Don Giovanni

Di: Alberto Giovanni Biuso
12 Luglio 2011

Non esiste una cultura, una civiltà, una comunità di umani che non generi dal proprio nucleo di vita dei miti. Il mito è -secondo l’etimologia- un racconto. E non esistono gruppi umani che non amino narrare di sé. Il mito è una figura universale. E il dio è questo. Il mito è un emblema, un progetto, ciò che si vorrebbe essere e diventare. Don Giovanni è anche tale mito. Perché Don Giovanni è tante verità. Verità palesi e nascoste, ironiche e tragiche, infantili e vecchissime.

Don Giovanni è il bambino coccolato dalla madre, è l’adolescente che la madre non riconosce più, è il seduttore che coltiva contemporaneamente tante relazioni, è il desiderio nascosto del buon padre di famiglia, è il bevitore di intrugli e di donne, è -infine- Don Juan Tenorio, il gentiluomo di Mozart e Da Ponte. Don Giovanni è fatto di tenebra e di luce, una dinamica che giunge al culmine nell’incontro tra il libertino e il Commendatore, una sinestesia nella quale la musica si fa colore -il bianco della statua vivente, il nero delle forze infere, il rosso dei fiumi di lava che avvolgono Don Juan- e lo spazio concettuale dell’opera è diviso in un controcampo che al volume incombente del fantasma oppone la forza vitale dell’uomo dei piaceri. La grandezza di Don Giovanni sta anche nel rompere e nell’invertire lo schema moralistico: «Chi a una è fedele / con le altre è crudele». Ma anche per questo Don Giovanni è l’incompiuto. È natura naturans, desiderio desiderans, al quale non importa l’esito ma l’itinerario, non la conquista ma il conquistare. Un mito che dunque non sta mai fermo perché l’immobilità è morte. Don Giovanni desidera, conquista e abbandona, secondo il più noto e triviale degli schemi. Ma è la morte che vorrebbe sedurre. Non potendo, moltiplica il suo corpo nelle altre, affinché in loro qualcosa di sé rimanga ancora vivo. Per sempre. E così è.

Per sfuggire alla Grande predatrice Don Giovanni è il maschio predatore, è la preda del proprio bisogno d’amore, è l’amore. Don Giovanni è superficiale per profondità, si muove tra i sentimenti e i corpi come un bambino tra giocattoli sconosciuti, che vorrebbe tutti possedere senza poterli tutti saggiare. Don Giovanni si butta via e butta via le donne. Egli è la donna che vorrebbe possedere. Il doppio lo intride. Giovanni Macchia lo sapeva, tanto da accostare il seduttore lieve e incompiuto a un seduttore incompiuto e pesante: Don Rodrigo: «il terzetto Don Giovanni, Zerlina, Masetto (un aristocratico e due contadini, promessi sposi) corrisponde perfettamente a quello di Don Rodrigo, Lucia, Renzo»1. Ma la luminosità della festa in cui viene conquistata Zerlina è davvero l’opposto del buio e della notte, protagoniste della vicenda di Lucia. La fine superba e ironica di Don Giovanni stride con la morte ebete e cieca di Don Rodrigo. Gli intrighi del guappo di Lecco non assurgono mai alla lucida strategia del conquistatore di Siviglia. «La sete di dominio trova in Don Giovanni una via d’uscita nell’erotismo. […] Il dongiovannismo può essere definito, nell’indipendenza della politica dalla morale, una forma di machiavellismo basata sull’amore»2.

Il doppio è la chiave anche dello spettacolo di Schnitzler-Accordino, nel quale Don Giovanni e Leporello sono la stessa maschera, che nel testo dispiega la propria natura ermafrodita. Il servitore e amico Max -questo il suo nome qui- mostra alla fine di essere la quinta donna di Anatol / Don Giovanni, il suo ultimo amore, dopo che ha vissuto, goduto, respinto, tritato le precedenti relazioni.
 Ma queste donne ritornano tutte, anzi «rinascono» -come afferma Anatol- dentro la sua vita, nella memoria, nel corpo. Quest’uomo vorrebbe disfarsene, cancellarle. Le incontra una a una «per l’ultima volta» ma saranno loro a dire, in modi diversi, che più non lo vogliono, che lo hanno tradito, che non lo amano. Il seduttore è sedotto, l’abbandonante è abbandonato. L’oblio, il riso, la compassione, il sarcasmo si chiudono su di lui, lenti come un gorgo, inesorabili come il buio. Anatol non sa più chi tocca nel gioco feroce della mosca cieca. Cieco all’inganno, è ingannato. Cieco all’altra, è annullato. Don Giovanni è la solitudine. All’inizio, mentre Anatol gli comunica l’intenzione di andarsene, fuggire, “lasciar le donne”, Max scrive sul muro queste quattro parole: Illusione Abbandono Gelosia Tradimento.
 Illusione è l’amore, riflesso magnifico, struggente e disperato della nostra tenerezza. Abbandono è il destino di chi tutto affida all’altro, dimenticando che l’Altro è un essere di fuga, che come Proteo sguscerà sempre alle mani che lo vogliono racchiudere. Gelosia diventa dunque lo scorrere degli istanti in cui l’altro è assente, il tempo in cui potrebbe essere ovunque e in tutte le possibili compagnie, ma non la nostra. Tradimento è questo amalgama di illusione, abbandono e gelosia. Tradimento dell’amore che vogliamo dare e ricevere ma che ci esplode nelle mani come un orologio impazzito. Perché il tempo si ferma quando l’altro non c’è e precipita quando sta con noi. È l’eterno ritorno delle passioni umane.

Accompagnato dalle musiche di Mozart, debole in alcune delle interpreti, dinamico nei movimenti, questo spettacolo inquieta perché penetra a fondo nella vaga sostanza del desiderio.

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Note
1 G. Macchia, Tra Don Giovanni e Don Rodrigo. Scenari secenteschi, Adelphi, Milano 1989, pp. 15-16.
2 Ivi, p. 169.

 


Teatro Litta – Milano
Don Giovanni a mosca cieca
Di Corrado Accordino
Da Anatol di Arthur Schnitzler
Regia di Silvia Giulia Mendola
Coreografie di Lara Guidetti
Con Marco Cacciola, Tamara Balducci, Lara Guidetti, Chiara Petruzzelli, Alessia Vicardi, Greta Zamparini
Giugno-Luglio 2011


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