Una prospettiva panteistica

Di: Giusy Randazzo
4 Febbraio 2019

 

Gettati nel mondo. Una gettatezza che non è così limitata. C’è di più. E questo “in più” è l’universo. Qualche anno fa, l’American Museum of Natural History creò un video – The Known Universe– sulle dimensioni dell’universo conosciuto1. Vi invito a fermare il vostro sguardo sul minuto 3.34.
Ciò che sorprende di quel viaggio immaginifico non è soltanto l’estrema presunzione dell’uomo nonostante la sua insignificante piccolezza rispetto all’intero universo, ma la verità che disvela in termini filosofici. L’immagine del minuto 3.34 è l’universo conosciuto nella sua forma possibile. Circolare. Una sorta di Sfero. Proprio come lo aveva immaginato Parmenide. Ma questa volta è la scienza che ci propone la teoria, non la filosofia. Quello sfero è l’Essere, il piano dell’Essere in cui siamo gettati, con tutta la nostra presunzione. Noi, piccole scintille del Tutto a cui faremo ritorno. È sempre la scienza a ricordarci ormai da secoli che il postulato di Lavoisier è vero: «Rien ne se perd, rien ne se crée», nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma; è il primo principio della termodinamica. Anche la nostra coscienza è parte dell’intero e della sua energia, e anch’essa è destinata a tornare all’intero. Ma esiste l’entropia che è una sorta di dissipazione dell’energia. Qui entra il mistero o ciò che a noi è ancora ignoto. L’entropia è inversamente proporzionale all’energia. E cresce sempre. Sarebbe già dovuto finire tutto, eppure non è così. Prigogine scoprì che, inaspettatamente, si creano sempre delle «isole di ordine in un mare di disordine, che mantengono e addirittura accrescono il proprio ordine»2 che si oppongono al processo di irreversibilità entropica.
Il perché non ci è dato saperlo. Non abbiamo molto tempo da vivere eppure viviamo immaginandoci immortali, costruiamo come se non dovessimo morire mai, lavoriamo come se non dovessimo morire mai, sprechiamo tempo come se non dovessimo morire mai e cerchiamo dio per non morire mai. Eppure Dio è a nostra disposizione. Davanti agli occhi di tutti, ma solo pochi lo vedono. È qui. È quell’albero, quel cagnolino, quella mucca, quel passante, quel pesciolino. È quella stella, quella lontana galassia. È quello spazio nero, quel vuoto apparente, quella materia oscura che ipotizziamo. Ma non lo vediamo. Lo cerchiamo al di fuori di quell’Essere. Noi quell’Essere neppure lo rispettiamo. Lo diamo per scontato. Chiamiamo Natura qualcosa di definito e indicabile. L’albero, per l’appunto. Un prato, un bosco, un paesaggio rurale. Riusciamo a fare della nostra vita un’eternità, ma non siamo in grado di dilatare i confini della Natura, limitandola a un perimetro ridicolo. La Natura è l’intero universo. È l’Essere. Quel video ci mostra ancora una volta la nostra presunzione. Riteniamo di essere creature divine, superiori a qualsiasi altra specie. Abbiamo bisogno di un dio tutto nostro che nulla abbia a che fare con questo Essere, che lo superi, che lo renda un semplice “prodotto”, una natura naturata che sta qui, che è meno di noi, perché noi abbiamo coscienza, quell’Essere no. Così abbiamo creato un dio trascendente, al-di-là. Ma neanche il linguaggio ci aiuta per questo quell’avverbio -là- si fa improprio, perché fa riferimento a un luogo aspaziale e atemporale, assolutamente inesistente. Abbiamo avuto così bisogno di creare anche quel luogo e l’abbiamo chiamato “aldilà” un al di là che non è là.

L’ente la cui essenza è costituita dall’essere-nel-mondo è sempre esso stesso il suo «Ci». Nel suo significato più familiare, il «Ci» indica un «qui» o un «là». Il «qui»di un «io qui»è sempre compreso a partire da un «là»utilizzabile, nel senso di un essere-per questo utilizzabile, essere-per che si prende cura, orienta e disallontana. La spazialità esistenziale dell’Esserci, che ne determina il «posto», si fonda anch’essa nell’essere-nel-mondo. Il «là» è la determinazione di un ente che è incontrato come intramondano. «Qui» e «là» sono possibili solo in un «Ci», cioè solo se esiste un ente che, in quanto essere del «Ci», ha aperto la spazialità. Nel suo essere più proprio questo ente ha il carattere della non-chiusura. L’espressione «Ci»significa proprio questa apertura essenziale. Attraverso essa, questo ente (l’Esserci) «Ci»è per se stesso in una con l’esser-ci del mondo3.

E quando ai bambini si racconta che i morti vanno in cielo, non si sa di dire il vero mentre in verità si dice il falso. È vero che ritorniamo al cielo dell’Essere, è falso che il Dio ebraico-cristiano o quello islamico ci accolgano in cielo. Quale cielo? Il nostro? No, quello dell’aldilà che non esiste. Alla nostra morte andiamo sì in cielo, come ogni fonte energetica che si disperde trasformandosi, ma non nell’aldilà. Andiamo nel nostro cielo, che sta pure in terra. Quell’Essere che il video ci mostra nella sua datità circolare è tutto intero un intero. Nulla possiamo domandare del prima. Prima di questo inizio che cosa c’era? Il linguaggio non aiuta. Esso stesso è essere. Pretende la temporalità. Il tempo però nasce con l’Essere. È l’Essere stesso che si dispiega nella sua complessità molteplice rimanendo un’«unitaria pluralità».

Lo statuto ontologico del tempo è una dinamica di identità differenza. Ogni ente rimane nel tempo ciò che è ma nel tempo muta in ogni istante. Passato, presente futuro non sono tre né uno ma costituiscono l’unitaria pluralità del divenire naturale e della misurazione da parte di una coscienza: ora, già e non ancora. In ogni istante ciascun ente è se stesso e già non è più. Non va però verso il non essere, in direzione del ni-entema si dirige verso il non ancora implicito nell’essere stato. […] Ogni variazione nasce dentro la continuità temporale dell’ente e ogni continuità è in divenire. Differenza e identità si rimandano reciprocamente e dipendono l’una dall’altra. Il tempo è questa identità differente. Esso è costituito ogni volta e sempre da passato, presente, futuro, prima, poi. L’essere è evento. Ogni immagine-mondo stabile e perenne va sostituita dall’immagine-tempo che è la verità del mondo.

E ancora:

Il tempo nel quale accadono gli eventi è un’illusione fisicalistica e teologica. La realtà -l’essere- consiste nell’accaderedegli eventi come identità/differenza della materia nei diversi strati e strutture che la compongono. Strati che vanno dal puro sussistere fisico-chimico all’esistere come coscienza consapevole. Il tempo è l’essere nella sua unità plurale di identità e differenza4.

E intorno a quell’Essere che cosa c’è? Cos’è quel nero che sembra confinare con i suoi confini? Null’altro che un modo per mostrarcelo. Si tratta di un video. Mai potremmo assumere quella prospettiva. È la prospettiva del monoteismo e dell’eccellente studioso che ha prodotto quel video. E dunque verso cosa si espande questo universo? L’Essere? La risposta più ovvia sarebbe: nel nulla. Il Nulla è il non-essere. Ciò che non si può pensare, ciò che non si può neanche dire perché se lo dici è già qualcosa, fosse anche una parola. E come può l’Essere confinare col non-essere o addirittura esserne contenuto? Che nonsense è questo? Come può l’infinitamente grande confinare con l’infinitamente piccolo? Cusano sosteneva che Dio fosse coincidentia oppositorum. Non è forse lapalissiano che il nostro Dio si celi pur mostrandosi? Che abbiamo la possibilità di vederlo, di abbracciarlo, di amarlo, senza santi e senza crocifissi, senza statue e senza orpelli, senza guerre e senza religioni positive, eppure lo rinneghiamo giornalmente, lo uccidiamo scriteriatamente?
E il sonno non ci dice molto di più. Non ci dice forse che questa coscienza che abbiamo è troppo per noi? Che la notte è un gran bene sottrarcene? Domandate a un insonne quanto darebbe pur di sottrarsi a se stesso durante la notte. Dormire ci dà la dimensione della gioia di una vita al di là della coscienza. Ma non avremmo coscienza neanche di gioire? La coscienza è opposizione, è differenza. Gioia-dolore, vita-morte, bello-brutto, buono-cattivo, vittima-carnefice, innocenza-colpevolezza. L’Essere è acquietamento delle opposizioni, perché le contiene e le armonizza. Siamo noi a vederle, a enumerarle. È la nostra coscienza. Non è colpevole lo tsunami, non è colpevole il terremoto e non sono colpevoli i vulcani e neanche le supernovae che esplodono sono colpevoli. Non è colpevole la Terra e non è colpevole nella sua interezza l’Universo. L’Essere è innocente. Il più innocente di tutti. Solo gli uomini sono colpevoli perché con coscienza compiono il male.
Manipolano gli enti distruggendo, giustificano la distruzione con un religioso specismo che trova un alibi nel dio che si sono creati a misura della loro presunzione per scagionarsi dal misfatto. Si riconoscono nella loro infinita colpevolezza, nella loro smisurata e goliardica e famelica volontà di essere-per-sempre. E mentre tentano l’impossibile, uccidono. Hanno ucciso tutti gli dèi con cui divinizzavamo ogni elemento naturale, hanno creato un dio al-di-là di Dio, hanno trasformato questo pianeta in un parco giochi per dei piccoli insetti che si credono magnifici ma di cui la Terra farebbe volentieri a meno. Fossimo magari insetti, saremmo persino utili. Eppure tanta acredine contro l’essere umano potrebbe scomparire se solo l’essere umano stesse al suo posto. Se solo si rendesse conto che questa gettatezza è la stessa di quella del mio cane. Che insomma siamo. Tutti insieme. Enti tra gli enti. Se solo trasformasse quelle chiese in chiese per inneggiare all’Essere. Per amarlo profondamente. Siamo piccoli io ipertrofici che credono di poter dominare l’intero universo. Non siamo, neanche, gettati sulla Terra alla nostra nascita. No, siamo gettati dentro il bidone di un’umanità feroce, che è pronta a divenire ancora lupo per l’altro uomo, utilizzando come mezzi ciò che ha fatto divenire scopi: capitalismo e tecnica. Un’umanità in cui bisogna sopravvivere e che è tronfia del supremo dominio raggiunto sulle cose, sugli altri viventi, del grado di manipolazione e trasformazione degli enti a cui è riuscita a pervenire e che non conosce più limiti.
Questi miliardi di io ipertrofici capaci di schiavizzare ancora, di essere ancora ciechi, di essere incapaci di salvaguardare il pianeta e la loro stessa specie, di acconsentire ancora che l’agire economico – finalizzato all’accumulazione del profitto – conduca a un tale sfruttamento della Terra da determinarne la distruzione e porti a creare sacche di povertà inaccettabili, allucinanti e doverosamente inaccessibili allo sguardo; questa misera umanità che si crede dominatrice di un pianeta di sua proprietà meriterebbe di essere annientata da un sacro Melancholia5. Tutta intera. Buoni e cattivi, poveri e ricchi, affinché finalmente Gaia possa respirare e gli oceani di sofferenza provocati dall’uomo all’altro uomo o alle altre specie abbiano finalmente termine.

 

Note

1 Disponibile su Youtube al seguente indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=17jymDn0W6U (ultima visita 25.1.2019)

2 F. Capra, La rete della vita. Perché l’altruismo è alla base dell’evoluzione, trad. di C. Capararo, BUR, Milano 2016, p. 211

3 M. Heidegger, Essere e tempo (Sein und Zeit), trad. di P. Chiodi (rivista da F. Volpi), Longanesi, Milano 2009, § 28, p. 165.

4 A.G. Biuso, Temporalità e Differenza, Olschki, Firenze 2013, pp. 107 e 111.

5 Cfr. l’omonimo film di Lars von Trier (2011).

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