L’umiltà del male

Di: Diego Bruschi
12 Giugno 2011

 

 

Come sa chi mi conosce di persona, svolgo una piccolissima attività imprenditoriale. Dunque, specie all’approssimarsi di alcune scadenze, debbo conferire, almeno per telefono, con il commercialista, nel mio caso una gentile signora. La mia frase più frequente è: «fai tu, pensaci tu, per me va bene». Tutti proviamo un certo sollievo quando qualcun altro si fa carico delle incombenze, quando siamo sollevati dal dover pensare a qualcosa. In teoria è giusto essere sempre informati, vigili, ma in pratica la voglia di delegare è il sentimento vincente. Può sembrare strano, ma questa circostanza mi è venuta in mente durante la lettura de L’umiltà del male di Franco Cassano. A un certo punto del libro, breve e limpidamente scritto, l’autore riferisce di un famoso dibattito radiofonico che vide contrapposti Arnold Gehlen e Theodor Adorno, nel quale emerge con chiarezza la distanza fra due modi di intendere la natura umana.
Per Gehlen l’uomo trova nelle istituzioni, nella loro capacità di contenere gli istinti, di stabilizzare secondo regole certe i comportamenti, una sorta di «seconda natura». Binari certi che sollevano dal problema, dalla fatica di una continua decisione e autodeterminazione.
Adorno, in sintonia col grande lavoro svolto dalla Scuola di Francoforte, vede le istituzioni come espressione di un potere imposto, e legge l’adesione acritica verso di esse come la conferma di una sudditanza, di un meccanismo alienante. Di qui, ovviamente, l’idea che sia necessario dotare ogni uomo di forti mezzi critici, di una vera autonomia, di una autentica indipendenza da un pensiero unico pervasivo, che colonizza anche la mente del cittadino consumatore.

Ma mentre Adorno vede in questa esteriorizzazione e oggettivazione delle istituzioni un’alienazione, una patologia storico-sociale che l’uomo deve combattere per conquistare la propria libertà, per Gehlen la funzione vitale delle istituzioni sta proprio nella loro capacità di liberare le spalle degli uomini dal fardello di dover riflettere e prendere decisioni su tutte le questioni della loro vita (p. 54)

Adorno ammette che la strada da lui prospettata non è semplice, ma conferma come essa sia l’unica che porta verso una vera libertà. L’approccio antropologico di Gehlen parte invece dall’osservazione della natura umana per quella che è, senza immettere nel gioco una qualche prospettiva di liberazione futura, senza immettere elementi d’utopia. A ben vedere, la questione intorno alla quale sempre si gira è la natura umana. In realtà Cassano, prima di riferire intorno al dibattito dei due grandi studiosi tedeschi, prende le mosse da un celebre brano letterario, ovvero La Leggenda del Grande Inquisitore di Dostoevskij.

La vicenda è nota, il punto fondamentale è il dialogo fra il Grande Inquisitore e Gesù, incautamente riapparso nella Spagna del XVI Secolo. Per la verità è l’Inquisitore che parla a lungo e la spiegazione delle sue ragioni, dei motivi per cui la Chiesa ha preso quella strada di dominio, fatta di timore e inganno verso i sudditi-fedeli, è molto interessante. Il riferimento è a quel celebre passo dei Vangeli in cui Gesù, nel deserto, respinge con asprezza le tentazioni di Satana, tentazioni tipicamente umane, come sono il cibo, il potere.
L’esempio del Nazareno è un esempio esigente, che non promette facili aiuti, che chiama coloro che aspirano a seguirlo alla dimostrazione di una grande forza di volontà. Secondo il vecchio prelato la proposta di Gesù non è conforme alla natura della stragrande maggioranza degli uomini: solo pochi hanno la «stoffa» per diventare santi. E tutti gli altri? Chi pensa alla sterminata folla dei deboli, dei mediocri, dei paurosi? Ecco allora che, secondo il Grande Inquisitore, è bene che la Chiesa si occupi degli uomini comuni. Questo avverrà attraverso l’inganno, la paura, la soggezione, ma almeno verranno sollevati dal dover contare su se stessi, da una libertà troppo gravosa per loro.

L’Inquisitore ha un rimprovero durissimo da muovere: consegnando la fede ad un atto di libertà, Cristo ha proposto agli uomini un compito del tutto superiore alle loro forze. Gli uomini, dice il vecchio prelato, non sono fatti per la libertà perché non ne sono all’altezza (p. 9)

Naturalmente la lettura più comune di questo celebre racconto è quella della polemica di Dostoevskij nei confronti della Chiesa Cattolica, ed è senz’altro corretta. Ma a ben leggere, le ragioni del «cattivo» non sono sciocche, in esse si può scorgere una certa conoscenza degli uomini per quello che sono, per quello che realmente dimostrano nei fatti, nonostante le lodevoli ma tutto sommato rare eccezioni di santità. Eccoci quindi al significato del titolo, cioè «l’umiltà del male», cioè la sua capacità di riconoscere, sfruttare, astutamente utilizzare, le debolezze umane. Il bene, e con esso tutte le idee «nobili», appare invece spesso elitario, incapace di intercettare le umane pulsioni.

C’è un bel testo di A.G. Biuso (non è un suggerimento di Cassano ma è una mia indicazione di lettura adeguata su questi temi), dove si individua un periodo storico-culturale, cioè il mondo greco, dove la consapevolezza è stata quella giusta.

I Greci riconoscevano l’inevitabilità del desiderio e della violenza insiti nella natura umana e invece di tentare ingenuamente di estirparli, e di cadere così nel sogno suicida di ogni utopia, preferivano dal loro una legittimazione sociale e una ritualizzazione che favorisse l’espressione della violenza conservando nel contempo il controllo delle sue manifestazioni 1.

In effetti, lasciando da parte l’ineguagliabile esempio della cultura greca, a me pare che da secoli ormai c’è questo problema: idee alte, belle, moralmente elevate, che si scontrano con una natura umana ben diversa da quella utopicamente tratteggiata. A un certo punto, si legge nel testo anche un riferimento agli scritti di Primo Levi, alla sua analisi drammatica ma «scientifica» delle capacità corruttive e contagiose del male, il quel «laboratorio» terribile che furono i campi di sterminio. Insomma è il male a esser spesso in vantaggio, ed è necessario rendersene conto. La tesi di fondo di Cassano, che ha scritto il suo saggio con l’intenzione esplicita di parlare al nostro presente, è che bisogna evitare certe forme di aristocratismo sterile, e dunque cercare in ogni modo di comprendere le istanze, le pulsioni, le debolezze che agitano il corpo sociale. Se non lo fa chi ha idee sincere di giustizia e socialità, gli altri, gli scaltri, i furbi, avranno facilmente il sopravvento. Sicuramente il testo lo si può leggere anche con riferimenti alla propaganda subdola dei nostri giorni, ma, a mio sommesso avviso, è interessante proprio per le tematiche generali, che invece sono di lunga data, ma riscontrabili perfino nel nostro quotidiano.
Tornando a casa col filobus, a volte mi imbatto nel controllore che sale a vedere se noi, viaggiatori del calar della sera, abbiamo pagato il biglietto. All’Azienda Trasporti conoscono, eccome, la natura umana.

 

Nota
1 A.G. Biuso, Antropologia e Filosofia, Guida, Napoli 2000, p. 79.

 

Franco Cassano

L’umiltà del male

Laterza

Roma-Bari 2011

Pagine 98

 

 

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