L’ossimoro dell’imperatore Giuliano: Chiesa pagana e tolleranza intollerante
Nel 361 d.C., divenuto unico Augusto, Giuliano ordinò in tutto l’impero la ripresa dei sacrifici agli dèi, la riapertura dei templi e il restauro di quelli danneggiati a spese dei responsabili dei danni1, e avviò una serie di iniziative e provvedimenti volti a una restaurazione integrale della religione pagana. Giuliano2 si era convertito segretamente al paganesimo circa dieci anni prima, spinto dalle sue letture e dalla frequenza di intellettuali come il neoplatonico Massimo di Efeso; ma la religione che egli praticava e aveva in mente di ripristinare non era quella di Omero e di Esiodo, o meglio, non solo. La più che millenaria sapienza greca, con la sua articolata e multiforme mitologia, era da lui rielaborata e integrata nella cornice della visione del mondo neoplatonica: in essa la potenza unificatrice dell’Uno, l’entità ineffabile e più che trascendente da cui tutto promana, permetteva di superare, armonizzare e risolvere la molteplice e dispersiva contraddittorietà del reale. In tal modo Giuliano poteva fra l’altro conciliare il politeismo della tradizione pagana col monismo filosofico di remota ascendenza eleatica e, soprattutto, con le aspirazioni unitarie della spiritualità postclassica, consentendo al paganesimo di rimanere una valida (e, secondo lui, prioritaria) opzione rispetto al monoteismo giudaico-cristiano. Gli dèi tradizionali, infatti, erano recuperati e mantenuti in quanto emanazioni e manifestazioni differenti di quell’unica essenza trascendente: i miti tramandati dai poeti, inverosimili e zeppi di incongruenze e oscenità, ottenevano una nuova giustificazione grazie all’interpretazione allegorica, uno strumento che i Greci avevano escogitato assai per tempo proprio per difendere il sapere tradizionale dalle critiche razionalistiche mosse a partire almeno da Senofane3.
Il centro di questa teologia riformata e sincretistica è il Sole, a cui Giuliano dedica l’orazione A Helios re, composta ad Antiochia nell’inverno del 362 e concepita come una sorta di omelia teologica per la festa del Sol invictus che ricorreva il 25 dicembre. Giuliano distingue tra il Sole sensibile e quello “intelligente”, una divinità, da lui identificata con Zeus, Ade, Apollo e Serapide4, della quale l’astro è la concreta manifestazione: questo occupa una posizione mediana nella gerarchia delle sfere planetarie e consente la vita e l’esistenza degli esseri sensibili, mentre il dio, emanazione diretta dell’Uno, esercita una funzione mediatrice e unificante rispetto agli altri dèi “intelligenti” (a loro volta mediatori tra il mondo intelligibile e quello sensibile). Giuliano offre quindi un saggio di interpretazione allegorico-etimologica di alcune espressioni di Omero ed Esiodo, per dimostrare la continuità della sua dottrina con la più antica e veneranda tradizione greca5:
L’uno6, nel tracciare la sua genealogia, lo disse figlio di Iperione [Hyperíonos] e di Teia, evidentemente con queste parole intendendo significare che esso è progenie legittima di Colui che è superiore [hyperéchontos] a tutto: chi altri infatti sarebbe Iperione rispetto a questo? E la stessa Teia [Theia], in un’altra maniera, non è un modo per indicare il più divino [tò theiótaton] degli esseri? E non stiamo a immaginare accoppiamenti e nozze, giochetti inverosimili e assurdi della musa poetica, ma piuttosto reputiamo suo padre l’essere più divino ed eccelso: e chi altri potrebbe essere tale, se non Colui che sta al di là di ogni cosa e intorno al quale e per il quale tutte le cose sono? Omero7 poi lo chiama Iperione dal nome del padre, e mostra il suo essere indipendente e più forte di ogni necessità. Zeus, infatti, come dice lui, essendo signore di ogni cosa, costringe gli altri, ma quando nel mito8 questo dio [i.e. Helios] dice che per l’empietà dei compagni di Odisseo abbandonerà l’Olimpo, non dice più “Vi potrei tirare su con tutta la terra e con tutto il mare”9 né minaccia catene e violenza, ma promette che infliggerà una punizione ai colpevoli, e gli chiede di splendere fra gli dèi. Con queste parole non intende forse dire che, oltre all’autonomia, il sole possiede anche capacità di perfezionamento? Per quale altro motivo infatti gli dèihanno bisogno di lui, se non perché, illuminandoli invisibilmente per l’essenza e l’essere, è atto a portare ad effetto i beni di cui dicevamo?
Accanto al Sole, un’altra posizione preminente è quella occupata dalla Grande Madre degli Dèi; a lei è indirizzato l’altro grande discorso teologico di Giuliano, dove è descritta come «la fonte degli dèiintelligenti e demiurgici che governano gli dèivisibili, madre e sposa del grande Zeus, che ebbe sussistenza quale grande dea dopo il gran Demiurgo e assieme a lui» e «vergine senza madre, che siede accanto a Zeus»10.
Il Sole e la Madre incarnano in maniera evidente i due caratteri salienti di questa nuova religiosità: da un lato un enoteismo solare e razionale, trascendente ed inclusivo, capace di integrare il pluralismo della mitologia tradizionale in una complicata gerarchia di essenze attraverso la quale l’essere e l’essenza si irradiano dall’Uno al cosmo e, viceversa, l’uomo risale intellettualmente all’unità originaria; dall’altro, un elemento “femminile” di carattere ctonio, in cui confluisce l’antica componente orgiastica e iniziatica della religione greca rappresentata dai culti misterici di Cibele, Demetra e Dioniso. Quest’ultima, purificata attraverso l’interpretazione allegorica da quegli elementi irrazionali e osceni che scandalizzavano i cristiani, si fa veicolo di un misticismo salvifico che si concretizza nella pratica dei rituali di purificazione, il cui scopo è l’anodos, l’“ascesa”/“ritorno” delle anime dalla materia al mondo celeste da cui derivano11.
Con questa complessa operazione, Giuliano conferiva alla religione pagana una solidità e un’unità dottrinale prima ignote, rendendola per molti versi simile al Cristianesimo: non è infatti difficile scorgere nella diade Sole-Madre, fatte salve le differenze, un contraltare pagano di Cristo e della Vergine Maria. Il Sole, al quale Giuliano restituiva il dies Natalis di cui Cristo si era, per così dire, appropriato, svolge nell’universo la sua stessa funzione mediatrice, e i termini con cui è descritto ricordano espressioni analoghe del Credo niceno: se lì Cristo è «Unigenito figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre» – ma, nella variante “omeousiana”, «di sostanza simile(homoioousios) al Padre» –, per Giuliano l’Uno, «diede alla luce da se stesso il Sole, mediano tra le cause intelligenti e demiurgiche esse stesse mediane, dio grandissimo in tutto simile a se stesso»12; e nel passo riportato più sopra il Sole è «progenie legittima di Colui che è superiore a tutto». Si tratta di formule che Giuliano attinge in primo luogo da Platone13, ma che, data l’analogia con quelle cristiane (esse stesse strutturate secondo le categorie del platonismo), ben si prestavano a fare del Sole un “Anticristo” (“anti-” nella duplice valenza etimologica di “oppositore” e di “sostituto”) e a facilitare l’adesione dei cristiani al credo pagano rinnovato. Come poi Cristo è la Sapienza divina creatrice del mondo («per mezzo di Lui tutte le cose sono state create»), così Helios è la potenza demiurgica causa della separazione delle forme e dell’aggregazione della materia14. Quanto alla Madre degli Dèi, essa è madre e sposa di Zeus, come Maria è madre e sposa di Dio, e al tempo stesso vergine, anche se diversamente da lei è partecipe dell’attività demiurgica15.
Il progetto culturale e religioso di Giuliano si configurava infatti come una “contro-Chiesa” pagana, che imitava (in modo «scimmiesco», ironizzava Gregorio di Nazianzo16) il cristianesimo in quegli aspetti che ne avevano assicurato il successo: accanto alla sostanziale (al di là delle controversie cristologiche e delle divisioni) compattezza dottrinale, l’organizzazione gerarchica e la sollecitudine per i poveri e i deboli. Nell’epistola ad Arsacio, sommo sacerdote di Galazia, Giuliano raccomanda al destinatario di esortare i sacerdoti «a non andare a teatro, a non bere nelle osterie, a non dirigere un’attività o un mestiere sconveniente e vituperevole»17, di espellere quelli che non obbediscono a queste norme o che intrattengono rapporti abituali con cristiani e di istituire ricoveri pubblici per gli stranieri e i bisognosi (xenodocheia), perché «sarebbe vergognoso che mentre i Giudei non hanno nessun mendicante e gli empî Galilei nutrono oltre ai loro anche i nostri, risultasse che i nostri manchino di assistenza da parte nostra»18.
Alcuni studiosi hanno messo in dubbio sia l’autenticità della lettera che l’esistenza stessa di questo progetto di “chiesa pagana”19. A prescindere dalla questione dell’autenticità, i piani di Giuliano sono documentati anche dall’epistola 89a-b al gran sacerdote Teodoro, certamente autentica20. Anche a lui Giuliano affida la sovrintendenza sul culto in Asia, il controllo sul comportamento dei sacerdoti (funzioni, dunque, corrispondenti a quelle dei vescovi) e la pratica della “filantropia”, intesa come concreto sostegno agli indigenti; esige inoltre che i sacerdoti siano persone di specchiata moralità, che non vadano a teatro, che si astengano da qualsiasi atto o discorso licenzioso e anche da letture immorali e piene di oscenità come i giambi di Archiloco e Ipponatte e la commedia attica antica; raccomanda loro lo studio di Pitagora, Platone, Aristotele, degli Stoici, mentre condanna gli Epicurei e gli Scettici; si preoccupa che il culto per gli dèi sia curato con dignità, che i sacerdoti indossino paramenti solenni durante i riti ma vestano sobriamente nella vita quotidiana, e che gli inni in onore degli dèi vengano imparati a memoria (una sollecitudine, questa, che fa venire in mente Lutero o papa Gregorio Magno). È vero che Giuliano agiva nelle vesti di pontifex maximus, la suprema autorità religiosa di Roma, e con intenti dichiaratamente conservatori21; ma come sul piano dottrinale la sua adesione al dato della tradizione era mediata da un neoplatonismo non esente da suggestioni cristiane, così su quello “pastorale” è poco credibile che il modello attuale di una Chiesa potente e organizzata, che egli conosceva per esperienza diretta, sia stato per lui meno determinante di quello remoto e leggendario del “re sacerdote” Numa o di quello, più vicino nel tempo ma meno articolato, di Massimino Daia22.
Ben si comprende, quindi, l’appellativo di “apostata” con cui lo marchiarono i cristiani23. Esso non ha semplicemente il valore di “colui che rinnega la fede”, ma anche quello originario di “ribelle, disertore”: chi abbandona il proprio esercito per passare in quello nemico e rivolge le armi contro quelli che prima erano i suoi compagni, mettendo a profitto la pratica militare acquisita in precedenza nell’altro campo e la propria conoscenza delle forze e dei punti deboli dell’avversario.
Quella contro il cristianesimo fu, in effetti, una “guerra totale” sul piano politico, legislativo, culturale, teologico, morale. Nelle intenzioni dell’imperatore, essa non contemplava il ricorso a forme di persecuzione violenta, che egli più volte ripudia e proclama di non aver mai praticato24; considerava piuttosto i Cristiani come equivalenti a dei «malati di mente» (φρενιτίζοντας), e pur non resistendo alla tentazione di affermare che sarebbe stato meglio curarli anche con la forza, tuttavia preferiva che si ricorresse alla persuasione, anche perché non voleva che agli altari degli dèi si accostassero persone che non fossero intimamente convinte25. La sua fu però un’indulgenza, almeno in parte, strumentale: il suo fine ultimo non era consentire la pacifica convivenza tra cristiani e pagani, ma piuttosto indurre i cristiani alla defezione (o, dal suo punto di vista, alla “guarigione”). Come testimonia Libanio26, Giuliano aveva compreso che le persecuzioni cruente scatenate nel passato avevano sortito l’effetto contrario, rafforzando il prestigio della Chiesa, perciò evitò con cura di creare nuovi martiri. Altrettanto strumentali furono alcune misure liberali come il richiamo dall’esilio dei vescovi ortodossi banditi dal filoariano Costanzo II: se è vero quanto afferma Ammiano Marcellino, il loro vero scopo era rinfocolare le controversie dottrinali interne alla Chiesa nella speranza di indebolirla, giacché Giuliano sapeva, da ex cristiano, che «nessuna bestia feroce è talmente nemica dell’uomo, quanto sono esiziali verso i loro simili la maggior parte dei cristiani»27. A parte questo, egli mise in atto una forma sottile ma sistematica di discriminazione. Favoriva in tutti i modi le città che sapeva fedeli al paganesimo, mentre con le altre aveva un atteggiamento ben diverso28. Escluse i cristiani dai ruoli appartenenti all’esercito e all’amministrazione, col pretesto che la loro religione non consentiva l’uso della spada per punire i criminali29; al contrario, promosse i pagani nei posti chiave e raccomandò espressamente che a loro venisse accordata la preferenza30. Nell’amministrare la giustizia s’informava anche sul credo religioso dei contendenti; e se Ammiano garantisce che questo non influenzava le sue decisioni, non può tuttavia esimersi dall’ammettere che simili domande erano quantomeno fuori luogo (tempore alieno)31. Quando i cristiani si lamentavano dei soprusi di alcuni governatori locali, rinfacciava loro il precetto evangelico di sopportare con pazienza le offese32; e ugualmente si astenne dall’intervenire per punire episodi di violenza ai loro danni, come il linciaggio del vescovo Giorgio di Alessandria33. Quando poi il tempio di Apollo a Dafne (vicino Antiochia) fu distrutto da un incendio, non esitò ad addossarne la colpa ai cristiani, e per rappresaglia ordinò la chiusura della chiesa maggiore di Antiochia34; e agli Antiocheni additava l’esempio positivo di quelle città che «avevano distrutto le tombe degli atei» (i.e. dei martiri) in ossequio alle sue direttive, pur ammettendo che si erano spinte al di là di quel che egli voleva35.
Ce n’era dunque abbastanza perché i cristiani, e non soltanto le gerarchie, si ritenessero minacciati. Pur riconoscendo la differenza fra Giuliano e i persecutori violenti del passato come Decio o Diocleziano, essi lo considerarono ugualmente un persecutore, sia pure in senso lato (lo storico Socrate36 precisa di adoperare il termine “persecuzione” per indicare «il recare qualsivoglia forma di turbamento a coloro che se ne stanno tranquilli»); e, soprattutto, vivevano nel terrore che all’ostilità “politicamente corretta” e spesso condita di ironia (come nello spassoso Misopogone, scritto da Giuliano contro gli Antiocheni) potesse prima o poi far seguito una violenza non più soltanto verbale37. Violenza che in qualche caso, come si è visto, aveva già assunto tratti più concreti, se non per ordine dell’imperatore, certamente in conseguenza del suo atteggiamento e dell’impunità garantita ai responsabili.
L’atto sicuramente più ostile di tale strategia fu la legge che vietava ai cristiani di insegnare retorica e letteratura pagana nelle scuole pubbliche. Il Codex Theodosianus38 riporta un editto del 17 giugno del 362, il quale prescrive che i maestri eccellano non solo per eloquenza (facundia) ma anche per costumi (mores), che siano reclutati attraverso una rigorosa selezione da parte delle autorità locali, e che la loro nomina sia soggetta all’approvazione dello stesso imperatore. Il testo non fa riferimento né ai cristiani né al loro credo; ma nell’epistola 61c Giuliano, spiegando il senso della normativa da lui introdotta, chiarisce che l’insegnante deve essere intimamente convinto della verità di ciò che insegna. Se dunque i cristiani vogliono insegnare gli autori pagani, dimostrino di onorare gli dèi in cui quelli credevano, altrimenti si limitino a commentare Matteo e Luca nelle loro chiese. Gli studiosi non sono concordi sul rapporto fra lettera e decreto; per alcuni la prima sarebbe una “circolare interpretativa” del secondo, mentre per altri i due testi non sono collegati fra loro e l’editto non avrebbe in realtà carattere persecutorio39. Ora, che ci sia stato un decreto contro i professori cristiani mi pare fuori discussione: basterebbe la sola testimonianza di Ammiano, che lo condanna, lui pagano, come inclemens eobruendum perenni silentio40. Che sia da identificare con quello del 17 giugno è quantomeno plausibile: l’assenza in quest’ultimo di riferimenti ai cristiani è probabilmente dovuta ai compilatori che, dovendolo adeguare ai nuovi tempi in cui il cristianesimo aveva ormai trionfato, espunsero le parti non più in vigore41. Ma anche se il testo che abbiamo fosse integro, sarebbe comunque risultato anticristiano nella sua concreta applicazione: quante speranze avrebbe avuto un insegnante notoriamente cristiano di ottenere l’approvazione delle autorità locali e dell’imperatore42, vista la sua dichiarata ostilità?
Nell’epistola 61c Giuliano sottolinea che le restrizioni riguardavano solo gli insegnanti: agli studenti, anche se cristiani, egli garantiva libero accesso alle scuole. Secondo gli autori cristiani, invece, anche questa possibilità era preclusa43. Si pensa in genere che questa notizia sia frutto di un’esagerazione o un fraintendimento da parte loro; e tuttavia, è forse il caso di distinguere anche qui tra lettera e prassi della legge. Non si può infatti escludere che alcuni maestri particolarmente zelanti adottassero comportamenti vessatori nei confronti degli studenti cristiani, costringendoli di fatto a ritirarsi; e che, in conseguenza (o nel timore) di situazioni del genere, i genitori si rifiutassero di mandare i loro figli nelle scuole pubbliche44. A parte questo, Socrate e Teodoreto45 riportano anche testuali parole di Giuliano dalle quali traspare la sua intenzione di impedire che, in futuro, i cristiani potessero servirsi delle armi dialettiche e retoriche della cultura pagana per combattere il politeismo. Queste parole non si trovano in nessuna opera di Giuliano a noi pervenuta, ma non per questo si deve ritenere che siano del tutto inventate46. È infatti possibile che l’inasprirsi dello scontro coi cristiani e la constatazione dello scarso successo della sua attività riformatrice (che egli ammette esplicitamente all’inizio della citata epistola ad Arsacio47) abbiano indotto l’imperatore a diramare messaggi successivi, da cui quelle parole potrebbero essere tratte o di cui riprendono il contenuto, per imporre un’applicazione più rigorosa del decreto rispetto alla sua formulazione iniziale. Giuliano insomma, che faceva guerra al Cristianesimo con le sue stesse armi, non poteva permettere che i suoi nemici ricorressero alla medesima tattica. In questo senso, l’accusa rivoltagli dai cristiani di averli esclusi dalle scuole ha una sua ragion d’essere, e si può ritenere almeno in parte fondata, se non nella forma, perlomeno nella sostanza.
«L’imperatore Giuliano era intollerante?» si domanda Jean Bouffartigue nel titolo di un saggio di alcuni anni fa48. La risposta a cui perviene lo studioso, e che ci sembra condivisibile, è: sì, fu intollerante. Non come i suoi predecessori pagani, o come lo sarebbe stato di lì a poco Teodosio. Ma la libertà che con una mano largiva ai cristiani la toglieva con l’altra, ricorrendo a tutte le strategie possibili perché di fatto non potessero goderne pienamente. Aut aut: o convertirsi al paganesimo o rassegnarsi a essere cittadini di serie B, preclusi dalla piena partecipazione alla vita politica e culturale della società49. La sua fu dunque una tolleranza intollerante, retoricamente raffinata, “ossimorica”, come la sua idea di trasformare in una chiesa il paganesimo, per sua stessa natura refrattario ad assumere tale fisionomia. Dopo la sua morte in battaglia nel 363, tali contraddizioni imponevano una scelta: o una tolleranza senza sotterfugi o un’intolleranza senza paraventi. La storia, dopo qualche esitazione50, imboccò la seconda via.
Note
1 Cfr. Ammiano Marcellino, Storie XXII 5, 2; Libanio, Orazione 18, 126.
2 Sulla figura di Giuliano esiste una letteratura critica quanto mai vasta: si veda ad esempio E. v. Borries, «Iulian» nr. 26, Realencyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft X/1, J.B. Metzlersche Verlagbuchhandlung, Stuttgart 1918, coll. 26-91; J. Bidez, La vie de l’Empereur Julien, Les Belles Lettres, Paris 1930; tra gli studi più recenti, K. Bringmann, Kaiser Julian. Der letzte heidnische Herrscher, Primus Verlag, Darmstadt 2004; K. Rosen, Julian: Kaiser, Gott und Christenhasser, Klett-Cotta, Stuttgart 2006; H.C. Teitler, The Last Pagan Emperor: Julian the Apostate and the War against Christianity, Oxford University Press, New York 2017. Nel corso del presente saggio le opere di Giuliano sono citate secondo l’edizione di J. Bidez (L’Empereur Julien: Œuvres complètes, Les Belles Lettres, Paris 1932-1960), a eccezione del Misopogone e dei discorsi Alla Madre degli Dei e A Helios re, citati secondo: Giuliano imperatore, Alla Madre degli dei e altri discorsi, a cura di J. Fontaine, C. Prato e A. Marcone, A. Mondadori, Fondazione “Lorenzo Valla”, Milano 20067. Le traduzioni, salvo diversamente specificato, sono mie.
3 Senofane, frr. B 11-12 Diels-Kranz.
4 A Helios, cap. 10, 135d-136a.
7 Omero, Iliade VIII 480, ecc.
10 Alla Madre degli Dei, cap. 6, 166a-b.
13 Cfr. Repubblica 509a, espressamente richiamato da Giuliano nel passo in questione.
14 A Helios, cap. 16, in part. 141a.
15 Alla Madre degli Dei, cap. 6, 166b-d. L’epiteto di «vergine senza madre» (παρθένοςἀμήτωρ) con cui la qualifica Giuliano in realtà fa pensare in primo luogo ad Atena, nata dalla testa del padre Zeus; tuttavia l’inedito ruolo di “madre e sposa” del dio maggiore fa sospettare che anche il cristianesimo abbia esercitato un qualche ascendente sulla formulazione di questi connotati. La “verginità“ simboleggia la natura non carnale dell’unione della Madre con Helios e del suo amore per Attis, il semidio simbolo del potere generatore che discende fino alla materia.
16 Orazione 4, 112 πιθήκων μιμήματα.
17 Epist. 84, 430b; traduzione di M. Caltabiano (L’epistolario di Giuliano imperatore, D’Auria, Napoli 1991, p. 180).
18 Ivi, 430d (Caltabiano, Ivi, p. 181).
19 P. van Nuffelen, «Deux fausses lettres de Julien l’Apostat (La lettre aux juifs, Ep. 51 [Wright], et la lettre à Arsacius, Ep. 84 [Bidez])», Vigiliae Christianae 56/2, 2002, pp. 131-150; cfr. anche G. Scrofani, «Ὡςἀρχιερέα: la ‘chiesa pagana’ di Giuliano nel contesto della politica religiosa imperiale di III e IV secolo», Studi classici e orientali 51, 2005, pp. 195-215. L’autenticità della lettera è difesa da J. Bouffartigue, «L’Authénticité de la Lettre 84 de l’empereur Julien», Revue de Philologie de littérature et historie ancienne 79, 2005, pp. 232-242, e F. Aceto, «Note sull’autenticità dell’ep. 84 di Giuliano imperatore», Rivista di cultura classica e medioevale 50/1, 2008, pp. 187-206.
20 L’epistola consta in realtà di due segmenti separati; in genere si ritiene che appartengano alla medesima lettera (cfr. Caltabiano, L’epistolario, cit., p. 264).
21 Ad esempio, a proposito dell’accoglienza dei forestieri, nell’Ep. 84 (431a-b) sottolinea come questa fosse una buona pratica dell’antica pietas greca, come mostra l’esempio dell’ospitalità di Eumeo offerta a Odisseo (Od. XIV, 56-58). Anche nell’epistola a Teodoro (89a, 453b) egli professa di attenersi alle tradizioni per quanto riguarda il culto degli dèi.
22 Massimino Daia aveva già attuato una riforma del sacerdozio pagano su base gerarchica; cfr. Scrofani, «Ὡςἀρχιερέα», cit., pp. 202-204.
23 Si ritiene che il primo sia stato Gregorio di Nazianzo, che dopo la sua morte scrisse contro di lui le Orazioni 4 e 5 (cfr. in part. Or.4, 1); ma già quando era vivo lo aveva apostrofato così (oltre che «empio» e «ateo») il vescovo Maris, che ebbe con lui un violento alterco riferito dallo storico Socrate Scolastico (Storia ecclesiasticaIII 12).
24 Si vedano soprattutto le epistole 61c, 83 (vedi sotto, nota 31), 114 e 115.
25 Epistole 61c, 424a-b; 114, 436 c-d.
26 Libanio, Or.18, 122; si veda anche Gregorio di Nazianzo, Or.4, 57-58; Socrate, St. eccles.III 12.
27 Ammiano, StorieXXII 5, 3-4, in part. 4: nullas infestas hominibus bestias, ut sunt sibi ferales plerique Christianorum expertus.
28 Epistola 83; vedi sotto, nota 31. Nell’Epistola 84, 431d, promette di aiutare la città di Pessinunte se onorerà debitamente la Grande Madre, minacciando ritorsioni in caso contrario.
29 Rufino, St. eccles.X 33; Socrate, St. eccles.III 13.
30 Epistola 83, 376b-c: «Io, per gli dèi, non voglio né che i Galilei siano uccisi, né che siano percossi ingiustamente, né che subiscano qualche altro torto, ma dico che bisogna in ogni modo anteporre a loro gli adoratori degli dèi[…] Quindi bisogna onorare gli dèi ed anche gli uomini e le città che li onorano» (Caltabiano, L’epistolario, cit., pp. 179-180).
31 Ammiano, Storie XXII 10, 2.
32 Socrate, St. eccles. III 14.
33 Ammiano, Storie XXII 11, 11; secondo lo storico, Giuliano per la verità era intenzionato a intervenire, ma fu dissuaso dai suoi consiglieri e si limitò a inviare agli Alessandrini una dura reprimenda in cui minacciava punizioni severe. Un altro linciaggio fu messo in atto dai pagani di Aretusa in Siria ai danni del vescovo Marco, che si rifiutava di versare l’indennizzo preteso dall’imperatore per i danni subiti in precedenza dai templi col beneplacito delle autorità cristiane; fu sottoposto a torture di ogni genere, ma riuscì a sopravvivere (Gregorio di Nazianzo, Or. 4, 88-90; Sozomeno, St. eccles.V 10, 8-14. L’eroismo di Marco è ricordato anche da Libanio nell’Epistola 730 [819 Förster]).
34 Ammiano, Storie XXII 13, 1-3; Giuliano, Misopogone 33, 361b-c. Ammiano riferisce una voce alternativa minoritaria, un rumor levissimus, secondo cui l’incendio sarebbe partito da alcuni ceri votivi accesi da un devoto. Come siano andate effettivamente le cose è impossibile stabilirlo: fu ordinata un’inchiesta, affidata a una commissione di cui faceva parte anche Libanio (cfr. la sua Epistola 1376), ma si concluse con un nulla di fatto. Può darsi che l’incendio sia stato effettivamente opera di qualche fanatico cristiano; ma se anche così non fosse stato, non è affatto sorprendente che i sospetti di Giuliano, in quel clima di ostilità reciproca, si appuntassero comunque sui cristiani. L’imperatore poco prima aveva ordinato la traslazione del martyrion di San Babila (che sorgeva presso il tempio) in quanto “disturbava” con la sua presenza il vicino oracolo di Apollo, impedendogli di dare responsi (Giuliano, Misop. 33, cit.; cfr. anche Socrate, St. eccles. III 18-19).
37 Questo clima di terrore è efficacemente descritto da Libanio (Or. 18, 121). Gregorio di Nazianzo (Or.5, 39) dice che Giuliano riservava ai cristiani «l’onore del Ciclope», ossia di ucciderli per ultimi (come Polifemo minaccia di fare con Odisseo) al ritorno dalla spedizione in Persia. Diverso l’atteggiamento di Atanasio, che considerava Giuliano nulla di più che una «nuvoletta di passaggio» (Socrate, St. eccles. III 14). A lui venne in seguito attribuita dai cristiani, soprattutto dagli estensori di passiones dei martiri, la responsabilità di violenze, esecuzioni e misfatti d’ogni genere; cfr. Teitler, The Last Pagan Emperor, cit., capp. XII-XVII. Di «migliaia e migliaia di morti», ad esempio, parla la Passio Pimenii (cap. 2).
39 Sull’interpretazione del decreto cfr. ad es. P. Ciprotti, «Ingerenza di imperatori pagani nella vita interna della Chiesa? II. La legge scolastica di Giuliano l’Apostata», Archivio di diritto ecclesiastico 5, 1943, pp. 227-39; S. Saracino, «La politica culturale dell’imperatore Giuliano attraverso il Cod. Th. XIII 3,5 e l’Ep. 61», Aevum 76/1, 2002, pp. 123-41;E. Germino, Scuola e cultura nella legislazione di Giuliano l’Apostata, Jovene, Napoli 2004; G.A. Cecconi, «Giuliano, la scuola, i cristiani: note sul dibattito recente», in L’imperatore Giuliano. realtà storica e rappresentazione, a cura di A. Marcone, Le Monnier Università, Milano 2015, pp. 204-222; Teitler, The Last Pagan Emperor, cit., pp. 64-70.
40 Ammiano, Storie XXII 10, 7. Il decreto sembra anche avere avuto un’applicazione retroattiva: i cristiani Mario Vittorino a Roma e Proeresio ad Atene, già titolari di cattedra, dovettero dimettersi, e Proeresio confermò le dimissioni nonostante Giuliano gli avesse concesso una speciale deroga ad personam (cfr., rispettivamente, Agostino, Confessioni VIII 5, 10; Girolamo, Chronicon, anno 363).
41 Così pensano ad esempio Ciprotti («Ingerenza», cit., pp. 227-228) e Bringmann (Kaiser Julian, cit., pp. 123-124).
42 Deroghe come quella concessa a Proeresio saranno state l’eccezione, non certamente la regola.
43 Cfr. Agostino, La città di Dio XVIII 52, 2; Rufino, St. eccles.X 33; Socrate, St. eccles. III 12, 7; Teodoreto, St. eccles. III 8, 1-2. Gregorio di Nazianzo (Or.4, 4-6, 101, 103), più genericamente, accusa Giuliano di voler «privare i cristiani della cultura» come se ne avesse il monopolio.
44 Cfr. v. Borries, «Iulian», cit., col. 52; Bringmann, Kaiser Julian, cit., p. 126.
46 Che Giuliano nutrisse effettivamente questa preoccupazione è dimostrato dall’Epistola 90, giunta solo parzialmente tramite la traduzione latina di Facondo di Ermiana (Per la difesa dei tre capitoli IV 2); in essa deplora che Diodoro di Tarso «con impudenza si istruì nello studio delle arti delle Muse ed armò con espedienti retorici la sua odiosa lingua contro gli dèi celesti» (trad. Caltabiano, L’epistolario, cit., p. 198; cfr. Saracino, «La politica», cit., p. 139).
48 J. Bouffartigue, «L’empereur Julien était-il intolérant?», Revue d’Études Augustiniennes et Patristiques 53/1, 2007, pp. 1-14.
49 Cfr. Saracino, «La politica», cit., p. 140.
50 Nel 371 Valentiniano concesse libertà di culto a tutti i sudditi, consentendo perfino la pratica dell’aruspicina, purché non per fini illeciti (CTh IX 16, 9; cfr. Bouffartigue, «L’empereur», cit., p. 6).
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