Il Cigno

Di: Dario Carere
12 Luglio 2011

Ecco, è tutto come deve essere. Non farò inchini uscendo allo scoperto, ma mi mostrerò per quella che sono, fiera abbastanza da far sorridere tutti, alta abbastanza da farmi amare sotto i riflettori, come è giusto per il loro desiderio di divertirsi, di gran lunga maggiore di quello di vivere. È necessario, è opportuno che la vita sia così, come la danza è una cosa fatta così, una cosa che non deve dimostrare coscienza, che non si piega mai su se stessa, ma che agisce liberamente con un gesto mai inquinato dal pensiero. La vita e la danza sono entrambe arti del corpo, del gesto.

Le mie scarpette, il mio abito rosa, le mie gambe nervose e tese, il mio collo sottile; un attimo soltanto prima che il Cigno spicchi il volo, un subbuglio nello stomaco che è giusto chiamare giovane, a cui i vecchi alludono sorridendoti con invidia. Io non sono come le altre della squadra, però. E leggo molto di più, suppongo. Leggevo moltissimo a scuola. Ma di più ascoltavo. Io non mi sono scelta questi piedini piccoli, questo corpo quasi inesistente, questa linea che scompare piano piano mentre si battono le mani dopo la lezione e io vado subito a ritirarmi per tornare una piccola linea vestita di nero, con i capelli che mi accarezzano le guance e il labbro inferiore che va un po’ scomparendo sotto quello superiore.
C’è una disciplina dell’animo che la danza non ti insegna, ma al massimo incoraggia. C’è un modo di far danzare i pensieri, unendoli in armonie, che il plié non sa rendere a sufficienza. È l’armonia dell’accettazione –sento il chiasso delle prime file– un certo modo di non essere turbati, un certo modo di essere protagonisti della ribalta della vita proprio grazie al non esservi troppo coinvolti. Farsi coinvolgere, coinvolgere troppo, non è vivere, probabilmente; non si pensa durante un soutenu: si compie il proprio cerchio senza interruzioni, e la speculazione su tutta questa bellezza che la ballerina incarna, su tutta la grazia del suo cerchio perfetto le sarà aliena per sempre.

Un pacifico astenersi, una serena sconfitta di fronte al gesto –la tirannia, quasi, di una disciplina che solo una sana incoscienza può farci amare. Ed ecco, lì nasce la perfezione: non c’è pensiero, non c’è scalfittura del gesto. In ogni cosa la spontaneità, l’essere al di fuori, è di gran lunga superiore a ogni poetica e programma, a ogni definizione da manuale. Alcuni compiono gesti, altri li assumono come imprese e vi scrivono sopra dei compendi e dei volumi che a volte riescono ad assurgere a regole, e tutto diviene solo là dove il cerchio s’impone come spontanea accettazione dell’assurdo.

No, non è amore…Si ama qualcosa o qualcuno quando si ha un turbamento, uno scivolamento della postura, una caduta dell’equilibrio: l’amore è la rottura del cerchio. Io non sono mai stata come le altre della squadra. Ero sola allora come adesso. Si mettevano i piedi in prima, in seconda, in terza e così via; e loro anche fuori, poi, continuavano a porsi in prima, in seconda, in terza e così via, senza troppi ripensamenti, con la grazia di chi non ha impressioni così gravi dai propri sensi da dover sempre rimanerne sorpreso. Si rideva moltissimo, anche rimanendo alla sbarra; prima e dopo i saggi, si vedevano splendide ed entusiaste, nella giusta gioia di vivere, nella misurata partecipazione a qualcosa che non stavano costruendo, ma solo attraversando, come frecce che non abbiano chiesto il proprio percorso, la propria destinazione; e la lezione finiva, si battevano le mani, e a ogni istante io non ero presente, se non a me stessa. E poi le serate, i ragazzi, tu cosa farai, io cosa farò, sabato che si fa. E pensavo: sono così libere, e così programmate al contempo.
Si fa così, con tutte le cose: le bimbe iniziano a quattro anni, a cinque anni, si mettono il tutu e fanno le prime giravolte, perché la mamma le ha iscritte, la mamma ha tanti sogni, e le bimbe sono così graziose, con i loro passetti insicuri e i capelli raccolti sul capino coronato da fiori. Si è: ci siamo, non possiamo farci niente. E mentre ci pensi, all’improvviso tu sei il Cigno, la gente ti attende, il teatro diventa gremito. E come lo giustifichi, quando come spiegazione non ti basta? Se per tutta la vita quel gesto non fosse sufficiente, se la coscienza fosse una malattia da cui non si può guarire? Come potrei spiegare agli altri le pillole che mi porto appresso, quelle preziose dosi d’incoscienza che assumo per poter compiere il mio gesto perfetto, la mia parca partecipazione al qui?
Il teatro è bello, è vitale. Dove c’era quella descrizione così bella del teatro? Pirandello – sì, sì, in Suo marito. A lei non interessava il successo: faceva ciò che sapeva fare, per scelta – no, non per scelta: è l’arte a scegliere noi, non viceversa. Era Giustino a cercare un perché e un per come, a bramare elementi di normalità, a dare una spiegazione a ogni cosa; per Silvia niente aveva un senso, accadeva e basta. E quella descrizione talmente bella, sì, della prima della sua opera, con il boato dell’applauso che sembra un fiume in piena…Io leggevo sempre, a scuola. Non è che mi interessasse tanto la teoria. Se stai a pensare, se sei soprappensiero, se non riesci a essere abbastanza frivolo o caloroso o brillante, a fingere abbastanza bene insomma, ti dicono che la vita va vissuta, che non ci sono soltanto i libri e la teoria. Ma il pensiero è un’azione: la teoria è una cosa che si impara, ma il pensiero lo si fa; e nessuno ti insegna mai a fare, man mano che passi di classe in classe.
Smettiamo di pensare alla danza, allora; danziamo? Bene, mi dico a volte. Ma danzando non sei forse già fuori dalla danza stessa? L’attore fa la sua parte, diventa un altro, e noi lo vediamo come se davvero fosse un altro, ne elogiamo la sua perfetta facoltà di alienazione: e il mestiere di vivere non è la stessa cosa? Non bisogna avere, per svolgerlo, la stessa leggerezza, lo stesso delirante distacco? Non bisogna recitare agendo come se non si fosse sotto le luci della ribalta? Mai troppo dentro, mai troppo pieni. Quando non sei capace di vivere come se non te ne importasse, cosa te ne importa di tutto il resto –serate, giochi, esami, avventure, applausi? Il passero solitario, insomma, qualcosa del genere– niente ti colpisce, quando ti scopri una cosa gettata qui, malauguratamente consapevole del proprio nulla. Ogni cosa sullo sfondo, sul fondale mal dipinto della commedia in cui non puoi mai aver parte.
La mia pillola è pronta – e qual era quell’altro saggio? Sì, quello di Kleist, sul teatro delle marionette. Non è la stessa cosa? Ecco, il pubblico attende le sue marionette prive di coscienza: è la vita che ci strappa un’incosciente partecipazione. Si vive così, così soltanto, mai diversamente da così: marionetta o cadavere. Ora prendo la droga per farmi marionetta, altrimenti entra qualcuno, mi guarda, dice: “Pensi? Ma cosa pensi? Hai sempre tutte queste cose da pensare!” Certo, perché essere così –coscienti– per loro vuol dire per forza pensare a qualcosa di definito, che abbia un capo, una coda, un fine; come lo spieghi, tu che vivi descrivendo cerchi perfetti nell’aria, che l’essere presenti a se stessi, l’essere qui, con i propri sensi, con lo sguardo rivolto dentro di sé, è già esso stesso un motivo di pensiero? Come fai a spiegare ad altri che il semplice ritrovarti nelle cose che compi è un trauma non richiesto e non superato, non superabile, le cui complicazioni ti allontanano da tutto e da tutti, specialmente da quelli che più ami?
E gli altri sentono che tu non sei dei loro. Batteranno le mani, può darsi, quando mostrerai loro che sei un Cigno, che puoi dar loro gioia per emanazione, non per donazione; invece gli altri sentiranno che tu sei un corpo estraneo, quando crederai profondamente che donare è giusto, quando proverai ad amare col preciso progetto di dare felicità – perché tutti i progetti sono contrari alla vita, ogni teorema è un passé bloccato a metà.
Ancora una volta, ancora una volta, finché cadrò; e a quel punto non avrò più voglia di rialzarmi, e fingere che anche nell’anima sarò tornata dritta.

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