La libertà di Machiavelli

Di: Stefano Piazzese
4 Febbraio 2019

 

Pensare ai confini del potere. Pensare al potere nel suo sviluppo storico e teoretico dalle epoche che ci precedono fino ai giorni nostri. Riflettere intorno a quell’antico “gioco” che  l’Homo sapiens, animale tra gli animali, esercita da sempre. Libertà ostinataMachiavelli e i confini del potere è un’occasione per tentare di rispondere a domande antiche che la filosofia pone in essere: chi è l’uomo?; «Dove abita dunque la libertà?». Parlare della libertà, categoria semplice ma ambigua, rispecchia l’esigenza dell’uomo di fare chiarezza intorno alla propria esistenza. E quale punto di partenza migliore di colui che viene considerato il fondamento del pensiero politico moderno?

Una raccolta di saggi la cui finalità etico-scientifica è la trattazione del macro-tema della libertà; una trattazione la cui ricchezza di contenuti è costituita da due diversi approcci intellettuali e scientifici allo stesso tema: storico/critico e teorico-speculativo. L’intento dell’Opera è anche quello di mostrare l’intrecciarsi di queste due esigenze scientifiche: «Da un lato l’imprescindibilità e la resilienza del testo machiavelliano, in tutta la sua ricca e contraddittoria complessità, immerso in quel tempo e in quella storia; dall’altro l’urgenza di una riflessione che riporti all’oggi e attualizzi quel messaggio mostrandone l’inquietante e urgente modernità.» (Scuderi, p. 13). Perché attualizzare la riflessione politica machiavelliana e riportarla all’oggi? La risposta a tale interrogativo può essere colta in diversi momenti della lettura, sebbene, come vedremo, è possibile imbattersi in risposte non esaustive, ma che nella loro non esaustività, certamente, continuano a manifestare il carattere dinamico ed esplorativo di chi pone al centro della propria ricerca il dialogo: in questo caso il dialogo con il pensiero di Machiavelli. Dialogo che può aiutare a comprendere la realtà politica del nostro tempo; dialogo che può fare luce nel tentativo dell’uomo di comprendere l’uomo, il mondo in cui egli vive, il mondo che egli è. Il tentativo di attualizzare la riflessione politica di cui si parla nasce da quell’atteggiamento di vita, descritto nello Zarathustra da Nietzsche, secondo cui «inesaurito e non scoperto è ancor sempre l’uomo e la terra dell’uomo»1.

Migliaia di pagine sono state scritte sul pensiero e sulla vita di Niccolò Machiavelli, eppure vi sono sempre orizzonti nuovi del pensiero che possono essere osservati, esplorati, riconsiderati, reinterpretati; stanno lì, attendono l’onestà intellettuale di chi ha la capacità e il coraggio di guardare l’uomo e la terra dell’uomo, dunque anche tutto ciò che l’uomo ha creato, non come dei contenitori in cui tutto è dato una volta e per sempre, ma come dei vulcani in eruzione che, nonostante la loro arcana presenza nello spazio e nel tempo, sono sempre pronti, nel passato come nel presente, a dare prova del meraviglioso e terribile spettacolo della natura che noi siamo.
A proposito del tentativo di attualizzare la riflessione politica machiavelliana Alessandro Arienzo, nel trattare Libertà e desiderio, scrive: «La crisi dei grandi attori politici e collettivi che ha segnato gli ultimi decenni del vecchio millennio e i primi del nuovo è tra le ragioni dei rinnovati sforzi della filosofia contemporanea di individuare l’emergere di nuove soggettività politiche […] Non deve quindi sorprendere che nel tentativo di cambiare il mondo la filosofia critica abbia ricercato una genealogia diversa dal moderno» (p. 15). Non si può comprendere il pensiero di Machiavelli se non si rileva anche la vicinanza tra lui e noi, e tale vicinanza ha un nome: desiderio. Il problema del desiderio, come lo chiama Arienzo, è un punto fermo nel dibattito filosofico-politico che vede le diverse interpretazioni di Machiavelli: egli è “realista” o teorico repubblicano? A questa domanda si risponde delineando un profilo antropologico del potere che è trasversale, ovvero: indipendentemente dalla forma in cui si manifesta, il potere ha un solo “carattere”. Quale? «Spinta di dominio, ambizione, desiderio di libertà ma anche brama e cupidigia, sono tutte tensioni che appartengono alla politica» (Arienzo, p. 17). Come si colloca allora il desiderio di libertà nell’intrecciarsi di queste tensioni? «La questione di come si possa quindi giungere a “desiderare la libertà”, e desiderarla collettivamente, resta allora un tema propriamente politico, inscritto in una prassi che è essenzialmente storica e polemologica, e che non può essere sciolto attraverso alcuna riduzione antropologica della politica» (Ibidem). Ma il desiderio di libertà, – desiderio che nasce successivamente alla soddisfazione dei desideri cosiddetti primari – connaturato nell’essere umano, si scontra con il mondo della necessità, la stessa necessità che determina l’essenza dell’uomo. E qui vediamo come uno dei temi, una delle domande più antiche della storia del pensiero, riemerge in tutta la sua inesauribile vivacità teoretica: l’essere umano è libero o determinato? La possibilità di pensare la distinzione tra necessità e ambizione in Machiavelli è data dalla profonda e autentica considerazione dell’identità dell’ente-uomo come viva materia, sottomesso all’imperio del bisogno e della necessità; «In tensione con questa necessità naturale opera tuttavia un genere diverso di necessità, di natura storica, prodotto dell’agire umano che è libero, che può innalzare gli uomini dalla loro condizione ferina ma che può corromperli e può mettere a rischio la prima natura» (Arienzo, p. 26). La potenza del desiderio in Machiavelli richiama la concezione dell’essenza dell’uomo come “potenza ad essere”, e rispecchia la sua naturale libido dominandi, che fa di lui potentia agendi.

Se, come abbiamo visto, l’uomo è viva materia sottomessa all’imperio del bisogno e della necessità, è proprio al suo corpo, alla sua corporeità che lo rende un frammento di mondo, che bisogna guardare per meglio comprendere due aspetti inscindibili dal potere: aggressività e violenza. Intorno a questa considerazione si sviluppa Libertà e animalità di Alberto Giovanni Biuso il cui intreccio teoretico/antropologico può essere espresso da quanto segue: «Aggressività e violenza ci suggeriscono dunque che se vogliamo capire il potere dobbiamo partire dalla corporeità che tutti ci accomuna. La vita si fonda sui corpi e sul loro bisogno di nutrirsi e di difendersi. L’insieme dei corpi forma la società» (p.41). Se l’essere umano è, come lo definisce Heidegger, Mit-sein, cioè un essere in relazione con gli altri, riflettere sulle dinamiche che presidiano l’aspetto relazionale dell’uomo costituisce un tentativo di rispondere alla domanda sulla natura del potere; natura che viene subito analizzata nel primo paragrafo del saggio di Biuso. Ma la domanda che, a parere di chi scrive, si fa portatrice di un grande interesse filosofico-antropologico è anche la seguente: perché gli umani rinunciano alla libertà e si sottomettono al potere? Infatti «il dramma del potere, la sua forza, sta anche nella complessità della natura umana e delle relazioni che individui e società intessono tra loro» (Biuso, p. 39).
Bisogna guardare la natura profonda del potere, i suoi strumenti – come la dissimulazione – , l’uso della coercizione intrinseco a ogni scopo, per dire, anche alla luce della spinoziana distinzione tra  Potentia Potestas, che potere è innanzitutto azione: azione su qualcosa, azione su qualcuno. Dunque un atto che rispecchia la natura aggressiva e violenta di cui abbiamo parlato. Ma la violenza non deve costituire l’unica prospettiva da cui analizzare l’azione del potere. Vero è che la violenza è il mezzo mediante il quale l’essere umano riesce a realizzare molti dei suoi desideri, «il suo senso è la perpetuazione dell’atto di dominio con il quale il sopravvissuto gioisce dell’esserci ancora, esulta del potere che gli conferisce il dare la morte» (Biuso, p. 41), ma nell’analisi della natura del potere bisogna considerare anche un altro aspetto: quello dell’adesione o riconoscimento – qui La Boétie ci è di aiuto.
Torniamo dunque alla domanda posta prima, ovvero, perché gli umani rinunciano alla libertà e si sottomettono al potere? Possiamo tentare una risposta: l’essere umano si sottomette al potere per ottenere benefici, garanzie e soprattutto per paura. Per tali ragioni egli soddisfa la sete che il potente ha di prestigio, autorevolezza e forza. Colui che obbedisce lo fa per essere riconosciuto, poiché «l’autorità consiste nel bisogno del soggetto di venire accettato per il fatto di essere in un certo modo» (Ibidem). Il potere, inseparabile dalla violenza, è costituito dall’assenso di tutti coloro che ne divengono subordinati, e su tale assenso, su tale “pietra”, ogni potere e potente edificano “la propria Chiesa”, avviano processi di istituzionalizzazione il cui obbiettivo è quello di perpetrare l’esercizio del dominio in saecula saeculorum. In tutto ciò Homo Sapiens non è diverso dagli altri animali, ragion, questa, che limita ogni tentativo di innalzare la bandiera di qualsivoglia umanismo. E il rapporto profondo che Machiavelli, nelle sue opere, istituisce tra natura e cultura, «tra animalità umana e animalità universale, mostra che una teoria politica realmente materialistica deve fondare se stessa anche sulla biologia» (Biuso, p. 54). Partendo dalla riflessione sul potere, allora, possiamo domandarci: chi è l’uomo? E trovare la risposta a tale domanda in una definizione molto sensata, disincantata e profonda che leggiamo tra le pagine della filosofia nietzscheana. Un sentimento di umanità che, come un continuum, attraversa il pensiero occidentale (basti pensare a Machiavelli, Leopardi): «Un’umanità il cui sentimento fondamentale è e rimane quello per cui l’uomo è l’essere libero nel mondo della necessità, l’eterno taumaturgo, sia che agisca bene, sia che agisca male, la sorprendente eccezione, il super-animale, il quasi-Dio, il senso della creazione, il non pensabile come inesistente, la parola risolutiva dell’enigma cosmico, il grande dominatore della natura e dispregiatore di essa, l’essere che chiama la sua storia storia del mondoVanitas vanitatum homo»2.

Per comprendere la complessità di quanto detto sinora spostiamoci sul versante filologico e storico/critico, dove Attilio Scuderi tratta il tema delle asimmetrie della libertàintesa, quest’ultima, come categoria adatta per demistificare le assunzioni radicali e apodittiche di libertà assunte dal linguaggio politico. Uno sguardo storico ci può aiutare a comprendere il limite stesso del concetto di libertà quando esso non rimane pura astrazione ma diviene tentativo umano di costruire e distruggere; di determinare i confini della libertà nel suo rapporto con le leggi di uno stato: il tema della deroga allo “stato libero” e il rapporto tra libertà ed emergenza/necessità. Domanda Scuderi: «In che senso oggi è possibile affermare che le società X e Y, ispirandosi sul piano costituzionale a principi di libertà individuale e civile, sociale e collettiva, siano società “libere”?» (p. 120). Il senso di questa domanda è quello di mettere in dubbio anche la risposta generica secondo cui «sono le leggi di quella determinata società che si ispirano a criteri di libertà di espressione, confessione, associazione» (Ibidem).
È proprio l’invocazione dello stato d’eccezione, come regola entro cui convivono gli opposti, come cortocircuito della libertà, che spiega il contesto sociale in cui Machiavelli elaborò il suo pensiero politico – la Firenze del XVI secolo – ma non solo esso se consideriamo la storia dell’Occidente sino ai nostri giorni. E infatti, in riferimento al Patriot Act votato dal Congresso degli Stati Uniti e al Military Order emanato da G.W. Bush, Scuderi scrive: «Un esempio lampante di tale cortocircuito nella sfera delle libertà è costituito dalla legislazione d’emergenza americana seguente all’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 e dai suoi duraturi effetti» (Ibidem). Dunque, si manifesta, come bisogno intrinseco alla vita di ogni società storica moderna la possibilità di fare appello a uno “stato di eccezione”, concepito secondo il principio necessitas legem non habet,inteso come «la forma legale di ciò che non può avere forma legale» (Ibidem). Così, all’interno di uno stato, nel cuore della vita sociale dove l’osservazione delle leggi scandisce il “quieto” vivere, si apre lo spazio dell’eccezione, dell’emergenza.
Lo stesso spazio è possibile esperire nelle dinamiche di potere dello Stato di diritto contemporaneo: lo spazio in cui viene messo in discussione lo stesso concetto di libertà, lo spazio in cui è possibile parlare di cortocircuiti della libertà, lo spazio in cui ci si può render conto che, per quanto possano apparire forieri di ‘nobili’ principi i suoi sviluppi sociali, il potere torna ancora e sempre alla sua fonte: un atto di supremazia non avulso dalle poliedriche forme della violenza e aggressività.

Avvicinarsi alle opere di Machiavelli come i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (circa 1513- 1517), ci permette di guardare dritto negli occhi il vero volto del potere. L’esistenza di uno “stato di emergenza” manifesta proprio questa necessità intrinseca alla natura di ogni potere: stravolgere l’ordine costituito per mantenere il potere raggiunto dai pochi. Difatti, se si riflette sul fatto che lo stato d’eccezione rappresenta a tutti gli effetti il sintomo di uno scontro endogeno o esogeno della società, non può mancare la considerazione sul vincitore: nell’orbita degli scontri del potere, chi vince quando viene invocato lo “stato d’eccezione”? «Vince il più veloce, il più abile, il più ardito; non “necessariamente”, o quasi mai purtroppo, il più giusto, l’uomo buono o il prudente ordinatore d’una repubblica. Vince spesso chi decide sullo stato d’eccezione medesimo e dunque pone un cortocircuito tra libertà, diritti e comunità, riducendo le relazioni di libertà ad atti potenzialmente formali e privi di contenuto» (Scuderi, p. 136). Ancora una volta la violenza di pochi sui molti, ancora una volta la libertà sacrificata sull’altare di una presunta emergenza, nella forma spesso di ineluttabile scontro, per cui bisogna sempre e subito sottomettersi totalmente a chi dirige questo gioco nefasto che in molti casi viene rivestito dall’abito dei “sani principi”. Sono sufficienti gli ultimi venti anni di storia occidentale per rendersi conto che grandi spargimenti di sangue, esplicite invasioni e tempestivi interventi militari in nome di determinate “emergenze”, hanno issato sempre il vessillo dei valori della democrazia, della giustizia, della liberazione dall’oppressore e della pace. Ma un’attenta analisi dei confini del potere, partendo proprio da Machiavelli, fa sorgere una domanda: stanno davvero così i fatti?  Grande contraddizione è l’uomo.

Alla luce di quanto detto sinora sorge anche la critica che riguarda una lettura degli ultimi due capitoli del Principe – ai quali dedica particolare attenzione Maurizio Viroli – nei quali Machiavelli, si dice, vuole convincere che «l’azione di emancipazione politica è possibile, e che coloro che in essa si impegneranno raggiungeranno gloria duratura» (Scuderi, p. 139). È possibile fare di Machiavelli il teorico dell’emancipazione politica? Se consideriamo che nello stesso saggio ci vengono presentate anche le diverse strumentalizzazioni del pensiero di Machiavelli – come ad esempio il fascismo che ne fece il teorico della forza – appare chiaro che bisogna operare una certa prudenza nei confronti di qualsiasi definizione che vuole fare del pensiero politico di Machiavelli un “manifesto di”. Perché se è vero che i suoi scritti possono aprire spiragli di riflessione sul tema dell’emancipazione politica, del rinnovo morale e della coscienza civile per il benessere e la prosperità del principato, è vero altresì che come abbiamo visto sin qui, la produzione intellettuale del pensatore fiorentino getta luce sulla vera natura del potere dandone una visione disincantata e quanto più vicina alla natura dell’essere umano.
Il potere può emancipare? E se la risposta è sì, allora si domanda: da cosa il potere può emancipare i popoli, dati i limiti e i suoi elementi costituenti (aggressività e violenza)? Secondo Viroli «l’azione politica che diventa profezia e poesia per redimere i popoli e fondare stati non era l’antitesi della politica che Machiavelli aveva teorizzato bensì l’interpretazione più vera di essa» (p. 167). Di grande interesse, nella riflessione di Viroli, è la considerazione del pensiero machiavelliano nella sua vicinanza al poetare. Machiavelli nella su azione politica è non solo profeta, ma pure poeta: «Il Principe termina con il silenzio di Machiavelli. Convinto, che “i poeti molte volte sanno essere di spirito divino re profetico ripieni.” (Viroli, p. 141). La stessa vicinanza del pensare e del poetare che viene richiamata nella filosofia di Martin Heidegger, e che mostra quanto questi due modi di abitare la casa del linguaggio costituiscano la dimensione autentica dell’essere umano come zòon lògon èchon: «Il destino del mondo si annuncia nella poesia» (Lettera sull’«umanismo», cit., p. 294), «La poesia è istituzione in parola dell’essere»³. Se Nicolò Machiavelli è poeta, e se la sua produzione intellettuale è un esempio di ciò, lo è in questo senso.
Quanto è difficile poter parlare di libertà? La società in cui viviamo invita oggi più che mai, forse, a riflettere su questo concetto, su questa aspirazione umana, su questo modo di sentire che l’essere umano pone come questione intorno alla quale pensare e agire. Libertà ostinata non è solo il titolo dell’opera di cui si parla, ma pure una chiave di lettura per comprendere la complessità delle dinamiche del potere a partire da Machiavelli fino ai giorni nostri. Perché fino ai giorni nostri? Perché il potere cambia abito, si presenta in forme diverse e rinnovate ma, al mutare dei suoi accidenti, la sua sostanza, la sua vera identità, rimane la stessa.

Al termine della lettura si può constatare come la libertà rimane un grande enigma, un paradosso, una conquista sempre ambita ma non avulsa da contraddizioni che sono i suoi limiti stessi. Leggere una raccolta di saggi su Machiavelli e i confini del potere, riuscendo a cogliere le diverse sfumature di carattere scientifico che appartengono ai due diversi approcci adoperati nella trattazione, può costituire un’occasione di arricchimento dello spessore critico del lettore, dello studente, dello studioso, che non deve mai mancare quando si affronta un tema tanto discusso quanto “pericoloso”: «L’auroralità del pensiero machiavelliano – come ha ben detto Althusser “Machiavelli è inizio” – e il magma e l’apertura conoscitiva che ne percorrono la scrittura ben si sposano con questi assunti. Proprio per questo nei saggi che seguono la dimensione ricca e plurale del pensiero di Machiavelli e della sua esperienza di libertà è posta al centro di un’indagine plurale e multidisciplinare» (Scuderi, p. 12).
Dunque, in conclusione, riproponiamo l’interrogativo formulato all’inizio che, come un punto fisso, può guidare chi legge nella comprensione dei temi trattati nei vari saggi (che per ragioni di spazio non sono stati qui tutti citati), e nella comprensione della propria esistenza in generale: Dove abita dunque la libertà?

 

Attilio Scuderi (a cura di)
LA LIBERTÀ OSTINATA
Machiavelli e i confini del potere
Mimesis Editore
Milano-Udine 2018
Pagine 186

 

Note

1 F.W. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Parte I, Della virtù che dona, in «Opere» VI/1, Adelphi, Milano 1967 e sgg., trad. di M. Montinari, p. 91.

2 Id., Umano, troppo umano II, in «Opere», cit., IV/3, trad. di S. Giametta, af. 12, p. 141.

3 M. Heidegger, «Hölderlin e l’essenza della poesia», in La poesia di Hölderlin, trad. di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1988, p. 46.

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