Un itinerario nel mito gnostico
1. Conoscersi e trasfigurarsi
Per introdurci nel mondo dell’antica gnosi la raccolta Adelphi I Vangeli gnostici. Vangeli di Tomaso, Maria, Verità e Filippo è l’ideale. Almeno per quanto riguarda la gnosi siriaco-egiziana che si formò tra il I e II secolo, secondo alcuni dall’interno del cristianesimo, come una delle eresie in cui il nuovo fenomeno religioso si andava caratterizzando e frammentando; secondo altri autonomamente, come un nuovo nucleo di pensieri irriducibile a un altro anche se fortemente sincretistico. La raccolta infatti, nell’essenzialità dei suoi temi e con i suoi testi meditativi, complessi, ermetici e stilisticamente ricercati, mostra bene il modo peculiare in cui la gnosi recepì il messaggio cristiano insieme alla cultura greca di allora e definì così la propria natura e originarietà.
I Vangeli gnostici mentre rivelano temi e verità dello gnosticismo cristiano di tipo esistenziale, antropologico e teologico, non presentano però un’accurata descrizione dei suoi miti cosmogonici, a cui proprio quei temi e quelle verità sono intrecciati. Ne offre invece una ricostruzione esaustiva Testi gnostici in lingua greca e latina, in cui troviamo raccolte le fonti a nostra disposizione sulla gnosi cristiana, cioè le opere di eresiologi e padri della Chiesa vissuti tra il II e il IV secolo, distribuite in cinque parti in relazione agli autori e alle scuole di cui danno notizia (Simon Mago e la sua scuola, Ofiti e Sethiani, Basilide e i basilidiani, Carpocrate e suo figlio Epifane, Valentino e la sua scuola); a questo volume curato da Manlio Simonetti servirà quindi fare riferimento per un approfondimento delle diverse questioni.
In linea generale, la peculiarità della gnosi cristiana è un’interpretazione dell’εὐαγγέλιον che spinge la pistis verso un’altra direzione: non verso Dio Padre creatore del mondo e dell’umano, al quale bisogna affidare completamente se stessi per poter compiere e salvare l’essenza della vita mortale, ma verso il Dio connaturato al sé, verso l’alterità divina che già può essere il sé. Almeno quel sé che abbia diradato con il proprio rilucere, manifestarsi, l’ombra distesa sull’essente dall’elemento materiale, oscurante, corrosivo che sostanzia la natura umana e ogni altro ente mondano. Almeno quella vita che conosca davvero se stessa: che sappia riconoscere il fondamento in cui si origina la sua essenza; che nella comprensione del fondamento possa identificarsi con ciò che esso lascia apparire del sé e al sé oltre il suo coprente involucro materiale, per vivere secondo questa essenza rivelata, radicalmente diversa, appunto spirituale o divina. La fede nella divinità connaturata all’individuo ma nascosta e contrastata dalla sostanza materiale e mondana, a lui pure congenita, si riversa allora nell’unica via che fende il velo, attraversa l’ombra, piega la materia, porta effettivamente a Dio. Questa via è la gnosi. Per lo gnostico il vangelo insegna agli uomini anzitutto ad aver fede nell’esperienza conoscitiva di se stessi.
Si può riassumere tutto ciò con una singola verità: per lo gnostico «la scoperta del vero essere di Dio rispetto all’uomo è la scoperta di se stesso per mezzo di sé»1. Chiamiamo gnostico colui che va in cerca di sé e trova il luogo, il modo, il significato in cui si manifesta la sua natura perfezionata, la sua forma più propria, la sua essenza eterna, consustanziale a Dio. Alla sua natura divina egli fa riferimento anche quando si esprime con il linguaggio del cristianesimo, ad esempio: «Il Padre era nel Figlio, e il Figlio nel Padre. Questo è il Regno dei cieli»2. Il Figlio è ancora il Cristo disceso tra gli uomini per rivelargli il Padre, ricondurli al Padre e salvarli, ma è anche «lo gnostico, il prototipo dei perfetti»3. Il Figlio è lo stesso vangelo, compreso però non come dono di grazia del Padre a tutti gli uomini, dono che essi potranno accogliere oppure no, ma come occasione per risvegliare un potenziale interiore di salvezza, una “grazia” che si possiede già; non tutti gli uomini però la possiedono e la sanno coltivare. Il Figlio non intercede quindi per unire la persona umana e quella divina in una relazione gerarchica in cui la prima, accogliendo e sopportando nella fede la propria natura creaturale, si affida e non può che affidarsi alla seconda affinché le conceda dopo la morte di risorgere nella carne; ma intercede per unificare la loro sostanza tout court, già nel tempo e nello spazio del mondo. Infatti «questa unione per mezzo della conoscenza si trova già nei Vangeli canonici», ma è soltanto nei testi gnostici, proprio per la valenza che essi accordano alla conoscenza, che l’unione diventa «identificazione e compenetrazione silenziosa del soggetto e dell’oggetto, di Dio e dello gnostico»4. «Una mistica che trasforma»5.
Ma in maniera più precisa, in che cosa consiste la conoscenza di se stessi, della propria divinità? La inquadra bene un estratto da Teodoto riportato da Clemente Alessandrino: «Non è solo il lavacro a liberarci ma anche la conoscenza: chi siamo, che cosa siamo diventati; dove siamo, dove siamo stati precipitati; dove tendiamo, donde siamo purificati; che cosa è la generazione, che cosa è la rigenerazione»6. Tale dichiarazione programmatica proveniente dalla scuola di Valentino7 insegna che mentre si vive questo tempo bisogna comprendere, rammemorandosene, il proprio punto di partenza: qual è l’origine di ciò che si è diventati e del luogo in cui si è stati gettati, da cui si viene purificati e in cui si corre avanti, verso un altro luogo; vale a dire qual è l’origine dell’esistenza temporale e mondana in cui la propria vita diventa possibile. Dall’origine infatti si dispiega tutto ciò che è avvenuto, avviene e avverrà, l’intero in cui il sé è trascinato e coinvolto. Confrontarsi con l’origine significa perciò individuare la propria posizione e possibilità nel tutto, quindi la condizione, l’identità e la meta della propria esistenza, o in una parola, il proprio senso. Per questo ai discepoli che gli domandavano della fine «Gesù rispose: “Avete scoperto il principio voi che vi interessate della fine? Infatti nel luogo ove è il principio, là sarà pure la fine. Beato colui che sarà presente nel principio! Costui conoscerà la fine e non gusterà la morte»8.
Chi precorrerà la propria fine ricordando il luogo da cui proviene la sua esistenza umana, mondana e temporale conoscerà cosa sia la «generazione» e cosa la «rigenerazione», «non gusterà la morte» ma ne verrà liberato. In altre parole, comprenderà il senso della finitudine, e saprà anche che grazie alla consapevolezza acquisita la vita mortale non muore ma rinasce, non perché essa non abbia fine ma perché ha trovato il fondo al quale assicurare se stessa: l’unico fondo che renda la sua essenza già manifesta, che le dia già un’identità, una stabilità, una quiete; che possa garantire per la sua esistenza. Soltanto conoscendo la verità – qual è, com’è, che cosa comporta il proprio fondamento – il sé può commisurare a essa la sua vita, compiersi secondo il giusto ordine, tendersi in una forma salda e perfetta dentro la materia cadaverica del corpo e del mondo, farsi riparo contro la corrente del tempo che pure lo indebolisce e trascina. Nelle parole del Vangelo di Filippo: «Questo mondo è un divoratore di cadaveri: tutto ciò che vi si mangia muore di nuovo», ma «la verità è una divoratrice di vita: quanti si nutrono di essa non moriranno»9. L’uomo non oltrepassa l’esistenza mondana dopo la morte, non appena la sua caducità si sarà esaurita, ma già nel momento in cui schiude la verità. Già nella conoscenza della finitezza in quanto tale – dunque dell’Oltre, dell’Abisso, della Trascendenza in cui soltanto può fondarsi e giustificarsi l’essenza del Limite – lo gnostico si salva dal limite, rinasce. E «quanti affermano che prima si deve morire e poi risuscitare, si ingannano. Se da vivi non ottengono la risurrezione, quando moriranno non otterranno nulla»10: avranno perso ormai ogni occasione di gnosi e di rinascita che inizia entrando nel mondo e finisce andandosene via.
Che la gnosi sia uno sforzo di rammemorazione da compiere per comprendersi, un riparo da alzare contro la propria condizione esistenziale, un’occasione di salvezza che può anche essere perduta, implica però qualcos’altro di essenziale: gli umani sono «gettati fuori nello spirito di questo mondo»11, dove non c’è verità; nascono già in uno stato di dimenticanza di sé, di ignoranza, di assenza di salvezza quindi, e persistono in tale condizione perché essa è radicata in loro tanto quanto la loro appartenenza al mondo; perché è l’effetto, l’attività, il dominio vigente della loro congenita mondanità e insolvibile finitezza.
Pervasi dal loro stato d’ignoranza, gli uomini vivono l’esistenza come da ubriachi o da dormienti, avvertendone soltanto la forma alterata, inautentica; e qualunque azione compiano si trovano in errore, perché se non si comprende l’esistenza nella sua forma piena, nella sua propria essenziale possibilità, si può soltanto deviare dal vero. Deviando da ciò che rivelerebbe loro la pienezza da cui provengono e a cui appartengono, l’unico luogo in cui troverebbero dimora, gli uomini raggiungono e abitano soltanto il vuoto, il nulla.
L’episodio umano non significa né realizza nulla se prima di concludersi non ribalta in gnosi la sua ignoranza. Soltanto nella gnosi la vita si estrania dalle disposizioni, dalle pianificazioni, dalle concettualizzazioni e da ogni altra dinamica secondo cui essa stessa, nella sua relazionalità, nella sua cura degli enti, si struttura; soltanto nella gnosi il sé si distanzia radicalmente dalla dimensione mondana che provoca in lui l’oblio del fondamento e il misconoscimento di se stesso, che dispiega il dominio in cui non vi è salvezza trascinandovi il sé insieme a ogni altro ente; soltanto in un atto di conoscenza che innanzitutto è sforzo di liberazione, o per l’appunto gnosi, il sé recupera uno spazio in cui isolarsi: l’uscio, la soglia, il limite che si rivela essere l’esistenza così vissuta in questa estrema epochédi se stessi. Nella sua propria soglia il sé scopre l’esistenza come pura finitezza e ne comprende l’origine, vale a dire: supera la sua dimenticanza, si rammemora del fondamento di ogni cosa e può decidere come debba vivere alla luce di ciò che sa, mentre la sua esistenza continua a darsi così com’è. E a mantenerlo immerso nella mondanità, laddove non c’è verità, non c’è nulla in cui possa riflettersi, acquietarsi. Lo gnostico che conosce la verità dell’esistenza sa anche che nel mondo egli «non ha alcun luogo ove poggiare il capo e riposare»12; per lui vale ciò che Gesù raccomandò ai suoi discepoli: «“Siate transeunti!”»13.
2. Il mito valentiniano
Per lo gnosticismo conoscenza e ignoranza hanno un peso ontologico specifico, poiché equivalgono a due realtà esistenziali contrarie e contrastantesi in cui l’umano o si incardina nell’essente o si lascia scivolare nel nulla; o percepisce, sperimenta, interpreta, compie il proprio radicamento nell’intero, o si sradica da esso; o rimane nel principio primo per cui esiste e può continuare a esistere così com’è, conoscendo quel principio, o si affida a ciò che non può salvarlo, ignorando ciò che salva. In altre parole, conoscenza e ignoranza, gnosi e agnosia, sono le due forme contrarie in cui avviene l’autocomprensione del sé, l’istituzione del suo significato: l’una fonda in Dio, ovvero nell’Essere; l’altra fonda nel mondo, ossia nel Nulla.
Per capire perché il mondo abbia la valenza del Nulla e l’Essere sia la trascendenza assoluta di Dio14, e mostrare la relazione conflittuale tra Dio e il mondo patita e compresa dal sé, analizzerò il mito gnostico valentiniano. Con la consapevolezza che la riflessione dell’antica gnosi, com’è tipico dei sistemi di pensiero metafisici e religiosi, è una correlazione tra teologia, cosmologia e antropologia secondo cui tutto ciò che avviene nella realtà primordiale ed eterna, autosussistente e perfetta, chiamata Pleroma nei testi gnostici ed equivalente alla forma dispiegata di Dio, si riflette nel divenire del cosmo e degli uomini. Il complesso dei miti intessuti dalla gnosi, miti in cui la gnosi tardoantica si è strutturata ed espressa, rimanda quindi alla dimensione ontologico-esperienziale dell’umano. Per lo gnostico «ciò che ha luogo nel tempo senza tempo della vita pleromatica ha […] valore di vera e propria carta di fondazione di quegli stessi processi, che dovranno poi ripetersi in lui, se egli vorrà conseguire l’illuminazione e, con ciò, la salvezza»15. Detto diversamente, mentre il mito con la sua forza allegorica raffigura un anthropos originato e integrato nell’ordinamento necessario, eterno e divino di ogni cosa, o dell’intero essente, un anthropos cioè fondato in uno stato di perfezione e pienezza, un’esistenza archetipica; la vita dello gnostico ha il fine di raggiungere proprio la forma archetipica, il fine di attuare da sé e in sé quella condizione riconosciuta, con la logica e le narrazioni del mito, come fondativa.
Secondo la notizia di Ireneo, lo gnostico valentiniano Tolomeo chiama il primo nucleo della realtà emanata16 da Dio «prima Ogdoade» e afferma che la stessa formazione era nota anche all’evangelista Giovanni: «Giovanni ha parlato della prima Ogdoade, madre di tutti gli Eoni. Infatti ha nominato Padre Grazia Unigenito Verità Logos Vita Uomo Chiesa»17. Gli otto Eoni elencati, uniti in quattro sizigie (Padre-Grazia, Unigenito-Verità, Logos-Vita, Uomo-Chiesa18), sono un’esatta descrizione allegorica del λόγος divino che attraversa e ordina l’essente, e che dispiegandosi definisce il sentiero in cui si incontrano e radunano in una comune identità l’essenza del fondamento, o di Dio, e l’essenza uomo. Anche se da un mito all’altro la struttura del Pleroma cambia e si estende oltre il nucleo dell’Ogdoade includendo altri Eoni, in essa è sempre lo stesso principio ad attuarsi; è sempre il «Logos, che assume varia forma e denominazione in relazione alle diverse funzioni cosmologiche e soteriologiche che svolge»19. Seguiamo la descrizione completa della formazione dell’Ogdoade nella notizia di Ireneo, che chiarirà quanto si è detto.
(I Valentiniani) dicono che nelle altezze invisibili e incomprensibili c’è un Eone perfetto Preesistente: lo chiamano anche Preprincipio e Prepadre e Abisso. Era invisibile e incomprensibile, eterno e ingenerato e stava in grande tranquillità e solitudine nei tempi infiniti. Stava insieme con lui anche il Pensiero, che chiamano anche Grazia e Silenzio. Una volta l’Abisso meditò di emanare da sé un principio di tutte le cose, e depose a guisa di seme questa emanazione, che meditò di emanare, nel Silenzio che esisteva insieme con lui, come in una matrice. Essa, avendo accolto questo seme ed essendo diventata pregna, partorì Intelletto, simile e uguale a colui che aveva emanato, il solo che comprendesse la grandezza del padre. Tale intelletto chiamano anche Unigenito e Padre e Principio di tutte le cose. Con lui fu emanata Verità; ed è questa la prima e primigenia tetractys pitagorica, che chiamano anche radice di tutte le cose: ci sono infatti Abisso e Silenzio, poi Intelletto e Verità. L’Unigenito, comprendendo per quale emotivo era stato emanato, emanò a sua volta Logos e Vita, padre di tutti gli esseri che sarebbero esistiti dopo di lui, e principio e formazione di tutto il Pleroma. Dal Logos e dalla Vita sono stati emanati in sizigia Uomo e Chiesa: questa è l’Ogdoade primigenia, radice e sostanza di tutte le cose20.
Ciò che si è indicato finora come fondamento dell’essente o principio primo del tutto è chiamato anche “Eone perfetto Preesistente” “Preprincipio” “Prepadre” “Abisso”, poiché trascende ontologicamente la realtà che lascia apparire, che fa essere in se stessa, e rimane quindi individuabile soltanto a partire da essa, da ciò che è preesistente inessa – ogni Eone rimanda all’infinito alla condizione fondativa della propria esistenza poiché non può esaurirne entro i propri limiti l’essenza, la quale appunto è trascendere, è la potenza intrinseca al Trascendente. Soltanto con l’emanazione dell’Intelletto, detto anche Unigenito, il Prepadre rende comprensibile la sua grandezza, anzitutto a se stesso: l’Unigenito è la forma in cui il Preprincipio si rivela a sé, si autocomprende. L’Intelletto allora, come forma propria del Prepadre, in grado di riflettere l’essenza ricevuta e mostrarne in sé la Verità, emana il Logos secondo cui è possibile conoscere il Prepadre per gli ulteriori Eoni che discendono da quello, che trovano nel Logos la loro Vita, la loro condizione di esistenza. Il primo degli Eoni emanati dal Logos è la sizigia di Uomo e Chiesa21.
«L’ultimo e più recente Eone della Dodecade emessa dall’Uomo e dalla Chiesa, cioè Sophia […] subì passione senza l’unione col suo compagno di sizigia Desiderato. La passione, che aveva avuto inizio intorno a Intelletto e Verità, investì questo Eone incorso nell’errore, apparentemente peccato di amore, ma effettivamente di temerarietà, perché esso non partecipava del Padre perfetto alla pari dell’Intelletto. La passione era ricerca del Padre: infatti – come dicono – voleva comprendere la grandezza di quello»22. Essendo già iniziata con Intelletto e Verità, la passione di Sophia23 testimonia una condizione di errore, sovvertimento e degrado in cui è precipitato il Pleroma intero –l’unità delle emanazioni manifeste e ordinate nel dispiegarsi del Principio. Sophia erra perché s’inganna sulle sue effettive possibilità: ignora che gli Eoni «sono in grado di conoscere il Padre soltanto con la mediazione del Logos»24. L’ordine di fondazione del Pleroma stabilisce infatti: per l’Intelletto la comprensione del Padre in quanto Padre (l’Intelletto è il Padre nell’atto di comprendere se stesso), per gli altri Eoni la comprensione del Padre in quanto Logos. Se dunque intende risalire al Padre, ogni Eone deve comprendere la propria provenienza dal Logos, e ciò vuol dire comprendersi in rapporto alla logica dell’intero e riconoscere in essa il senso e la necessità del proprio limite. La conferma che l’Eone comprende il proprio senso è innanzitutto il fatto che esso si sia formato e riconosciuto come sizigia: non a caso Sophia si inganna su se stessa ed erra mentre si trova senza il suo compagno di sizigia Desiderato. Se gli Eoni cercano il Padre «da soli non lo possono trovare, e sopravviene in loro uno stato di inquietudine, di timore e di terrore; la loro facoltà di comprendere è paralizzata e cadono in uno stato di oblio»25 per cui ignorano se stessi, il proprio destino.
Così tesa verso una meta impossibile Sophia si sarebbe «disciolta nella universale sostanza se non si fosse imbattuta nella forza che aveva il compito di consolidare e custodire al di fuori della indicibile grandezza tutte le cose (gli Eoni). Tale forza chiamano anche Limite. Sophia fu trattenuta e consolidata da questo: così, tornata a stento in sé e convinta che il Padre è incomprensibile, depose la sua intenzione insieme con la passione»26 al di fuori del Pleroma e riprese parte alle dinamiche interne a esso.
L’intervento del Limite è il primo evento predisposto dal Principio per restaurare la condizione originaria del Pleroma. L’evento successivo è l’emanazione da parte dell’Unigenito della sizigia Cristo-Spirito santo, che insegna agli Eoni a non cadere nell’errore di Sophia: «Infatti Cristo insegnò loro la natura della sizigia […] e annunciò loro ciò che si poteva conoscere del Padre; […] A sua volta lo Spirito santo insegnò loro, diventati tutti uguali, a rendere grazie e li introdusse nel vero riposo»27.
Una volta raggiunta una comune condizione di perfezionamento, tutti gli Eoni producono a onore e gloria dell’Abisso un’altra emanazione, sintesi e testimonianza della vicenda che li ha coinvolti, oltre che del loro stato attuale. È «Gesù il frutto perfetto, che chiamano anche Salvatore e Cristo e Logos, secondo il nome del Padre, e il Tutto, perché derivato da tutti gli Eoni. Come scoperta per suo onore furono emessi angeli a lui consustanziali»28. Gesù interviene per risanare ciò che giace al di fuori del Pleroma e che insiste con la sua semplice presenza a tenere aperto uno iato tra interno ed esterno, e a riprodurre una realtà pervasa dalla memoria dell’errore commesso, dalla necessità di porvi rimedio e dall’attesa del riscatto, ossia da ciò che è stato, che è e che sarà. È la realtà del divenire, l’Eone Χρόνος emerso dall’Eone che non muta mai in se stesso, così perfetto com’è: Αἰών, che è lo stesso Pleroma dal quale Χρόνος qui si scinde.
La dimensione temporale in cui interviene Gesù combacia con la materia generata dall’intenzione di Sophia, o meglio dalla sua passione per il Padre, nella quale la materia era già in nuce. La passione infatti, secondo un’antica equivalenza, è un elemento materiale, quindi opaco, oscurante e non trasparente come lo spirito, che invece lascia vedere ciò che in esso appare, come fa la luce. Su ordine del Limite Sophia aveva respinto da sé la sua intenzione e l’aveva deposta fuori dal Pleroma, così da poter essere riammessa in esso: il Pleroma infatti, in origine, è un’unità puramente spirituale e luminosa, e tale deve restare per preservare la sua integrità, la sua essenza divina. L’intenzione di Sophia,
che chiamano anche Achamoth, separata dal Pleroma con la sua passione ribolliva spinta dalla necessità nei luoghi dell’ombra e del vuoto. Infatti si trovava al di fuori della luce e del Pleroma, priva di forma e aspetto, come un aborto, poiché nulla aveva compreso. Cristo, avendola compianta ed essendosi disteso sulla Croce con la sua potenza, le dette formazione secondo la sostanza ma non secondo la gnosi. Avendo fatto questo, corse di nuovo su, avendo ritirato la sua potenza, l’abbandonò affinché, avendo coscienza della passione che l’affliggeva a causa della separazione dal Pleroma, fosse spinta verso la realtà superiore, avendo un aroma di immortalità lasciato a lei da Cristo e dallo Spirito santo. […] Formata e diventata cosciente, e subito restata priva del Logos che stava con lei invisibilmente, cioè Cristo, si mosse alla ricerca della luce che l’aveva abbandonata ma non la poté raggiungere, perché impedita dal Limite. […] Non potendo superare il Limite, perché mescolata con la passione, e lasciata sola al di fuori, essa cadde in preda a ogni genere di passione, molteplice e varia: dolore, poiché non aveva compreso; timore, per paura di perdere come la luce anche la vita; disagio per questi motivi: e tutto ciò nell’ignoranza. E non, come sua madre, la prima Sophia che era Eone, subì alterazione per le passioni, ma opposizione. Le sopravvenne anche un’altra disposizione, quella della conversione verso colui che l’aveva vivificata. Così essi raccontano si è costituita e formata la materia, da cui è sorto questo mondo. Infatti dalla conversione ha avuto origine tutta l’anima del mondo e del Demiurgo, tutto il resto ha tratto origine dal timore e dal dolore29.
Achamoth supplica la potenza che l’aveva soccorsa formandone la sostanza affinché l’accolga con sé nel Pleroma. Cristo, per non scendere nuovamente nella tenebra in cui si trova Achamoth, invia in suo aiuto Gesù, che completa l’opera di perfezionamento formandola anche secondo la gnosi, separando da lei le passioni e attribuendo a esse l’attitudine a comporsi in corpi30. Nella gioia della visione di Gesù e nella sua luce riverberata dagli angeli che lo accompagnano, Sophia Achamoth partorisce un prodotto spirituale a immagine degli accompagnatori del Salvatore: un seme che è segno precursore di quello stato di perfezione e pienezza di cui Gesù, insieme ai suoi angeli, è il frutto e la testimonianza; che ha in sé la possibilità di diventare parte del Pleroma restaurato nella sua integrità.
Dalle disposizioni emotive di Sophia Achamoth si generano diverse sostanze: dallo stato più cupo (dolore, timore, afflizione, disagio) la sostanza ilica; dal desiderio di convertirsi la sostanza psichica; dalla gioia per la visione luminosa di Gesù la sostanza spirituale. Sophia prova a dar loro una forma compiuta e lo fa mediante un demiurgo che essa stessa plasma dalla sostanza psichica della conversione. Il Demiurgo crea corpi sia dalla sostanza materica sia dalla propria sostanza psichica, i primi costituiscono gli uomini ilici, i secondi gli uomini psichici; mentre gli psichici sono sempre avvolti da uno strato ilico, quest’ultimo può essere privo dell’elemento psichico. Uno strato materico infatti è presente in tutti gli enti poiché con la materia intrinseca alle passioni di Sophia Achamoth, passioni nate e sofferte nell’ignoranza di sé, il Demiurgo modella il mondo intero, il suo assetto:
Dallo spavento e dal senso di impotenza, come dagli elementi più oscuri, hanno tratto origine […] gli elementi corporei del mondo: la terra corrisponde alla fissità dello spavento, l’acqua alla mobilità del timore, l’aria all’immobilità del dolore: in tutti questi elementi c’è il fuoco apportatore di morte e distruzione, come nelle tre passioni è nascosta l’ignoranza31.
[Il Demiurgo] credeva di creare da sé tutte queste cose, mentre invece le faceva per impulso di Achamoth: così egli fece il cielo non conoscendo il cielo, plasmò l’uomo ignorando l’uomo, fece apparire la terra ignorando la terra. In tutto egli così ignorava le forme ideali di ciò che faceva e anche l’esistenza della Madre, e credeva di essere lui solo tutto. Invece fu la Madre causa per lui di questa creazione, che lo volle così guidare affinché fosse capo e principio della propria sostanza, signore di ogni attività32.
Sophia Achamoth, madre di un prodotto spirituale privo però della formazione necessaria per essere integrato (insieme a lei) nel Pleroma, a insaputa del Demiurgo immette nei corpi che egli va plasmando la propria semenza, affinché possa servirsi dei corpi come terreno in cui maturare. I corpi in cui la scintilla divina è presente – non è distribuita in tutti infatti – dovranno intraprendere allora lo stesso percorso di Sophia superiore e di Sophia Achamoth: ogni sostanza spirituale ha da risvegliare, riconoscere, manifestare la propria essenza, perché innanzitutto e per lo più la propria essenza rimane nascosta e viene ignorata; ed è nascosta e ignorata poiché si trova immischiata a qualcosa di opposto che la altera, la deforma, la degrada, la condiziona così a fondo che essa vive secondo una natura contraria alla propria.
D’altra parte lo spirito è l’unico principio all’origine del tutto – almeno nei miti fondati su una visione monista dell’essente, come il mito valentiniano –, perciò nonostante si degradi fino a produrre da sé l’elemento opposto, fino a lasciarsi avviluppare dalla materia e cederle spazio, resta comunque l’unico composto legittimo nella sua presenza e nel suo dominio, e anche l’unico al quale spetti sanare, recuperare e salvare se stesso, comprendendo come avviene la propria caduta dalla condizione superiore e come debba avvenire allora la risalita. Questa comprensione del destino di caduta da uno stato superiore a uno inferiore, della propria dualitàe correlata possibilità di trascendere se stessi, è la gnosi. La gnosi è la conoscenza che contraddistingue un sé pneumatico, lo pneumatico sarà allora anche uno gnostico. L’uno e l’altro indicano uno stesso sé33.
Per inoltrarsi nella via della gnosi la semenza impura di Achamoth dev’essere gettata nel mondo e mescolata agli altri composti, dev’«essere formata qui stando unita con l’elemento psichico, educata insieme con questo in vista del ritorno […] Perciò il Salvatore è venuto all’elemento psichico, poiché è dotato di libero arbitrio, affinché si salvi»34. A salvarsi sono gli spirituali e parte degli psichici. Tra gli uomini psichici, coloro che scelgono di curarsi della formazione dell’elemento spirituale presente in altri uomini, e lo fanno se innanzitutto resistono ai condizionamenti dell’elemento ilico sugli altri elementi; sarà invece annichilita quella parte di psichici che non riesce a praticare questo itinerario di distanza. Si salveranno gli spirituali aiutati nella loro maturazione dagli psichici, poiché per natura essi sono destinati alla salvezza. Ireneo infatti, riferendosi a chi è cristiano come lui, osserva: «Per noi è necessaria la buona condotta di vita (altrimenti non è possibile la salvezza), mentre essi sostengono di essere in tutto e per tutto spirituali non per le opere ma per natura e assolutamente destinati alla salvezza. Come infatti non è possibile all’elemento terreno partecipare della salvezza, perché non è capace di accoglierla, così a sua volta l’elemento spirituale – cioè essi stessi, a quanto pretendono – non può accogliere corruzione, quali che siano le opere nelle quali si trova implicato»35.
Anche se accorda agli psichici la possibilità di salvarsi, il mito comunque esclude il loro ingresso nel Pleroma e gli riserva invece una regione sottostante nella disposizione finale e definitiva dell’essente futuro. Quale futuro? Quando l’elemento ilico, una volta che si siano liberate e purificate dalla materia tutte le sostanze in grado di farlo, disparirà:
Allorché tutto il seme avrà raggiunto la perfezione, dicono che la loro Madre Achamoth si trasferirà dal luogo della Regione intermedia, entrerà nel Pleroma e prenderà come suo sposo il Salvatore, colui che è nato da tutti gli Eoni, perché si faccia sizigia del Salvatore e di Sophia Achamoth. Questi sono lo sposo e la sposa, camera nuziale è tutto il Pleroma (Ev. Io. 3, 29). Gli spirituali, deposte le anime e diventati spiriti intellegibili, senza essere impediti e visti entreranno nel Pleroma e saranno dati come spose agli angeli del Salvatore. Il Demiurgo si trasferirà anche lui nel luogo della Madre Sophia, cioè nella Regione intermedia. Anche le anime dei giusti troveranno il riposo nel luogo della Regione intermedia: infatti nulla di psichico può entrare nel Pleroma. Insegnano che, quando tutto ciò sarà avvenuto, il fuoco celato nel mondo deflagrerà, si appiccherà e consumerà tutta la materia: anche il fuoco si consumerà insieme con essa e si ridurrà a non essere36.
3. Il mondo degli gnostici: attrito e liberazione
Un mondo generato da una caduta interna alla sostanza di Dio, al Pleroma primordiale e autosussistente, perfettamente dispiegato e completo in ogni sua parte, immutabile ed eterno, spirituale e luminoso, non può che risultare qualcosa di opposto a esso, qualcosa che contrasta con il Λόγος di Dio al quale si deve la disposizione, la distribuzione e il senso dell’intero essente. Il Λόγος di Dio è l’ordine intrinseco a ogni cosa manifesta, la verità del tutto, la vera identità del Pleroma.
Il Λόγος comunque, anche se contrastato dal mondo, non perde la propria autosussistenza e necessità, e proprio perché continua a dispiegarsi, il mondo può opporsi a esso. Per essere più chiari: il Λόγος di Dio è la condizione fondativa, inamovibile, di ogni fenomeno, perciò il mondo in quanto tale, nel suo essere presente o manifesto, rimanda a Dio, è segno del proprio fondamento – segno opaco, equivoco, fraintendibile, giacché in sé non lascia vedere Dio ma l’esatta negazione di Dio, ma è comunque un segno che lo addita, che si caratterizza in riferimento a quello.
Al Pleroma corrispondono le particelle spirituali vincolate in qualche modo al composto psichico e ilico degli enti mondani, gettate nella finitezza, nella caducità, nel tempo. Essendo dei frammenti consustanziali al Pleroma le particelle rispondono per natura al Λόγος di Dio, e innestano così nel mondo, con la loro presenza, la possibilità di un primordiale Regno della Luce che si origina senza alcuna mescolanza, senza alcuna materia, senza alcuna tenebra; testimoniano la possibilità di un’altra dimensione ontologica.
In tale contesto il mondo appare una negatività assoluta: qualcosa che c’è e non dovrebbe avvenire giacché non vi è alcuna giustificazione per la sua essenzamalvagia. L’unico regno legittimo infatti è quello del Pleroma, necessitato dalla sua stessa natura divina a esserci. Eppure anche l’esistenza del mondo è a suo modo necessaria: l’ignoranza e l’errore di Sophia, la crisi interna al Pleroma, lo scarto delle passioni al di fuori del Pleroma, in breve gli antecedenti all’origine del mondo secondo il mito, sono eventi inevitabili nel processo emanativo del Principio, dato che si tratta di un processo deterministico. La cosmogonia delineata dai testi gnostici è la distribuzione del tutto attraverso un processo evolutivo, degenerativo e ricostitutivo che risponde fedelmente al Λόγος di Dio; da Dio tutto si dispiega e di Dio tutto va mostrando le forme, la struttura e la dinamica secondo necessità. L’avvento del mondo, allora, va inteso come la necessità dell’imprevisto.
Posta la necessità dell’imprevisto segue la necessità della soluzione; la seconda in effetti è già inclusa nella prima. Tant’è che nel mito valentiniano la ὕλη diventa il composto necessario alla formazione del πνεῦμα: è il terreno in cui Sophia Achamoth semina il suo prodotto spirituale, in modo che possa maturare e venir raccolto non appena è maturo. E il raccolto dei figli di Sophia è ciò che serve a sanare la condizione di dispersione e frantumazione del Pleroma, a restaurare l’integrità del regno primordiale, a ricucire lo iato da cui emerge e in cui permane il mondo, lo scarto informe dello stesso Pleroma. Da questo punto di vista, allora, l’ontologia del mondo risulta ambigua: è una negatività assoluta ma tuttavia è anche una negatività relativa, poiché possiede una valenza positiva che sta nel rendere possibile l’economia della salvezza dell’elemento spirituale.
L’economia della salvezza degli uomini pneumatici – comprenda o meno anche la salvezza degli psichici che scelgono di collaborare a essa – è l’unico senso che si possa riconoscere nell’esistenza del mondo e della vita che vi accade.
Emerso da un cedimento imprevisto, da una vibrazione nell’essere eterno e immutabile di Dio, e animato da una conflittualità radicale tra i suoi composti disomogenei – la quale ostacola, oscura, guasta, svigorisce la possibilità immanente al composto spirituale, la possibilità della quiete, della pienezza appagata di se stessa e più in generale di un altro regno ontologico –, il mondo conserva ancora una direzione, un senso, che per l’appunto è contrastare la semenza spirituale mescolata al suo composto materiale e nel contrasto offrirle l’occasione di riscattare se stessa. Lo spirito infatti deve partecipare al conflitto perché avverte l’esigenza di estinguerlo, perché non c’è nulla in cui possa acquietarsi fino a quando abita nella miscela del mondo, una realtà ibrida e non il regno puramente spirituale al quale appartiene.
Uno scritto dei Naasseni commenta così la fine dei tempi ricordata da Paolo di Tarso (I Ep. Cor. 10, 11): «Fine infatti sono i semi seminati nel mondo dall’essere senza figura, grazie ai quali tutto il mondo va a perfezione. Infatti per loro mezzo ha cominciato a divenire»37. «Il seme divino disseminato nel mondo della materia condiziona tutta la vicenda del mondo e il suo divenire, perché tutta l’economia mondana è diretta alla maturazione e al recupero di questo seme che costituisce il fine della creazione del mondo dal Chaos primigenio»38.
Gli spirituali sono sparsi nel mondo come mine che potrebbero infiammare la materia e trasfigurarla in pura luce, se svelassero se stessi, la loro propria luce. Potrebbero infiammare la materia ma in effetti non possono perché si trovano scissi l’uno dall’altro, alterati e deformati, ignari della loro essenza autentica, quindi in errore, inquieti, angosciati. Non appena vengono al mondo sono già sopraffatti dalla sostanza materiale, che ha soltanto il fine d’esistere e resistere come un parassita della luce gettata in essa.Ogni elemento spirituale che avviene nella finitezza, allora, «è nel bisogno; e ciò di cui ha bisogno è grande, giacché ha bisogno di ciò che lo rende perfetto. Siccome la perfezione del tutto si trova nel Padre, è necessario che il tutto risalga verso di lui, e che ognuno prenda ciò che è suo»39.
Il tutto di cui parla il Vangelo di Verità è la messe degli gnostici. Com’è possibile alla comunità degli gnostici colmare il suo bisogno, ribaltare la propria condizione, conoscersi e perfezionarsi? Dev’esserci una via, un’occasione. Nella letteratura mitica dell’antica gnosi l’occasione cambia: possono essere gli angeli che intervengono contro le potenze oscure del mondo e spezzano il loro dominio sulla filialità di Dio; può essere Cristo che dopo aver soccorso Sophia in una ragione caotica e tenebrosa, e averla portata con sé nel Regno della Luce, assume le sembianze di Gesù e narra agli apostoli le sue vicende, che verranno divulgate e comprese da chi vi riconosce se stesso; può essere Sophia che segue strategie diverse affinché gli uomini che appartengono alla sua semenza si ricordino d’essere figli suoi e del Pleroma. In ogni caso, chi rivela la gnosi aprendo la via del perfezionamento a chi è desinato a percorrerla, ha la stessa identica natura dello gnostico che accoglie la gnosi e s’inoltra nel percorso; la differenza sta nel fatto che il primo vive già secondo la legge di quel Λόγος al quale il secondo, invece, non ha ancora conformato se stesso e deve conformarsi.
La formazione secondo la gnosi, in sostanza, è lo svelarsi a se stessa di un’unica natura divina. È l’attualizzarsi di «quell’elemento beato e incorruttibile [che] si trova nascosto in ciascuno in potenza: è Colui che sta stette e starà ritto [ἐστὶν ὁἑστώς, στάς, στησόμενος]. Sta ritto in alto nella Potenza ingenerata; è stato ritto in basso nello scorrere delle acque, generato in immagine; starà ritto in alto presso la Potenza beata infinita, se diventerà immagine»40. Nella definizione di Simon Mago di «Colui che stette sta e starà ritto l’elemento divino immanente nell’uomo è visto nel processo della sua realizzazione e salvezza. Ἑστώς indica l’elemento divino nella sua vita divina, nella sua immanenza nella Potenza infinita; στάς indica l’elemento divino nella sua condizione mondana, inerente alla materia sempre mobile nella sua imperfezione (= acqua); στησόμενος indica la futura condizione perfetta presso la Potenza infinita»41.
Nel momento in cui scopre come viene originato e destinato all’intero, in cui fa esperienza del suo proprio ordine nell’ordinamento di Dio o anche dell’Essere, lo gnostico può partecipare all’apocatastasi del Pleroma divino, già con l’assumere una distanza da tutto ciò che non appartiene da sempre, per essenza, a esso: il mondo della miscela di luce e tenebra, di spirito e materia. Riconoscendo il proprio modo d’essere giusto e necessario in un ordinamento in cui tutto è distribuito secondo giustizia e necessità, il sé gettato nell’esserci mondano può incuneare e tracciare una direzione diversa nel suo assetto.
È così che lo gnostico redime se stesso: manifestando da sé e in sé l’essenza che in prima istanza e per lo più il suo composto ilico, senza che egli ne sia cosciente, nasconde; e vivendo allora secondo il proprio autentico λόγος, riflesso fedele del Λόγος di Dio. Nello stesso tempo, nell’atto della redenzione, egli rifonda l’essere del mondo in quella parte contrassegnata dalla sua esistenza trasfigurata; ne piega il senso, l’ordine, la logica, che avviene in senso contrario alla sua: offuscando, incrinando, minacciando l’ordinamento divino dell’essente, il Λόγος del suo proprio λόγος. Nel linguaggio simbolico del mito: per lo gnostico la salvezza è la conoscenza della propria appartenenza al Regno della Luce, perché nella tenebra mondana in cui egli svela la sua origine una luce di quel Regno già per questo viene a esserci, si dà.
Il nocciolo della questione della gnosi come strumento di perfezionamento e redenzione sta qui: rende possibile la restaurazione dell’integrità del Pleroma, il che vuol dire scoprire se stessi nella differenza dal proprio fondamento divino,nella distinzione tra l’essere parte dell’intero dispiegato da Dio e in Dio secondo la sua legge, ed essere invece il tutto nell’atto eterno e immutabile del suo dispiegamento, ovvero Dio; ma significa anche identificarsi in Dio, nella consapevolezza che attraverso la propria parte pleromatica Dio manifesta se stesso, si autocomprende.
Tuttavia questo percorso di salvezza resta ambiguo. In linea generale, infatti, sembra giusto affermare che il fondamento rivela se stesso in tutto ciò che lascia essere, che sostanzia con parte di sé, concedendo se stesso; e che l’umano, riconoscendo la propria ontologia, vi coglierà l’essenza del fondamento, si identificherà in esso. Ma è anche vero che un fondamento (presupposto e ammesso come) puramente spirituale e luminoso non può manifestare completamente la sua essenza in un corpo formato da elementi contrastanti, insieme spirituale e materiale, luminoso e buio. Agli occhi di chi vede in se stesso un contrasto necessario alla propria realizzazione, un divario in cui ogni composto è vincolato all’altro per poter essere ciò che è, la possibilità di un’ontologia puramente spirituale come proprio luogo d’origine e permanenza – la possibilità del Regno della Luce, del Pleroma del Padre, in breve il Dio dell’antica gnosi – resta infondata, resta un mistero insondabile.
Il punto qui non è che a una parte non può partecipare dell’interezza del tutto, né conoscere il tutto dalla prospettiva della sua unità – un’affermazione ovvia. Il punto è che la parte spirituale di un mondo ibrido resta al di fuori, o meglio priva dell’intero spirituale al quale tende. La restaurazione effettiva del Pleroma – della forma archetipica in grado di riflettere completamente la Luce come proprio fondamento; della forma archetipica capace d’essere in sé e a sé trasparente, d’essere cioè la stessa autocomprensione di Dio – resta per lo gnostico un’utopia, un οὐ τόπος, finché egli percorre la via del perfezionamento e della salvezza nel mondo, là dove l’insistenza della miscela gli conferma che l’apocatastasi non si è compiuta, che il regno originario del Pleroma non si dà, e dalla fonte di ogni luce continua a venire anche l’ombra che l’offusca, anche il pericolo che la minaccia, anche il limite dell’esserci mondano.
Finché si danno mondo, tempo e finitudine, la soluzione per redimersi dal limite, la gnosi, è sempre in fieri: è mezzo, pratica, esperienza di attrito e di liberazione all’interno di un contrasto che l’esistenza mondana mantiene sempre aperto in se stessa. La gnosi allora, come possibilità ontologico-esistenziale dell’essere umano, va pensata come una tecnica da dispiegare non per eliminare una caducità senza la quale non vi è neppure l’umano, ma per contenere la caduta e rallentarne la spinta verso l’impatto finale, per mantenerla in movimento e ripeterla più a lungo possibile così da mantenere in essa noi.
Note
1 I Vangeli gnostici. Vangelo di Tomaso, di Maria, Verità e Filippo, a cura di L. Moraldi, Adelphi, Milano 1984, L. Moraldi, p. 122.
2 Ivi, Vangelo di Filippo, 74, 20, p. 67.
6 Testi gnostici in lingua greca e latina, a cura di M. Simonetti, Fondazione Lorenzo Valla/Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1993, parte quinta, Clemente Alessandrino, Excerpta ex Theodoto, 78, pp. 391-393.
7 Il valentinismo fiorì e si diffuse intorno al II secolo come una delle più acute, raffinate e complesse visioni gnostiche del mondo. La sua rilevanza fu grande anche per l’apporto che esso diede all’esegesi della Sacra Scrittura. Così ne parla Simonetti nella sua introduzione alle fonti valentiniane: «Lo gnosticismo di tendenza più intellettualistica e più aperta verso la Chiesa cattolica raggiunse la sua akmè, per profondità di speculazione e per raffinatezza di procedimenti tecnici, con la gnosi valentiniana. Sul piano sia della esegesi della Sacra Scrittura sia della dottrina cristologica e trinitaria, i maestri di questa setta gnostica furono all’avanguardia nello sviluppo della cultura cristiana, e in più campi dettero l’avvio a tutta la riflessione posteriore. La loro esperienza, al di là degli irriducibili punti di contrasto con l’ortodossia (distinzione tra il Dio sommo del Nuovo Testamento e il Dio creatore del Vecchio Testamento; distinzione degli uomini secondo diverse nature destinate a diversi destini), arricchì in maniera decisiva la teologia cristiana, che allora muoveva i primi passi» (Ivi, M. Simonetti, p. 201).
8 I Vangeli gnostici. Vangelo di Tomaso, di Maria, Verità e Filippo, cit., Vangelo di Tomaso, detto 18, p. 8.
9 Ivi, Vangelo di Filippo, 73, 20, p. 66.
10 Ivi, Vangelo di Filippo, 73, p. 66.
11 Ivi. Vangelo di Filippo, 77, 10, p. 69.
12 Ivi, Vangelo di Tomaso, detto 86, p. 17.
13 Ivi, Vangelo di Tomaso, detto 42, p. 11.
14 La Trascendenza di Dio, sebbene inconoscibile e indicibile, è comunque pensata e affermata dallo gnostico per via negationis, cioè tramite il suo diniego all’essere mondano, non perché il mondo non valga nulla ma perché con la sua presenza nullifica l’essenza del sé (l’essenza dello gnostico) consustanziale a Dio, al fondamento del tutto, all’Essere; perché in generale, quindi, il mondo contrasta ed eclissa l’ontologia di Dio, che negata in tal modo in se stessa non può essere vissuta e compresa dallo gnostico se non come realtà inapparente, come Trascendenza radicale contrastante a sua volta con la propria positività il mondo. È chiaro che se provo a sottrarmi alla dimensione mondana, e questa esperienza di distanza è già in se stessa uno sforzo di opposizione all’esistenza mondana in quanto tale che contrasta un’altra ontologia – questo è il presupposto metafisico del discorso gnostico –, allora opponendomi al mondo io comprendo ciò a cui (o la positività a cui) esso rimanda mentre vi si oppone a sua volta; sono volto, aperto, partecipe alla direzione del contrasto, cioè alla possibilità ontologica dell’Altro, dell’Oltre, della Trascendenza. È anche in questo senso che posso dire di comprendere per via negationisil Dio ineffabile.
15 G. Filoramo, Il risveglio della gnosi ovvero diventare Dio, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 107
16 L’ordine delle emanazioni di una realtà prestabilita nella sua interezza e perfezione in un unico atto di Dio, dalla quale cioè è esclusa ogni possibilità di mutamento, non è un ordine cronologico ma logico e ontologico, che dà l’idea del maggiore o minore riverbero della potenza del Padre, in quel livello che lo stesso riverbero va a costituire, a seconda della sua distanza dalla fonte.
17 Testi gnostici in lingua greca e latina, cit., parte quinta, Ireneo, Contro le eresie I 8, 6, p. 285.
18 Simonetti nota come l’essere divino si strutturi «in una componente maschile e in una femminile, che però costituiscono sostanziale unità: l’elemento femminile è solo vitalità, delimitazione dell’Eone» (Ivi, M. Simonetti, p. 456). Il partner femminile rende chiaro – e già per questo ha una funzione essenziale – la realtà che il partner maschile deve realizzare affinché l’Eone possa essere così com’è, una compiuta unità di due elementi o funzioni complementari. Tra le coppie ricordate il significato del partner femminile è forse meno intuitivo in quella Uomo-Chiesa. Qui la Chiesa raffigura l’insieme degli uomini che hanno acquisito la gnosi, che vivono cioè secondo la forma piena, del tutto compiuta, del proprio potenziale, quella forma archetipica mostrata dal partner maschile della coppia, l’Uomo. L’Eone Chiesa indica quindi la necessità che la realizzazione dell’Uomo nell’esistenza mondana sia una meta partecipata da tutti gli uomini che possiedono questa forma archetipica in potenza, che sia perciò una meta comunitaria.
20 Ivi, parte quinta, Ireneo, Contro le eresie I 1, 1-2, pp. 285-287.
21 Anche nello gnostico Tolomeo è presente quindi «lo schema teologico variamente attestato in scrittori cristiani e pagani dell’epoca: 1) Dio assolutamente trascendente e inconoscibile; 2) Logos generato da questo Dio che così in lui si circoscrive diventando conoscibile (cfr. Tract. Trip. 66, 13: il Figlio è forma di colui che non ha forma). La duplice caratteristica del Logos di essere generato dalla riflessione del padre su sé stesso (cfr. Allog. 46, 22 sgg.) e di essere orientato verso la creazione del mondo in funzione di intermediario fra il Padre e questa è rilevata da vari scrittori […] Qui nei valentiniani è presente lo stesso schema, più complicato per la tendenza a distinguere come singoli Eoni le varie funzioni e i vari aspetti del Logos […] e a concepire gli Eoni in forma androgina […]. Il Nous corrisponde in sostanza al primo stadio del Logos sopra descritto: è il prodotto del ripiegamento del Primo Principio (= Padre) sulla sua facoltà di pensiero (= Ennoia) e rappresenta il Logos nel suo rivolgersi alla contemplazione del Primo Principio, perfetta immagine di lui, in cui contempla ogni cosa (Verità). Il Logos valentiniano invece rappresenta il secondo stadio, cioè il Logos (= Figlio di Dio) in quanto è rivolto verso la creazione con la sua spinta vitale (= Vita)» (Ivi, M. Simonetti, pp. 481-482).
22 Ivi, parte quinta, Ireneo, Contro le eresie I 2,2, p. 289. Il Preprincipio o Prepadre o Abisso viene chiamato in generale Padre, un appellativo accordato anche al primo Eone proveniente da Lui, cioè Intelletto o Unigenito, poiché il primo Eone non è altro che la forma in cui il Padre comprende se stesso.
23 Qui la passione di Sophia consiste nel desiderio di conoscere il Padre inconoscibile, mentre nella notizia riportata da Ippolito è il suo desiderio di generare qualcosa da sé, in totale autonomia, com’è in grado di fare il Padre; il principio dell’errore in cui cade per passione è comunque identico: è l’ignoranza del proprio limite.
24 I Vangeli gnostici. Vangelo di Tomaso, di Maria, Verità e Filippo, cit., L. Moraldi, p. 123.
26 Testi gnostici in lingua greca e latina, cit., parte quinta, Ireneo, Contro le eresieI 2, 2, pp. 289-291.
27 Ivi, parte quinta, Ireneo, Contro le eresie I 2, 5-6, p. 293.
28 Ivi, parte quinta, Ireneo, Contro le eresie I 2, 6, p. 295. Il Salvatore rappresenta l’estremo opposto rispetto a quello toccato da Sophia, cioè la massima condizione di integrità e armonia riconquistata dal Pleroma a partire dal suo massimo momento di crisi e degrado.
29 Ivi, parte quinta, Ireneo, Contro le eresie I 4, 1-2, pp. 301-303.
30 Ciò che è corporeo non equivale a qualcosa di materico, tant’è che le diverse sostanze (tra cui anche la ilica) acquisiscono la capacità di unirsi e formare corpi solo in un secondo momento. La materia corrisponde piuttosto allo stato in cui sussiste lo scarto della sostanza spirituale, il principio in cui esso stesso muta e si contamina.
31 Ivi, parte quinta, Ireneo, Contro le eresie I 5, 4, p. 309.
32 Ivi, parte quinta, Ireneo, Contro le eresie I 5, 3, p. 307.
33 Gli uomini sono chiamati pneumatici quando il loro principio attivo è lo πνεῦμα, lo spirito, l’essenza divina in cui consiste, per il sé, la possibilità ontologica di risalire al Pleroma, accogliere la Luce che dirada il mistero dell’ineffabile e possedere la conoscenza del tutto. Il principio che guida invece gli psichici è l’anima o ψυχή; essa svolge una funzione intermedia tra quella dello spirito e quella della materia, e ciò significa che gli psichici si trovano a scegliere tra due percorsi esistenziali opposti (dello spirito o della materia appunto) senza che nessuno dei due equivalga al compimento della loro natura. Con “psichici” sono designati nello gnosticismo tutti i fedeli della Grande Chiesa, quella che fu chiamata chiesa cattolica: quanti credono in Gesù Cristo ma attenendosi alle dottrine del cristianesimo, non a principi e miti dello gnosticismo. Gli ilici infine sono uomini che si oppongono all’esistenza degli spirituali e che influenzano le scelte degli psichici per trarne vantaggio; a guidarli infatti è quel che resta di un corpo privo sia del πνεῦμα che della ψυχή, cioè la ὕλη, il cui unico effetto è generare uno stato di ignoranza e di arroganza.
34 Testi gnostici in lingua greca e latina, cit., parte quinta, Ireneo, Contro le eresie I 6, 1, p. 311.
35 Ivi, parte quinta, Ireneo, Contro le eresie I 6, 2, pp. 311-313.
36 Ivi, parte quinta, Ireneo, Contro le eresie I 7, 1, p. 315.
37 Ivi, parte seconda, Ippolito, Confutazione V 8, 28, p. 75.
39 I Vangeli gnostici. Vangelo di Tomaso, di Maria, Verità e Filippo, cit., Vangelo di Verità, 21, 10-20, p. 32.
40 Testi gnostici in lingua greca e latina, cit., parte prima, Ippolito, Confutazione VI 17, 1, p. 31.
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