Temporalità e Differenza
«Ποταμοῖσιτοῖσιν αὐτοῖσιν ἐμβαίνουσιν ἕτερα καὶἕτερα ὕδατα ἐπιρρεῖ»: acque sempre diverse scorrono intorno a quanti si immergono negli stessi fiumi, ma anche acque diverse scorrono intorno alle stesse persone che s’immergono nei fiumi [1]
Alle origini della filosofia greca (e della filosofia in generale), Eraclito ci ha insegnato che «non possiamo bagnarci nelle medesime acquema possiamo ben immergerci nello stesso fiume» (p. 13), disegnando con questa limpida metafora il volto del divenire nel mondo in cui sono immerseanche le nostre identità. L’indagine teoretica e multidirezionale di Biuso si propone di analizzare l’identità e la differenza dell’Essere e del Daseina partire proprio dal divenire, e cioè dal Tempo. Un «politeismo del tempo» (p. 1), per la precisione, che – come l’antico politeismo greco – porta con sé tanti modi di dire il mondo, tanti modi di darsi del tempo: nello spaziotempo della fisica, nel corpotempo della biologia, e soprattutto in ciascun individuo che sia materia cosciente della propria temporalità.
La complessità di una simile analisi, in effetti, discende dal suo stesso oggetto, che non appartiene in maniera esclusiva a nessuna scienza, e difatti per lungo tempo è stato semplificato nell’identificazione con la staticità (Parmenide) o con un’eternità paradigmatica (Platone), rinchiuso nell’interiorità della distensio animi(Agostino), ridotto al movimento reversibile nello spazio per renderlo misurabile (scienze galileiane). Le teorie scientifiche che in età contemporanea tentano di spiegare la complessità dell’universo non sono da meno: eleatica tanto quanto la fisica parmenidea, la relatività einsteineana ha respinto l’ipotesi della direzione irreversibile della freccia del tempo, anche al costo di cadere in contraddizioni e paradossi ancora insoluti. Per esempio, la consistenza logica della possibilità dei viaggi nel tempo si scontra con l’inconsistenza ontologica della loro effettiva riuscita, a dimostrazione che «il passato e il futuro sono reali non soltanto nel significato che la relatività dà loro ma anche e soprattutto nel costituire sia la mente sia la materia» (p. 30).
In una prospettiva così vasta – eppure così lucida – è quindi difficile dare una definizione assoluta e indeclinabile del tempo, ma sul piano epistemologico è consentito inferirla dalle sue manifestazioni. Certamente il tempo non è la staticità irrelata e scevra di significato dell’hic et nunc; esso è piuttosto l’accadere degli eventi, e di tali eventi non è (solo) la successione cronologica, ma (anche) l’incessante fluire. Di tale fluire è cosciente la mente umana, che nel suo strutturale Essere-di-volta-in-volta[2] costituisce l’incarnazione stessa del tempo.
La verità della materia che si fa mondo risiede così nel corpotempo (Zeitleib, p. 86), cioè nel corpo isotropo che tesse la trama dei significati con i fili della datità a esso circostante, ed è grazie a questa relazione con lo spazio che si sviluppa la coscienza della dimensione temporale dell’individuo. I neonati, infatti, provenendo da una dimensione in cui non sussiste distinzione tra il proprio corpo e quello della madre, non hanno nemmeno percezione della durata temporale. Per converso, solo quando è in atto questa distinzione nel corpo si addensano i ricordi; prima di allora, «l’ordine del tempo è identico all’ordine dello spazio» (p. 7), mentre a seguito di questa stratificazione prende forma l’equilibrio mutevole dell’identità soggettiva. Di questo equilibrio si nutre poi, durante l’intero corso dell’esistenza, la mente che intenda mantenersi sana:
Gli stati di salute della psiche – sempre fragili – consistono anche nel mantenimento di un equilibrio spaziotemporale che è paredro di quello psicosomatico; consistono nell’evitare gli eccessi sia statici sia dinamici mediante l’armonia tra la durata pensata e la durata vissuta e quindi nel superamento della contrapposizione tra soggetto e oggetto, alla quale lo spaziotempo vissuto oppone invece la ricchezza del presente come dispiegarsi qui e ora della materia consapevole e intenzionale, incessantemente aperta al nuovo, al divenire, al futuro (p. 7).
Dalla monotonia in cui si cade per via di una malattia psichica, può redimere e salvare solo il tempo in cui si dispiega la pluralità di significati che in quella condizione è venuta a mancare. Il malato psichico, in altre parole, è un negatore del tempo che ha precluso a sé stesso l’orizzonte delle possibilità future[3], e cioè che ha perso la capacità di cogliere le differenze che scorrono tra gli enti e tra gli eventi da un istante all’altro. Sono le differenze che costruiscono i significati e per natura conducono all’identità del processo temporale unitario nel quale accadono:
Il significato è anche poter confrontare lo stesso oggetto in due o più situazioni differenti, in modo da cogliere i rapporti di quell’ente o evento o processo con il tutto nel quale va accadendo. Anche per stabilire che non c’è stato alcun cambiamento bisogna confrontare due momenti diversi. E se a ciò che muta possiamo attribuire il medesimo nome/identità, è perché mentre il mutamento accade qualcosa rimane (p. 109)
Il disorientamento temporale che caratterizza alcune forme patologiche della memoria (l’altro nome della coscienza, e di conseguenza dell’identità) origina proprio dalla perdita dei nessi di rimando e di semanticità tra gli enti dati nel mondo e della relazione tra sé e le situazioni in cui si è immersi. Ipertimesia e amnesia, che si presentano diametralmente opposte nei rispettivi quadri clinici – eccesso di ricordi la prima, parziale o totale perdita di memoria la seconda – trovano il loro punto di contatto nella temporalità perduta della coscienza che da esse è afflitta. Nella sua assenza, il ritmo di sistole e diastole tra ricordare e dimenticare svela tutta la propria importanza:
senza memoria non è possibile ritrovare ogni mattina il nostro io. Allo stesso modo è necessario dimenticare, non soltanto per distinguere le informazioni utili alla sopravvivenza e al benessere rispetto a quelle superflue ma anche perché è solo dimenticando che il passato può costituirsi come passato, può passare e non rimanere una struttura del presente. […] il nome stesso degli umani è memoria, una memoria che consiste nell’inevitabile dolore dell’aver vissuto, dell’essere stati, dell’essere morti (pp. 45-46).
Inoltre, la struttura temporale è anche ciò che accomuna la lingua e il corpo che la parla, ed è in questo suo essere custode del Tempolinguaggio (p. 73) in cui dimora che il corpomente può ricostruire la propria identità spezzata dalla rinuncia «a quello slancio verso “l’ha da essere” il cui rallentamento schiaccia la vita sotto il peso di un passato immobile» (p. 6). Così, esistono terapie patient-centred che, considerando l’umano nella sua unità di βίος e ψυχή, partono dal linguaggio del corpo o dalla narrazione esistenziale. La psicoanalisi, per esempio, utilizza la narrazione (in questo caso per libere associazioni) per individuare il punto in cui l’urto dell’esperienza vissuta ha bloccato il respiro della coscienza e poi placare il trauma e consentire all’intero organismo di immergersi nuovamente nella sua naturale temporalità.
È anche questo, probabilmente, il tempo che il protagonista della Rechercheproustiana ha ritrovato nel racconto – che è al contempo continuo labor ermeneutico – della sua esistenza:
Così, ero ormai giunto a questa conclusione; che non siamo affatto liberi di fronte all’opera d’arte, che non la componiamo a nostro piacimento, ma che, preesistente a noi, dobbiamo, dacché è a un tempo necessaria e nascosta, e come faremmo per una legge della natura, scoprirla. Ma tale scoperta, che l’arte è in condizione di farci fare, non è, in fondo, la scoperta di quanto dovrebbe esserci più prezioso, e che di solito ci resta per sempre ignoto: la nostra vera vita, la realtà quale l’abbiamo sentita, e che differisce talmente da quel che crediamo da colmarci d’una così grande felicità allorché il caso ce ne reca il ricordo vero? [4]
Ricostruire il nesso indissolubile tra vita, tempo e significato, anche tramite la scrittura, significa allora ripristinare la differenza ontologica tra l’ente e l’essere, cioè tra il Dasein e il Tempo. Tra essi intercorre una relazione di coappartenenza [5], in una dinamica di appropriazione reciproca che eventuanell’Ereignis e si articola nelle tre dimensioni dell’attenzione al momento presente, nel passato della memoria e nel futuro delle sue possibilità. Se «l’umano è un ibrido ermeneutico, per il quale e nel quale ogni elemento assume il suo senso soltanto in relazione all’intero» (p. 59), riappropriarsi del proprio tempo significa anche dare un senso al nostro stare qui e ora, alla finitudine che si disperde nel fluire del tempo su scale temporali per noi inimmaginabili. Corporeità e spaziotempo, dunque, si coniugano nel Καιρός, l’attimo che vince sull’infelicità di una vita incastrata come un disegno sulla roccia. L’immediatezza dell’esperienza vissuta (Erlebnis) torna a incastrarsi nel flusso dell’Erfahrungsolo qui, nella pienezza dell’orainvestito di senso. Di senso, si badi, e non solo di significato:
Il senso, infatti, non è il significato, il primo va molto oltre il secondo. Il significato può rimanere in una dimensione esclusivamente linguistica, il senso vive nella plurale fatticità dello stare al mondo; il significato indica ciò che le parole vogliono dire, il senso ci fa abitare in esse. La ragione di questa differenza è di natura temporale poiché mentre il significato può darsi come struttura linguistica generale, il senso è l’immersione del soggetto parlante in uno spaziotempo ogni volta specifico e diverso. Legato radicalmente alla temporalità, il senso costituisce la semantica della finitudine umana (p. 90).
Ma dire che è l’occhio umano a donare senso all’accadere degli eventi non può e non deve essere l’unica chiave di interpretazione del tempo, come se qualcosa legittimasse a pensare che la sua complessità si risolva in quella della vita umana. Il θεωρεῖν originario è curioso, timoroso dei fenomeni naturali e rispettoso di ogni forma di vita, per cui una riflessione sul tempo davvero ricca non può escludere nessun ambito. Per questo la tradizione filosofica e il progresso tecnico e scientifico, l’antropologia e la teologia, la psicologia e la sociologia, vanno integrate e ricondotte sotto un cielo più esteso, onnicomprensivo e anti-riduzionistico. Il tempo non è un oggetto, un utilizzabile, non è una sostanzaconoscibile, non è un insieme discreto di entità misurabili né la loro fusione indistinta. È saputo cognitivo e vissuto fenomenico; «il tempo è l’intero nel quale si raccoglie l’infinito battito di identità e differenza» (p. 1).
Alberto Giovanni Biuso
TEMPORALITÀ E DIFFERENZA
Leo S. Olschki Editore
Firenze 2013
Pagine 115
1 M. Bonazzi, «Il complesso di Eraclito», Il Corriere della Sera – La lettura, 30/08/2015, p. 8. Bonazzi ha condotto in questo breve articolo un’accurata analisi del famoso frammento eracliteo, mostrando il profondo legame del divenire dell’Essere con le identità che in esso sono immerse: «Ma in questo divenire continuo di pensieri ed emozioni esiste qualcosa che possiamo definire “io”? Non c’è pregiudizio più radicato della “metafisica dell’io”, di questa convinzione che noi, solo noi, prescindiamo dal cambiamento, come se fossimo impermeabili rispetto a ciò che ci circonda.Si deve allora concludere che non esiste un’identità stabile, che non esiste nessun io, perché tutto si trasforma continuamente? Ancora una volta, Eraclito suggerisce una soluzione più valida per mettere ordine nelle nostre complessità. Forse l’identità è proprio nel cambiamento. […] L’affermazione secondo cui per le stesse persone che entrano nei fiumi scorrono acque diverse potrebbe sembrare banale. Ma non è così, se solo si identificano il fiume e l’uomo (come la struttura della frase invita a fare): come l’identità del fiume è garantita dallo scorrere delle acque, così l’identità di un uomo è garantita dal flusso delle sue esperienze. Noi siamo le esperienze che facciamo. Ciò che siamo è ciò che diveniamo, non si può prescindere da ciò che ci circonda e da come reagiamo di fronte a ciò che ci capita, bello o brutto che sia. Senza conoscere il dolore possiamo sapere che cosa è la gioia?»
2 M. Heidegger, Il concetto di tempo (Der Begriff der Zeit. Vortrag vor der Marburger Theologenschaft, 1924), trad. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2017, p. 30.
3 È fondamentale che questo orizzonte invece rimanga aperto. L’apertura verso le possibilità è essenziale per il dischiudersi della vita alla dimensione del futuro: «L’esserci è autenticamente presso se stesso, è davvero esistente, se si mantiene in questo precorrere. Questo precorrerenonè altro che il futuro unico e autentico del proprio esserci. Nel precorrere l’esserci è il suo futuro, e precisamente in modo da ritornare, in questo essere futuro, sul suo passato e sul suo presente. L’esserci, compreso nella sua estrema possibilità d’essere, è il tempo stesso, e non è nel tempo.» (M. Heidegger, Il concetto di tempo, cit., pp. 39-40)
4 M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, «Il tempo ritrovato», trad. di G. Caproni, Einaudi, Torino 2008, p. 2204.
5 È importante considerare che questa relazione non è univoca per comprendere l’inestricabile legame tra Essere ed Esserci che prende forma nel tempo e che rende inutile la distinzione tra soggetto e oggetto di cui sopra: «L’uomo è qualcosa di essente. In quanto tale appartiene all’intero dell’essere come la pietra, l’albero e l’aquila. “Appartenere”, qui, significa ancora essere “inserito” (eingeordnet) nell’essere. Ma ciò che distingue l’uomo consiste nel fatto che egli, essendo l’essere che pensa, aperto all’essere, è posto di fronte all’essere, resta riferito a esso e gli corrisponde. […] L’essere non è presente per l’uomo né occasionalmente né eccezionalmente: esso è essenzialmente e durevolmente solo nella misura in cui, tramite il suo appello, ri-guarda (an-geht) l’uomo. Infatti soltanto l’uomo, aperto all’essere, lo lascia advenire (ankommen) in quanto essere essenzialmente presente». (M. Heidegger, Identità e Differenza, Identität und Differenz, 1957, a cura di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2009, pp. 37-38).
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