Proust e i segni
La traccia individuata e seguita da Deleuze per dipanare un itinerario all’interno della Recherche è il segno. L’opera proustiana è una mirabile distesa di geroglifici codificati dall’autore e offerti al lettore per essere decrittati. La realtà è per lo più costituita di frammenti semantici da raccogliere, interpretare e organizzare. I frustoli fenomenici sono il basamento su cui ogni opera letteraria (e dunque ogni opera artistica stricto sensu) deve edificarsi. I segni sono sparsi confusamente nel mondo e ciò che li sostanzia, ovvero la loro reciproca differenza, deve essere ordinata e infine ricomposta. La differenza intrinsecamente temporale tra il passato e il presente rammemorante, il materiale e lo spirituale, il reale e l’ideale, accade nel soggetto che letteralmentefa arte e che compone la sua opera facendone scrittura.
All’altezza di questo primo nodo argomentativo la creazione artistica si rivela come interpretazione. L’opera d’arte è un continuo rimando fondato sulla differenza, un inesausto farsi cenno (come nelle solenni celebrazioni mondane a cui l’autore partecipa e di cui è arguto testimone), un’ermeneutica del sospetto e della diffidenza verso il proprio oggetto amoroso. Il punto apicale dell’interpretazione proposta da Deleuze è, coerentemente con l’esatta analitica proustiana, il nugolo di segni amorosi che costituiscono la più alta forma di raffinatezza in tutto l’apparato umano della Recherche. I segni amorosi sono menzogne costruite dal soggetto e che egli appone ai segni mondani, materiali e sensibili. L’amore è, infatti, la più produttiva delle ermeneutiche. Non interpreta i segni che il reale fenomenico offre allo sguardo che fenomenologicamente indugia su di esso; altresì, l’amore crea i suoi segni, dota i suoi oggetti di qualità e simbologie che essi costitutivamente non possiedono. È per questa ragione che sono menzogne; sono falsità poiché integralmente prodotte dal soggetto innamorato. Sembra essere questa la radice del peccato ontologico dell’amore in quanto interpretazione di menzogne, ovvero ciò che induce Deleuze a scrivere: «Il suo destino sta tutto nel motto: amare senza essere amato»1. L’amore secondo questa logica è una ermeneutica tautologica e autoreferenziale. Nomen omen, il fallimento è inscritto nella sua stessa definizione.
Diversamente dai segni amorosi i segni materiali, sensibili e spirituali obbediscono a tutt’altra legge. La madeleine, unitamente agli altri segni disseminati come segnavia lungo tutto il percorso del romanzo, è il segno la cui interpretazione sensibile schiude il passato in cui essa era un segno significativo. In questo modo, l’interpretazione si configura come le attività stagionali e bipartite dell’agricoltore, il quale con il movimento d’andata getta la semenza e con quello di ritorno raccoglie quanto fruttificato.
Il soggetto proustiano è il seminatore folgorato dalla fruttificazione di un campo di cui aveva rimosso la semina. L’interpretazione è una semina di pezzi d’anima temporali infitti nel terreno della memoria che, con una nuova semina simile alla precedente, retrocede fino al campo più originario. Il segno sensibile correttamente inteso diviene spirituale quando l’ermeneutica compie a ritroso e in un solo istante tutto il percorso, che ha forma circolare. Quella è la manifestazione dell’eternità, la quale si concede in istanti poiché riusciamo a sopportarne soltanto barlumi. Il romanzo proustiano è la ricerca estroflessa, e a tratti estemporanea, dell’infanzia perduta, l’eternità mai cangiante e per questo sofferente in cui la giovinezza è per qualche tempo un perenne presente.
Tuttavia, insieme al segno isolato della madeleine seminato anni e anni addietro, risorge dal passato l’inizio dell’odissea proustiana, il ritorno doloroso e nostalgico a partire dal quale comincia tutta l’opera, un cammino lungo una vita intera costellato non soltanto di segni ma soprattutto di ciò che si cela dietro di essi, quelle che per Proust sono le essenzeeterne. C’è un altro mondo anteposto a quello dei segni e corrisponde al noumenico mondo dell’arte, il quale «è appunto il mondo estremo dei segni; e questi, in quanto smaterializzati, trovano il loro senso in una essenza ideale»2.
L’essenza ideale è ciò a cui Proust ambisce in tutta l’opera, ciò verso cui invola in vista della grande rivelazione del ricevimento finale e nuovamente iniziale. La decifrazione dei segni sensibili, per quanto importante e calorosa, sarà sempre una veduta parziale del reale. Nel recupero tortuoso e turbinoso dei ricordi non è minimamente coinvolto l’intelletto, il quale in apparenza abdica al trono della preminenza teoretica in favore della percezione. I sensi captano i segni materiali senza il coinvolgimento dell’intelletto ma, nota Deleuze, l’ultimo atto rimane di pertinenza del secondo.
La percezione afferisce sì all’oggetto ma è l’intelletto a essere la facoltà di ricerca dell’oggettività1, quando per oggettività si intende lo svelamento, la cattura e la costruzione di ciò che è astratto, eterno e dunque ideale. In altre parole, senza la percezione la madeleine della memoria non sarebbe mai stata ritrovata; senza l’intelletto l’idealità essenziale di Combray non sarebbe mai venuta alla luce. L’intelligenza è ciò che oggettiva i processi percettivi e il loro contenuto sensibile e fenomenico; essa struttura il discorso artistico sulla riscoperta degli enti da parte della percezione sensibile e involontaria. In altri termini, l’intelligenza elabora in forma letteraria l’ideale che si annida nel reale intramato di materia e spirito, segno ed eterno.
È molto interessante a questo proposito la riflessione di Deleuze sulla filosofia in quanto anelito all’assoluta oggettività, posizione quest’ultima fortemente criticata da Proust. La coppia concettuale osteggiata nella Rechercheè, secondo Deleuze, quella formata da amicizia e filosofia, alla quale sarebbe da sostituire il duopolio di amore e arte. Deleuze illustra che per Proust il fondamentale non è ciò che si pensa, bensì ciò che dà da pensare; da ciò discende, in una pagina ancora gravida, una riflessione intimamente proustiana che Deleuze formula con straordinaria chiarezza:
Vale più un amore mediocre di una grande amicizia: perché l’amore è ricco di segni e si nutre d’interpretazione silenziosa. Vale più un’opera d’arte di un’opera filosofica; perché ciò che è implicito nel segno è più profondo di tutti i significati espliciti4.
Un’opera d’arte propriamente tale è perciò un’opera innamorata, un’opera che falsifica il reale traendo da esso la materia sensibile per la sua esibizione. Una falsificazione che, ciò nonostante, non è una menzogna artatamente costruita per depistare il lettore o ritorcere in modo capzioso il mondo sull’opera. La letteratura proustiana falsifica dando forma all’eccesso di realtà soggettiva che l’oggettività materiale restituita dalla percezione non sopporta; sicché, l’aumento del reale è l’operazione artistica che eleva i segni al rango di essenze, che trasforma il concreto in astratto e che profonde la rinvenuta essenza in un’eternità ideale. L’arte è la riparazione alla delusione oggettuale del reale che l’autore compensa con l’ideale oggettivo della sua soggettività.
La meta-fisica proustiana può essere, alla luce di quanto esposto, articolata nel modo che segue:
– I segni sensibili e mondani sono volatili annunciazioni di una verità più generale che serve raccogliere. Essi sono le profezie materiche di un mondo iperuranico essenziale ed eterno.
– I segni amorosi sono la delusione della materia, la costruzione della soggettività e la necessaria falsificazione individuale da operare affinché l’essenza possa essere divelta.
– Entrambe le tipologie di segni sono metaforedi una verità di livello ontologicamente superiore che sostanziano l’opera d’arte e che solo quest’ultima è in grado di esprimere.
I segni sensibili e mondani sono le metafore di una forma d’eternità più generale che consiste nel decisivo e vero e proprio ritrovamento; i segni amorosi sono le metafore dell’eternità in quanto frutto di produzione e costruzione; i segni artistici o, per meglio dire, il segno artistico generale in cui l’intero si raccoglie, è l’opera letteraria, la soglia dell’eternità. L’attività che ottempera a questi tre momenti ermeneutici è la scrittura, il cui approdo è l’intero libro. La Recherche, questo viaggio mistico e insieme liberatorio, è essa stessa l’essenza ideale di cui ogni cosa al suo interno è soltanto una prefigurazione parziale.
Il tempo è stato ritrovato poiché è stato scritto, e con esso anche il tempo della vita. La scrittura è la sublimazione vitale dell’esistenza in cui a essere protagonista non è una soggettività particolare che si barcamena tra gli anfratti della memoria di un singolo individuo; essa è l’esibizione di una coscienza formale che illumina la teoresi di una temporalità assoluta. Essa è salvezza, poiché attraverso la scrittura artistica tutto ciò che è stato significativo può risparmiarsi; è redenzione poiché l’arte ha trasformato la materia rendendola spirituale. La Recherche, usando la nota immagine benjaminiana dell’angelo kleeiano, è il cammino percorso all’indietro voltando le spalle al futuro ma dirigendosi verso di esso; a ogni passo si interpreta un segno, a ogni sguardo si scrive una frase.
Segno e frase costituiscono l’essenziale formale di Proust, la sua somma eleganza e il suo stile. Lo stile è tutto per Proust, poiché in esso confluiscono tutte le istanze sopra elencate; è grumo di memoria, materia esperienziale, riflessione, forma, idea e tempo. Lo stile di Proust è quella giovinezza mai sfiorente che trova posto nel tempio della parola scritta, è il presentimento in cui accade la trascendenza verso l’essenza, è la radura dell’essere in cui vita vissuta e forma ideale si coniugano insieme e da cui, infine, scaturisce la gioia. La jouissance, infatti, si ottiene quando si è giunti quasi al termine del faticoso cammino dello stile; è il momento in cui si dà uno sguardo conclusivo a tutto ciò che si è percorso volgendosi verso il caro viso giovanile di Mademoiselle de Saint-Loup. A partire da questo momento-luogo si ritrova la forza per voltarsi e mettersi in cammino non più verso il tempo perduto, poiché quello lo si è già percorso, bensì verso l’eternità che il tempo ritrovato nella scrittura ha consentito di riottenere.
Proust, seguendo la sintesi di Deleuze, consegna quest’ultima verità:
Tutto è implicato, tutto complicato, tutto è segno, senso, essenza. Tutto resta in quelle zone oscure dove penetriamo come in cripte, per decifrarvi geroglifici e linguaggi segreti. In ogni campo, l’egittologo è chi percorre la via di una iniziazione – l’apprendista5.
Lo stile che Proust suggerisce, il viaggio cosmico di stella in stella che permette di armonizzare e dare voce alla pluralità di stili che afferiscono a ciascun mondo-vita, è fatto di metafore e anticipazioni, di liberazione spirituale delle anime che risiedono nelle celle materiali, di gelosia che costruisce e dipana i mondi dell’amato, di arte che rammemora e che rammemorando scrive. Diviene a questo punto ormai chiaro, troppo chiaro, il noto passo proustiano per cui «la vera vita, la vita finalmente scoperta e messa in luce, di conseguenza la sola vita realmente vissuta, è la letteratura»6. La letteratura e la sua attività di produzione, la scrittura, divengono così l’immagine del pensiero e l’immagine reale del tempo vissuto salvato e redento.
Deleuze, in conclusione del suo scritto, sintetizza il senso di tutta la sua panoramica sulla Recherche: «Pensare è dunque interpretare, è dunque tradurre. Le essenze sono ad un tempo la cosa da tradurre e la traduzione, il segno e il senso»7. Questa riflessione intimamente teoretica sulle fondamenta dell’ermeneutica appare come l’espressione sensibile di un’eco proustiana:
Mi accorgevo che quel libro essenziale, il solo libro vero, un grande scrittore non debba inventarselo, nel senso comune del termine, bensì tradurlo, perché esiste già in ciascuno di noi. Il dovere e il compito di uno scrittore sono quelli di un traduttore8.
L’ermeneutica è tradurre l’essere in parole, farne una scrittura in cui dimorare nella luce.
Note
1 G. Deleuze, Proust e i segni(Marcel Proust et les signes, 1964), trad. di C. Lusignoli, Einaudi, Torino 1967, p. 12.
2 Ivi, p. 16.
3 Cfr. ivi, p. 31.
4 Ivi, p. 32.
5 Ivi, p. 88.
6 M. Proust, Il tempo ritrovato (Le temps retruové, 1927), trad. di M. T. Nessi Somaini, Bur, Milano 2012, p. 280.
7 G. Deleuze, Proust e i segni, cit., p. 96.
8 M. Proust, Il tempo ritrovato, cit., p. 274.
Gilles Deleuze
PROUST E I SEGNI
(Marcel Proust et ele signes, 1964)
Trad. di C. Lusignoli
Einaudi
Torino 1967
Pagine 96
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