Insegnare le filosofie e a filosofare

Di: Augusto Cavadi
3 Agosto 2010

L’eredità hegeliana nel sistema italiano

In Italia torna, puntuale come la primavera, il dilemma suggerito da una celebre frase di Kant: bisogna insegnare le filosofie oppure a filosofare?

Nelle scuole medie superiori dove esiste, anzi resiste (non per molto, temo, data l’egemonia del modello didattico anglosassone che ama privilegiare le discipline utili: l’attuale capo del governo, Silvio Berlusconi, ha spiegato una volta che la sua scuola ideale è imperniata sulle tre “i” di “inglese, internet, impresa”) questa materia viene insegnata, sostanzialmente, secondo il taglio della riforma Gentile: i programmi e i manuali scolastici la presentano come storia della filosofia. La convinzione sottintesa è che la filosofia sia identica alla storia della filosofia: che la filosofia si svolga, si squaderni, con una logica propria, nella storia e solo nella storia. Insomma: la filosofia che fonda e ispira l’attuale impianto pedagogico-didattico della filosofia (come di tutte le altre discipline umanistiche) è lo storicismo. Lo stesso terremoto culturale del 1968 -da cui, a mio avviso, il sistema dell’istruzione è riemerso con molti danni, ma anche con almeno altrettanti vantaggi- ha messo in discussione non il sostantivo (‘storicismo’)- bensì l’aggettivo che, da ‘hegeliano’, è diventato, piuttosto, ‘marxista’.

Tuttavia -per ragioni complesse ma in larga parte facilmente intuibili- anche il materialismo storico-dialettico, che aveva messo in ombra l’idealismo, negli ultimi venticinque anni si è eclissato e sempre più frequentemente gli insegnanti si chiedono se la prospettiva diacronica sia davvero l’unica raccomandabile. Anch’io devo confessare che, in una certa fase della mia carriera docente, avevo ritenuto di sostituire il taglio storico-diacronico con una sperimentazione teoretico-sincronica. Incoraggiato dalla proposta ministeriale di due programmi di studio facoltativi (A e B), ho anche fondato e co-diretto una Collana editoriale di volumi redatti proprio in vista di una possibile adozione nelle scuole che avessero voluto transitare dal programma tradizionale (storia della filosofia) al programma nuovo (filosofia per problemi). Quando, però, ho sperimentato nelle mie classi gli strumenti predisposti (ero anche co-autore di tre dei sette volumi) mi sono accorto che l’operazione non funzionava bene: senza una informazione elementare di storia del pensiero occidentale, gli alunni non erano in grado di affrontare con sufficiente consapevolezza la discussione sui problemi filosofici fondamentali. D’altronde non era immaginabile che tornassi, come se nulla fosse accaduto, all’impostazione didattica precedente. Costretto dalla scomoda posizione di chi “non è più” su una sponda e “non è ancora” sulla riva opposta, ho provato a uscire dalla metà del guado con varie sperimentazioni. Ormai alle soglie del pensionamento, posso provare a rappresentare il quadro attuale della ratio della mia pratica didattica, di cui sarei insincero se mi dichiarassi del tutto insoddisfatto.

Intreccio fra prospettiva diacronica e prospettiva tematica

L’attuale ordinamento nazionale prevede, per ogni cattedra come la mia nei Licei a indirizzo classico-umanistico, sei ore di lezioni settimanali per ciascuna classe del triennio terminale (terza, quarta e quinta) prima dell’ingresso in una Facoltà universitaria. Nei Licei a indirizzo scientifico o linguistico o psico-pedagogico et cetera le ore sono, solitamente, un po’ di meno.

Dedico due ore alla storia (economica, sociale, politica, militare, culturale); un’ora all’educazione civica1; due ore alla storia della filosofia e un’ora alla filosofia.

Negli anni immediatamente precedenti al ’68, circolavano testi di storia della filosofia poco ‘appetibili’: schematici, nozionistici, privi di brani antologici tratti da ‘classici’. Da una ventina d’anni in qua, invece, circolano in Italia dei libri davvero ben fatti che offrono a docenti e discenti percorsi di studio nutriti da ‘personalizzare’2: testi che, con dosaggi diversi, provano a mantenere la ‘tradizionale’ prospettiva storico-diacronica senza rinunziare ad aprire delle finestre tematiche (sul problema dell’essere, della conoscenza, del linguaggio, della storia, della religione, del diritto, dell’arte). Qualche manuale scolastico aggiunge, in coda agli autori contemporanei, una parte tematica: la questione teologica, le domande politiche, gli interrogativi bio-etici et cetera. Altri autori, addirittura, hanno provato a organizzare l’esposizione storica dei filosofi del passato secondo blocchi tematici: il problema dell’essere (Parmenide, Eraclito, Platone, Aristotele); il problema dell’uomo (Sofisti, Socrate, Scuole Ellenistiche); il problema di Dio (Agostino, Tommaso d’Aquino, Giordano Bruno); il problema della conoscenza (Cartesio, Hobbes, Locke, Hume, Kant) e così via. L’esigenza di base è chiara: evitare che i ragazzi escano dai licei con la convinzione che la storia della filosofia sia una filastrocca di bizzarrie paradossali raccontata da un ubriaco in vena di umorismo.

Qualche precisazione sulla dimensione storico-diacronica

Ma, per rappresentare meno imperfettamente la situazione, è opportuno che si spenda qualche parola di chiarimento su queste due dimensioni, la storica e la teoretica. Non basta, infatti, dire che si studia la storia del pensiero occidentale; vanno anche specificate le soluzioni a una serie nutrita di quesiti: quando inizia il pensiero occidentale? Con Socrate o, prima, con i ‘sapienti’ come Talete o ancora prima con le teogonie e cosmogonie poetiche? Si possono ignorare del tutto le dottrine diffuse in Oriente prima e durante il V secolo a.C.? E si può passare dai classici greci ed ellenistici ai Padri e Dottori del Medioevo senza sfiorare, neppure en passant, le linee essenziali delle Scritture Sacre ebraiche, cristiane e islamiche? E quando ci si avvicina ai nostri giorni, ci si può limitare ai filosofi in senso stretto o si devono trattare anche pensatori (come Leopardi, Marx, Kierkegaard, Leone XIII, Darwin, Lenin, Freud, Adler, Jung, De Saussure, Barth, Gandhi, Einstein) che si sono autointerpretati come poeti, scienziati, “scrittori religiosi”, dirigenti di organizzazioni politiche o confessionali? La libertà d’insegnamento, garantita dalla Costituzione italiana, permette a ogni docente di dare a ciascuna di queste domande una risposta ‘personale’. Trovo la situazione auspicabile e, in ogni caso, inevitabile. Nessuna didattica mediamente seria consente, infatti, di affrontare tutti gli autori elencati nell’indice di un manuale: tagli, rinunzie, salti sono necessari, anche quando li si considera dolorosi.

Come se le domande sui contenuti non fossero abbastanza scottanti, se ne impongono altre di tipo metodologico: bisogna limitarsi alla trattazione sintetica, selettiva, ma chiara e ordinata del manuale o è opportuno che gli studenti abbiano un contatto diretto con i testi originali dei filosofi? E nei casi -ormai maggioritari- in cui si propendesse per la lettura dei ‘classici’, si deve partire dalle pagine del filosofo per poi tentarne di ricostruire il profilo o conviene piuttosto partire dalla presentazione manualistica delle sue opere e solo in un secondo momento sondare questo o quel brano, addirittura questa o quell’opera, scritti di suo pugno? Insomma: sono i ‘testi’ che devono fare da chiave per entrare nella prospettiva complessiva di un pensatore o, al contrario, deve essere una presentazione generale e sommaria di un pensatore a fare da chiave per entrare nelle sue pagine?

Neppure a queste domande sono date, nel sistema scolastico italiano, delle risposte univoche: né di diritto né, ancor meno, di fatto. Certo non mancano circolari ministeriali, saggi di studiosi, documenti di associazioni di docenti di filosofia ma, in pratica, ognuno fa quel che vuole. O, per lo meno, quel che può: sia in relazione alla propria preparazione (non dimentichiamo che molti insegnanti sono filosofi ‘costretti’ dall’ordinamento a insegnare anche ‘storia’ ed ‘educazione civica’, ma non mancano certo insegnanti appassionati di storia ‘costretti’ a insegnare anche ‘filosofia’) sia in relazione alle classi, alcune delle quali si entusiasmano alla lettura di un dialogo di Platone o di una lettera di Voltaire, mentre altre si annoiano palesemente. Anch’io navigo a vista e decido di classe in classe, talora di ora in ora. In genere preferisco di gran lunga assicurare a tutti gli alunni una presentazione sommaria del pensiero di un autore e affidare alla libera iniziativa dei singoli la lettura di qualche brano o di qualche opera intera; tuttavia, non appena intravedo qualche spiraglio di disponibilità almeno temporanea, non resisto alla tentazione di proporre come elemento costitutivo del programma ‘obbligatorio’ qualche capitolo del Discorso sul metodo o qualche sezione della Fenomenologia dello Spirito, nella mal celata speranza che l’aperitivo possa stuzzicare un più esigente appetito intellettuale.

Qualche precisazione sulla dimensione problematico-tematica

Ho voluto richiamare alcuni dilemmi pedagogico-didattici riguardanti la dimensione storico-diacronica dell’insegnamento della filosofia per dare un’idea della complessità della questione, almeno nel dibattito fra insegnanti italiani. Non certo più semplici si delineano i dilemmi pedagogico-didattici, se non addirittura già sostanzialmente filosofici, che riguardano l’altra dimensione dell’insegnamento: l’ambito problematico-tematico o, con un termine un po’ più impegnativo, teoretico. Ho già accennato sopra alle ragioni di questo asse d’interesse: la perdita di consensi da parte dello storicismo (hegeliano e poi anche marxista) ha moltiplicato nel mondo dei docenti il desiderio di non limitarsi a raccontare ai ragazzi la storia della filosofia, ma di provare anche a fare filosofia. Riprendendo e correggendo leggermente Kant, in molti di noi si è manifestato il proposito di insegnare le filosofie per sollecitare l’attitudine a filosofare.

Ma che significato si può attribuire al verbo ‘filosofare’ quando i soggetti in questione non sono degli adulti specializzati bensì degli adolescenti? Se in questi casi si parla di co-filosofare non si sta cedendo alla tentazione della demagogia? In effetti, l’impostazione universitaria (almeno in Italia) non lascia molto spazio fra due corni dell’alternativa ‘secca’: se non fai storia della filosofia, allora fai filosofia teoretica. Produci nuovi sistemi o, almeno, re-interpreti in maniera originale uno dei sistemi ‘classici’ che si sono guadagnati un posto d’onore nella galleria dei ‘modelli’. È evidente che, in una visione del genere, risulta semplicemente ridicolo ipotizzare uno studio della storia della filosofia in funzione di un’elaborazione filosofica personale da parte degli alunni.

Ma forse filosofare è un’attività che si può svolgere a diversi livelli di profondità. Forse, come sostiene il mio amico Alessandro Volpone, è un po’ come la musica o il foot-ball: la si può praticare pur non chiamandosi Schelling o Wittgenstein, come si può comporre musica anche senza chiamarsi Bach o Mozart o giocare a pallone con gli amici anche senza essere Pelé o Maradona3. Forse imparare a filosofare significa, in senso incipiente e propedeutico, imparare a ragionare e, ancor più, a coordinare – almeno intenzionalmente – la sfera delle proprie idee con lo stile di vita abituale. Se questa accezione ‘debole’ o, direi meglio, ‘analoga’ di filosofare è legittima, perché non si potrebbe applicare al caso dei nostri alunni? L’esperienza ormai più che ventennale di varie iniziative di “filosofia per…non filosofi”4 – esperienza che si è felicemente intrecciata con la Philosphische Praxis di Gerd Achenbach e dei suoi ammiratori e seguaci sparsi un po’ in tutto il mondo5 – mi conferma nell’idea che ogni uomo ha una propria Weltanschauung e che può scegliere di conservarla acriticamente e passivamente oppure di metterla in discussione riappropriandosene criticamente e liberamente. Lo dico con franchezza: un sistema scolastico che non dia allo studente gli strumenti -e le motivazioni- per maturare una propria visione dell’uomo, della società, del mondo fallisce uno dei suoi compiti educativi centrali. Ed è un fallimento duplice: dal punto di vista dell’offerta culturale -perché la filosofia, se rimane pura memoria della tradizione storiografica, non attua la sua pluridimensionalità costitutiva- e dal punto di vista dei bisogni sociali, perché nessuna democrazia può sopravvivere se la stragrande maggioranza dei cittadini rinunzia a pensare con la propria testa.

Resta da chiarire, a questo punto, il risvolto ‘materiale’ della questione: quale ‘spazio’ prevedere per il filosofare? Quale ‘luogo’ predisporre per dare ai giovani l’occasione di andare, grazie alla storia della filosofia, oltre le filosofie degli altri? Quali ‘segmenti’ del tempo didattico riservare alla loro elaborazione di teorie personali e di confronto con le teorie dei compagni e, se del caso, con prudente moderazione, del docente? La mia risposta ‘pratica’ muta di anno in anno, anzi di classe in classe. Come ho ricordato sopra, l’attuale ordinamento degli studi in Italia prevede, per ciascuna delle tre classi terminali del Liceo classico, tre ore settimanali per l’ambito filosofico e tre per l’ambito storico-sociale. In alcune classi ci sono abbastanza allievi così svegli, così interessati e creativi, che prendono spunto da qualsiasi trattazione storico-filosofica per avanzare obiezioni e proporre alternative teoriche: non puoi cominciare a raccontare la proposta filosofica di un Socrate o di uno Spinoza o di un Popper senza essere –felicemente!- interrotto da interventi ‘critici’. In questi casi preferisco dedicare tutte e tre le ore alla storia delle filosofie contando sul fatto che, nel corso delle lezioni, germinerà spontaneamente il filosofare. Ci sono dei casi però in cui la classe è troppo esigente o troppo poco interattiva, per mantenere questa opzione didattica. Mi spiego meglio. Talora, eccezionalmente, può capitare una classe in cui -se non proprio tutti- molti alunni esprimano l’esigenza di affrontare una tematica (la giustizia sociale o la ricerca religiosa o l’epistemologia o l’etica sessuale…) in maniera organica, approfondita: in questi casi perché non dedicare un’ora esclusivamente a quella determinata tematica? Perché non trasformare la lezione frontale in un seminario, in un laboratorio, in una sessione di “comunità di ricerca”6? Di volta in volta ho utilizzato, come base e traccia, testi diversi: per fare due esempi fra i più riusciti, È possibile essere felici? Interrogare il passato senza restarne prigionieri di Elio Rindone7 e Etica per un figlio di Fernando Savater8.

Non escluderei -almeno come ipotesi- che il ricorso a una scansione materiale più netta fra due ore di storia della filosofia e un’ora di filosofia possa essere suggerita nei casi in cui una classe sia talmente poco vivace da non lasciarsi stimolare, provocare, dall’esposizione dei sistemi filosofici altrui. Forse, per degli alunni poco propensi a valorizzare gli aspetti ‘attuali’ dello studio della filosofia, potrebbe rivelarsi istruttivo -anche, per così dire, dal punto di vista simbolico- sapere che un’ora la settimana si sospende la metodologia tradizionale per regalarsi un intervallo di silenzio meditativo e di scambio dialettico.

Note

1 Una materia che di solito i miei colleghi trattano da Cenerentola, evitando persino di far acquistare un testo apposito (Ormai da anni mi trovo molto bene con le successive riedizioni di AA.VV., Stato e società. Dizionario di educazione civica, La Nuova Italia, Firenze 2009. Si veda anche l’articolo Lezioni di politica: una proposta didattica e non solo in questo stesso numero della Rivista), di tenere lezioni ad hoc, di verificare il processo di apprendimento specifico, di valutare la preparazione degli alunni con il pretesto di inglobarne l’insegnamento nel corso di storia. Trovo, invece, molto interessante per gli studenti non limitarmi a cenni rapsodici occasionati da episodi storici o da fatti di cronaca, ma svolgere una trattazione organica di avviamento alla politica o, se si preferisce, alla cittadinanza critica e responsabile, illustrando gli elementi di diritto costituzionale, i lineamenti essenziali delle principali ideologie politiche del Novecento (Cfr A. Cavadi, Ideologie del Novecento. Cosa sono state, come possono rifondarsi, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 2002), le informazioni basilari sul sistema mafioso e sulle possibili strategie anti-mafia (Cfr. Id, La mafia spiegata ai turisti, Di Girolamo, Trapani 2008; Id, Strappare una generazione alla mafia. Lineamenti di pedagogia alternativa, Di Girolamo, Trapani 2004; Id (a cura di), A scuola di antimafia, Di Girolamo, Trapani 2005).

2 Tra gli esempi più significativi il testo (modulato in diverse edizioni) di Nicola Abbagnano e   Giovanni Fornero, edito dalla  Paravia di Torino, e il più recente (a cura di Vegetti, Fonnesu e altri) edito dalla Le Monnier.

3 Cfr. A. Volpone, Dall’epistemologia della pratica alla filosofia in quanto pratica in “Discipline filosofiche”, anno XV, 1, pp. 23 – 54.

4 Cfr. A. Cavadi, Quando ha problemi chi è sano di mente. Breve introduzione al philosophical counseling, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 2003.

5 Per una prima panoramica cfr. il volume a più mani Filosofia praticata. Su consulenza filosofica e dintorni, Di Girolamo, Trapani 2008 (presso lo stesso editore è reperibile la traduzione in inglese). Più impegnativa la lettura del mio Filosofia di strada. La filosofia-in-pratica e le sue pratiche (presso il medesimo editore, 2010).

6 Da queste discussioni è emerso il mio E, per passione, la filosofia. Breve introduzione alla più inutile di tutte le scienze, Di Girolamo, Trapani 2007.

7 Edito da Il pozzo di Giacobbe di Trapani

8 Laterza, Roma-Bari 2006.

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