Sheliak. Primo studio verso Orfeo ed Euridice
Ciò che ti consuma diventa forza per questo nutrimento.
Nella metamorfosi entra ed esci.
Qual è in te l’esperienza più dolente?
Se ti è amaro il bere, diventa vino.
Rainer Maria Rilke
Un lungo pellegrinaggio ai limiti del sacro. Un’indagine spirituale. Una preghiera. Danzata ferocemente, convulsamente sulla punta dei piedi. Un febbrile mormorio e il silenzio di un’emozione impronunciabile, devastante. Innanzitutto, dei corpi. Si parte sempre da lì, inutile insistere. In Sheliak, spettacolo di teatro-danza, coreografato da Giovanni di Cicco e presentato al teatro dell’Archivolto di Genova, i corpi si fanno arpe. E danzano il tremendo coraggio del dire, il folle terrore del sapere. Utilizzando la storia mitologica che narra dell’infelice destino di Euridice, strappata da una morte inattesa al suo amato poeta Orfeo, gli interpreti scavano nell’inconscio, trascinandoci, senza esserne neanche troppo consapevoli, in una dimensione onirica e desta a un tempo. Attraverso una costellazione di gesti (la cui bellezza, o meglio, verità risulta in certi momenti quasi intollerabile) si indaga il rapporto tra essere umano e fato. La tyke ha un ruolo predominante per quanto invisibile. Ma la differenza fondamentale tra questo dramma danzato e la tragedia greca è l’assenza dell’intermediazione divina: vi è solitudine e forza in questi personaggi che affrontano un cielo desertico, dai linguaggi indecifrabili e ostili, lottando e lasciandosi sconfiggere (ma vi può essere sconfitta nell’armonia, inaccettabile, del conflitto?) da forze buie, legate a una terra che si diluisce in cielo e a un cielo che s’illividisce pietrificandosi in terra.
La mano di lei. Insistente, quasi lasciva, le copre gli occhi, le lecca la faccia.
Il corpo di lei sa ed è ribelle. Lei ha fatto un sogno che non può dire. Ma vorrebbe parlare, chiedere, gridare, vorrebbe trovare la forza. La danza questa forza che non trova, danza il suo interrogativo insillababile, danza l’orrore e lo scandalo della morte. Nel morso del serpente che non è ancora avvenuto, Euridice ha letto il geroglifico avvelenato: il messaggio oscuro delle stelle è affidato a una cicatrice inesistente.
I suoi passi rabbiosi, appassionati sono i moti di un inconscio che ha paura di far sapere, che rifugge la propria voce. Ed Euridice vorrebbe fuggire queste visioni strazianti da Cassandra, che non comprende, ma più scalcia come una bambina, più ne è schiava, ed è già silenzio, e terra immobile tra le sue labbra.
Orfeo è colui che è destinato a perdere tutto. La sua arte, il suo amore. E infine la sua testa, che diventerà parte della costellazione della Lira. L’inutilità della ribellione, l’affascinante condanna di un destino che sceglie per noi sono le uniche note alle quali il suo corpo possa danzare.
E poi c’è il fato e le sue smorfie da cane ansante. C’è il demone che non ti abbandona finché non ti ha derubato e saccheggiato fino al midollo. C’è la morte che sgambetta frenetica un can-can, ed è funesta, crudele, grottesca: non riconosce nessuno all’infuori di se stessa. C’è tutto quel nero che hai dentro e che hai timore di sfiorare.
È talmente… lineare, e perfetta, ed elegante questa violenza. E giusta è anche l’assenza di una terminologia appropriata a cui aggrapparsi, un’assenza che fa tacere gli occhi bramosi di definizioni. La purezza di questo dolore è sacra. E rispettarla non significa accettarla passivamente: tutt’altro. L’uomo terreno e il fato celeste si abbracciano, si straziano, si sotterrano e disseppelliscono a vicenda: da questo firmamento nero, in cui il carbone e i gigli s’amalgamano e la pece è scalpellata da zaffiri, sgorga una nuova tipologia di rappresentazione, che rappresentazione non è. Quello a cui ho avuto l’opportunità di assistere è un flusso di coscienza e non un discorso dalla dizione impeccabile, purgato di ogni imperfezione. Ciò segna il trionfo della ricerca, e del vero scopo del teatro: la sincerità a ogni costo.
Non esiste teatro senza osservazione (a testimonianza di ciò, ce lo ricorda la radice stessa del nome): ma troppo spesso ormai assistiamo con imbarazzo alla semplificazione del significato, alla avvilente potatura della simbologia e dell’autentico messaggio teatrale.
L’oscuro, tormentato, sacrissimo lato dionisiaco è oggi afflitto dal peggiore dei mali (in senso artistico, si capisce): la condiscendenza. Il prego-si-accomodi-e-buon-divertimento.
Si rinuncia all’aspetto selvaggio e meraviglioso dello spettacolo, della rappresentazione e si dimentica che essa non è solo abile narrazione. La tendenza sempre più diffusa è quella di confezionare (a causa dell’influenza televisiva e mediatica) prodotti innocui e rassicuranti. Sheliak no: è vissuto, accecato dal suo stesso intrepido ESSERE che non è semplicemente FARE o peggio, DIMOSTRARE. La sacralità inviolabile di quei gesti… che non imponevano una lettura a senso unico, né si affaticavano vanesi a strappare l’ammirazione o la risata del pubblico ghiottone; ma la tremenda forza sta proprio in ciò: essi denudano con una carezza. Non si cercava la partecipazione del pubblico a tutti i costi (vizio che sclerotizza, a lungo andare, il rapporto attore-spettatore): gli si donava movimento, e spazio. A lui la lettura, o meglio: la chiave della costellazione.
I danzatori erano sì pizie, ma mai completamente dimentiche del loro ruolo: dopo l’essere il passo successivo e molto delicato è il MOSTRARE. Il pensiero creatore, il lato apollineo della costruzione, della messinscena: la mano guantata del burattinaio.
In un’epoca dove la “partecipazione” di massa (che ha gli effetti disastrosi di un sonnifero) è ormai un must ipocrita e sterile, credo che il teatro di ricerca e in generale la cultura che si è mantenuta sana abbiano il compito e la possibilità di restituire valore all’osservare, al suo potenziale creativo e formatore di coscienze, dal momento che essa è il socratico pungolatore dell’anima: la cultura deve essere tafano.
È necessario reimparare a essere e non solo a -indolentemente- passare.
A Francesca Zaccaria, Giovanni di Cicco e Filippo Bandiera
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