere compresi considerando il notevole livello di organizzazione e di riconoscimento ufficiale della scienza cittadina, determinato dall’opera svolta dall’Istituto delle Scienze, che raccolse l’eredità delle accademie scientifiche nate a Bologna nella seconda metà del Seicento e, in particolare, dell’Accademia degli Inquieti e che sorse con l’esplicito intento – in buona parte andato però disatteso – di integrare, sul piano sperimentale e osservativo, la riflessione teorica e i compiti formativi dell’Università.
All’Università di Padova la lungimiranza del governo veneto e dei Riformatori dello Studio si era impegnata in una politica di svecchiamento e di aggiornamento dell’insegnamento, che consentisse di superare l’egemonia aristotelica attraverso l’apertura a prestigiosi esponenti della nuova scienza, garantendo all’Università un’immagine di buon livello, capace di attrarre studenti italiani e stranieri. Pur fra molte resistenze degli ambienti scientifici e professionali conservatori, sulle cattedre di Padova giunsero studiosi di fama internazionale, che ne modificarono il clima culturale, come Stefano Degli Angeli (1663-1697), Carlo Rinaldini (1667-1698), Geminaino Montanari (1678-1687), Domenico Guglielmini (1698-1710), Bernardino Ramazzini (1700-1714), Antonio Vallisneri (1700-1730), Jakob Hermann (1707-1713), Giovanni Poleni (1709-1761), Giovanni Battista Morgagni (1711-1771), Nicolò I Bernoulli (1716-1719) e Carlo Francesco Cogrossi (1720-1738).
Dopo la condanna di Galileo, a Firenze e Pisa l’apertura degli orizzonti della ricerca si ridimensionò drasticamente, con il noto abbandono del terreno astronomico e fisico-interpretativo, che divenne appannaggio dei paesi europei dove l’azione della Controriforma non poteva svolgersi, e fu sostituito da un empirismo descrittivo o, in presenza di modelli meccanicistici con una rilevante dimensione interpretativa, da terreni di ricerca più neutri rispetto a quelli maggiormente passibili di conflitti con l’ortodossia cattolica. Tale scelta fu esiziale per lo sviluppo di alcune discipline, che rimasero pressoché bloccate e dipendenti, nei decenni successivi, dagli aggiornamenti che giungevano da oltralpe, ma privilegiò altri ambiti e diede i propri migliori risultati nelle scienze naturalistiche e della vita, dove la dimensione osservativa e descrittiva aveva ancora una funzione preponderante.
Nonostante l’evidente decadenza rispetto al periodo precedente, gli ambienti scientifici di Firenze e Pisa continuavano tuttavia a rappresentare un punto fondamentale di riferimento della tradizione galileiana e sperimentalista, la cui eredità, rafforzata dall’esperienza dell’Accademia del Cimento, continuava ad essere viva e operante ed era interpretata da autori come Giovanni Alfonso Borelli Francesco Redi, Lorenzo Bellini, Giuseppe Del Papa, Stefano Lorenzini, Antonio Francesco Bertini, Giuseppe Zambeccari, Michelangelo Tilli, Alessandro e Angelo Marchetti e Guido Grandi.
La connotazione curiale del governo e la sua forte influenza sulla vita sociale e culturale non impedirono all’ambiente scientifico romano di presentare aspetti di notevole vitalità e di adesione ai modelli della nuova scienza. Sin dai tempi delle prime controversie galileiane, un gruppo di ecclesiastici sposò le tesi sperimentaliste e antiaristoteliche del pisano e lavorò inizialmente, senza successo, per impedirne la condanna e, poi, con maggiori risultati, per mantenerne vivo l’insegnamento, anche se in forme principalmente occulte e private. Le stesse precoci esperienze del giornalismo erudito, con le due edizioni, in parte contemporanee, del «Giornale de’ letterati di Roma» (1668-1683) di Francesco Nazari e Giustino Ciampini, favorirono la diffusione di una mentalità progressista e i collegamenti con le più evolute realtà europee, come provano, fra le altre cose, le numerose traduzioni integrali di estratti del «Journal des Sçavans» e delle «Philosophical Transactions» pubblicate sui due periodici.
La pubblicazione, nel 1680-1681, del De motu animalium di Borelli e la chiamata, nel 1691, di Malpighi come medico di Innocenzo XII diedero un notevole impulso alla diffusione della scienza galileiana e aprirono la città a una nuova prospettiva nelle scienze della vita, che si sostanziò, nei primi anni del Settecento, negli studi e nelle opere di Giorgio Baglivi e di Giovanni Maria Lancisi. Sempre in quegli anni appaiono rilevanti gli studi scientifici coltivati da Francesco Bianchini e Celestino Galiani, nella cui cella monastica si riunì, tra il 1708 e il 1720, un nutrito gruppo di studiosi, che rimase in contatto con la miglior cultura europea, soprattutto inglese, discutendola ad alti livelli.
Pure alcune figure di aristotelici gesuiti, come quelle di Filippo Buonanni e di Athanasius Kircher, con l’eccellenza delle ricerche microscopiche il primo, con l’originalità e la vastità dei suoi studi il secondo, contribuirono a dare profondità e rilievo alla scienza romana postgalileiana.
La diffusione della nuova scienza a Napoli aveva avuto un notevole incremento con l’arrivo in città, nel 1649, di Tommaso Cornelio, che promosse la penetrazione delle tesi galileiane, ma anche cartesiane e gassendiste. Cornelio fu uno dei fondatori dell’Accademia degli Investiganti, che, negli anni della sua attività, dal 1663 al 1670, fu al centro di accesi dibattiti e fu fatta oggetto di continue polemiche da parte dei tradizionalisti. Ai lavori dell’Accademia parteciparono i più noti intellettuali novatori della città, quali Leonardo di Capua, Lucantonio Porzio, Francesco d’Andrea, Sebastiano Bartoli e Luca Tozzi, che continuarono, anche dopo la sua chiusura, a sviluppare una riflessione molto articolata, moderna ed antiaristotelica, ma spesso diversificata dalle tesi galileiane. Il dibattito si presentava estremamente vario e complesso, raccogliendo impostazioni di carattere essenzialmente meccanicistico, quali quelle di Borelli e di Descartes, a loro volta però non sovrapponibili senza riserve, e di natura chimica, vitalistica e metafisica, che andavano da van Helmont a Thomas Willis. Cornelio, con Descartes e contro Galileo, escludeva l’esistenza del vuoto affermando quella dell’etere e faceva dipendere la vita dalla presenza nel sangue di spiriti o aliti sottilissimi in perpetuo movimento; Bortoli identificava la vita con la luce, elemento ai limiti tra il materiale e lo spirituale; Di Capua la risolveva nel complesso delle operazioni vitali. Porzio, in varie opere pubblicate in tempi diversi, intervenne su posizioni meccanicistiche, che sostennero le sue concezioni fisiologiche, patologiche e terapeutiche, portandolo a vedere nella respirazione un fatto meccanico, nella digestione un fenomeno di fermentazione e separazione, nella febbre l’alterazione del movimento del cuore e del sangue, nei tumori un impedimento al flusso del sangue o di altre sostanze liquide e a concepire l’azione del medico come un’opera di restaurazione delle strutture e dei rapporti fisici alterati dell’organismo vivente.
Nel periodo che seguì la stagione investigante e nei primi decenni del Settecento l’eterogeneità e la varietà delle posizioni dei novatori ebbe un’ulteriore accentuazione. Da Lorenzo Ciccarelli a Giuseppe Valletta, da Costantino Grimaldi a Bartolomeo Intieri e a Giacinto Gimma vennero infatti molti sforzi di svecchiamento della cultura cittadina, che costituirono le premesse della successiva stagione illuministica, ma che non furono certo sempre coerenti col pensiero scientifico europeo moderno, come nel caso di Gimma, che non esitava a utilizzare tesi di Kircher al fine di integrare e sorreggere lo sperimentalismo baconiano e galileiano e che, insieme a teorie di Descartes, Baglivi, Boyle e Gassendi, non disdegnava di considerare idee di Plinio, Patrizi, Cardano e Della Porta.
Il clima culturale modenese fu fortemente influenzato dai soggiorni di Geminiano Montanari e di Benedetto Bacchini, il quale ultimo, fra le altre cose, diede vita all’importante esperienza periodica erudita del «Giornale de’ letterati d’Italia», che si svolse dal 1686 al 1690 a Parma e dal 1692 al 1697 a Modena. Nella capitale del Ducato Estense operarono successivamente personaggi rappresentativi della nuova scienza, quali Bernardino Ramazzini, Francesco Torti e Domenico de’ Corradi d’Austria, mentre Livorno poté contare sull’originale figura di Diacinto Cestoni.
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