Giuseppe Rensi e la domanda etica fondamentale

Di: Antonio Vigilante
4 Febbraio 2011

«Se si eccettuano alcuni casi aberranti, l’uomo non è propenso al bene; quale dio ve lo spingerebbe?»1. Questa domanda, con cui si apre Il funesto demiurgo di Emile Cioran, è una buona formulazione di quella che si potrebbe definire la domanda etica fondamentale. Più che determinare i beni e i valori, o individuare un criterio per distinguere il bene dal male, urge risolvere un’altra questione: perché fare il bene? Perché essere morali? Il porsi di questo problema è chiaramente legato all’evoluzione del pensiero degli ultimi decenni. Nel corso dei secoli, l’occidente ha risposto a quella domanda elaborando delle visioni del mondo rassicuranti, che ponevano il bene al centro dell’essere, anzi lo identificavano senz’altro con esso. L’azione etica del singolo trovava una profonda risonanza nel seno stesso del mondo, e risultava perciò sensata; follia e immoralità erano tutt’uno, così come era al tempo stesso folle e malvagio (l’insipiens della tradizione medioevale) l’ateo, colui che negando Dio metteva in crisi la fondazione metafisica dell’etica. Le inquietudini di Giobbe e Qohelet –perché i malvagi prosperano ed il giusto soffre?– vengono trascese nell’occidente cristiano dalla concezione della salvezza e della pena eterna: il giusto che soffre sarà ricompensato nel mondo a venire, così come l’empio sarà eternamente dannato. Ma è una soluzione non pienamente soddisfacente. Se Dio c’è, non dovrebbe soccorrere il debole? Dio non è anche Provvidenza? Sono domande che si impongono con forza dopo Auschwitz, l’esperienza storica radicale dell’innocente al suo aguzzino. Perché Dio non ha ascoltato le preghiere degli ebrei ad Auschwitz? È una domanda che costringe i credenti a ripensare profondamente la loro fede, liberandosi da soluzioni consolatorie e prendendo la via difficile del pensiero di un Dio debole, che non aiuta perché non può. La stessa coscienza religiosa si fa tragica. L’esistenza di un Dio-Bene non garantisce la razionalità della storia, né il sostegno del giusto. Nella seconda metà del secolo scorso la stessa conciliazione hegeliana tra reale ed ideale frana sotto i colpi delle obiezioni esistenzialistiche, espressione di un’epoca di grandi tragedie storiche.

Ed è dalla prima di queste tragedie, la Grande Guerra, che comincia il pensiero maturo di Giuseppe Rensi, il filosofo italiano contemporaneo che a Cioran più assomiglia. Prima d’allora era stato un filosofo neo-idealista, che si distingueva nel panorama filosofico italiano solo per il tentativo di elaborare un idealismo trascendente ispirato al pensatore americano Josiah Royce, contro le tendenze dominanti dell’immanentismo crociano-gentiliano. L’idealismo era per lui «essenzialmente una religione»2, per quanto affine non al cristianesimo ma all’Advaita Vedanta, il grande sistema non dualistico indiano che pone al fondo del mondo la razionalità del Brahman. E come nel Vedanta, l’essenza dell’hegelismo era per Rensi nella mistica della identità tra l’io e il Tutto. Sono già evidenti in questa prima fase due aspetti che saranno costanti nel complesso sviluppo del pensiero rensiano: il misticismo, l’affermazione della necessità di superare l’io, e un interesse non comune nel pensiero italiano (se si eccettuano Martinetti e pochi altri) per i sistemi filosofi e religiosi indiani. Nella principale opera del periodo idealistico, La Trascendenza (1914), Rensi sostiene che la trascendenza è lo sbocco inevitabile dell’idealismo. Se si afferma che l’universo procede verso la propria autocoscienza, raggiunta nel pensiero dell’uomo, le cose sono due: o tale stadio finale è stato raggiunto per caso, e allora si è fuori dall’idealismo, o si afferma coerentemente che l’esito è stato preordinato da un Dio trascendente. Ma questo singolare Dio rensiano non solo non ha i caratteri personali che la tradizione ebraico-cristiana attribuisce a Dio, ma nemmeno si può identificare con il Bene. Croce aveva distinto nello Spirito la forma utilitaria e quella etica, facendo della prima la forma che riguarda il particolare, mentre la seconda attinge l’universale. Per Rensi le cose non stanno così: tanto l’azione etica quanto l’azione utilitaria, e perfino quella apertamente malvagia, appartengono alla ragione pratica. Detto in altri termini, l’uomo segue la ragione sia quando fa il bene che quando fa il male; la cosiddetta voce della coscienza addita tanto il bene quanto il male (non manca chi prova rimorso per aver perso un vantaggio personale a causa dei suoi scrupoli morali), e il vizio è universalizzabile non meno della virtù. A quella che abbiamo chiamato domanda etica fondamentale Rensi risponde che bisogna fare il bene perché è Dio stesso, una forza trascendente, che a ciò ci spinge. Ma Dio non ci spinge solo al bene. In Dio sono presenti tanto il bene quanto il male, tanto la ragione etica quanto la ragione utilitaristica. E beffarda suona la risposta rensiana all’interrogativo di Cioran: l’uomo è propenso al bene perché ve lo spinge Dio stesso, che però lo spinge anche al male. È evidente che all’uomo è negata la possibilità stessa di contrapporsi prometeicamente a Dio operando il male. Qualunque cosa faccia, egli è agito da Dio, è null’altro che un burattino nelle sue mani. Egli non è che «il punto di incrocio e di frammentaria delimitazione di energie di carattere universale, cosmico, eterno»3. L’approfondimento del problema morale porta alla mistica, alla dissoluzione dell’io in Dio, senza tuttavia la pacificazione che della mistica è propria: più che l’Essere di là dal bene e dal male, si ha l’impressione che Dio stesso sia drammaticamente scisso, combattuto anch’egli tra il bene e il male, in qualche modo Dio e Diavolo al tempo stesso.

Sotto il segno della scissione, della contrapposizione, dell’antinomia era stata la fase pre-idealistica della riflessione filosofica di Rensi. I titoli stessi delle opere lo indicano: Le Antinomie dello Spirito (1910) e Sic et Non (1911). Se quest’ultimo è un libro piuttosto bizzarro, nel quale sono affiancati brani poetici e riflessioni poetiche con una impostazione di fondo scettica, la prima opera analizza le contraddizioni insanabili dei diversi campi dell’esperienza umana. L’uomo è condannato all’infelicità perché, a differenza degli animali, non può seguire il proprio istinto, vive costantemente nel dramma della alternativa tra inclinazioni naturali e senso del dovere. Di particolare interesse in quel volume è il capitolo sulla religione, che era stato già pubblicato nel 1906 nel primo numero della rivista Coenobium di Lugano, e in cui Rensi pone l’antinomia tra religione e spirito religioso. Lo spirito religioso è l’elemento più alto e profondo della religione, e al tempo stesso è ciò che ne causa la dissoluzione. Esso si esprime nella spiritualità dei mistici, il cui tratto essenziale è l’aspirazione ad annullare l’io in una realtà più grande. Ora, questa aspirazione è in aperto contrasto con l’immortalità, che viene assicurata dalle religioni, ed è invece pienamente soddisfatta dall’ateismo, poiché il non-io nel quale l’io si abbandona e si annulla non dev’essere necessariamente Dio: può essere la Natura o il Tutto. «Un misticismo ateo è perfettamente concepibile», conclude Rensi4. È una conclusione di assoluta importanza per comprendere il suo pensiero religioso.

Affidando alla stampa gli scritti de Le Antinomie dello Spirito, Rensi al tempo stesso ne prendeva distanza, osservando che si trattava di «concetti del semplice intelletto, che vanno superati dalla ragione speculativa»5 e aprendo la nuova stagione idealistica. Che sarebbe stata breve, tuttavia. L’esperienza della Guerra Mondiale fa riemergere prepotentemente, e drammaticamente, gli elementi scettici e pessimistici presenti fin dall’inizio. Cos’è, la guerra mondiale, se non una dolorosa confutazione storica della universalità della ragione? Perché gli uomini si combattono? C’è qualcuno che scende in battaglia seguendo ciò che considera essere sbagliato? Al contrario: tutti si credono dalla parte della ragione, tutti potrebbero proclamare Gott mit uns (e di fatto lo fanno i cappellani militari), tutti combattono per difendere la verità. La Grande Guerra è una lezione di filosofia, e precisamente di filosofia scettica. Insegna che non esiste la Verità, ma tante verità in lotta fra loro; non esiste la Ragione, ma ragione molteplici, diverse, contrapposte. Occorre rinunciare alla universalità della ragione e prendere atto della sua pluriversalità. Questa, in sintesi, la tesi dei Lineamenti di filosofia scettica, il libro del ’19 con cui si apre la lunga stagione scettica e pessimistica del pensiero rensiano. Fin dall’inizio è fortissima la polemica contro l’idealismo crociano e gentiliano. L’idealista, si legge nei Lineamenti, è come il porcellino tranquillo, inconscio del pericolo, che Pirrone, secondo Diogene Laerzio, mostrò ai compagni durante una tempesta in mare; egli è «pago e beato perché in ogni puntuale presente c’è vita e realtà, e noncurante al pensiero anzi incapace di pensare che su ogni presente di vita e realtà è imminente un naufragio»6. È una polemica che raggiunge il suo culmine nelle Polemiche antidogmatiche (1920), un violentissimo attacco all’egemonia culturale crociano-gentiliana, stabilita con metodi che vanno dalla oscurità del linguaggio e del pensiero alla faziosità sostenuta dall’editore Laterza e dalla Critica, rivista finalizzata alla autoesaltazione e alla stroncatura degli avversari (opera, quest’ultima, affidata ai gregari, veri «picciotti di sgarro»)7, fino alla viltà degli stessi avversari, che tacciono timorosi dei loro attacchi. Man mano che si consolida il legame tra Gentile e il fascismo, l’anti-idealismo prende la direzione di una opposizione conservatrice (anche se politicamente Rensi è nato come socialista: fu costretto all’esilio in Svizzera in seguito ai moti milanesi del 1898) al regime. La prima traduzione politica dello scetticismo sembrava fornire al fascismo una prima giustificazione teoretica. Nella Filosofia dell’autorità (1920) Rensi evidenziava i rapporti di forza che caratterizzano la politica anche negli stati democratici. I partiti sono portatori di diverse interpretazioni del mondo, di differenti verità. Queste verità non si compongono attraverso il dialogo in una verità superiore, ma al contrario si impongono le une sulle altre ricorrendo a quell’atto di forza che è il voto, che non è altro che «presunzione di forza, simbolo di forza»8. Poiché nella politica non è evitabile la sopraffazione degli uni sugli altri, e lo Stato non può essere lasciato in balia dei partiti in conflitto tra loro, è necessario che con la forza un partito si elevi sugli altri imponendo a essi la sua volontà e salvando lo Stato dall’anarchia. Un partito qualsiasi: comunista o capitalista, repubblicano o monarchico. Conclusioni non particolarmente lucide –ulteriormente sviluppate in una serie di articoli raccolti in opere come L’orma di Protagora, Principi di politica impopolare (entrambi del 1920) e Teoria e pratica della reazione politica (1922), nelle quali si trova l’aperta approvazione della violenza squadrista fascista– che Rensi cercherà in seguito di smorzare in Autorità e libertà (1926), precisando che dal punto di vista scettico tutte le posizioni politiche hanno la stessa dignità razionale, per cui è illegittimo ogni dispotismo che metta fuori legge alcune forze politiche; l’autorità è necessaria, ma occorre che sia limitata dal rispetto dei bisogni e dei diritti fondamentali dell’individuo. E deplora, in quell’opera, la decadenza generale della società italiana, la sua durezza, l’esaltazione generale, l’immoralismo, la retorica, la violenza «che trabocca fuori continua e incontenibile»9. Contro questo declino della società italiana, le cui cause sono nel patto scellerato tra una politica dispotica e una filosofia dogmatica, per qualche anno cercherà di recuperare lo spirito scientifico, concreto del positivismo e del realismo (Realismo, 1926; Il materialismo critico, 1927), ma a prevalere sarà, man mano che s’indurisce la persecuzione del regime (nel ’27 subisce una prima sospensione dall’insegnamento all’università di Genova, nel ’30 viene arrestato insieme alla moglie, nel ’34 viene definitivamente allontanato dalla cattedra), un amaro pessimismo, che si esprime in opere caratterizzate da uno stile frammentario e aforistico, stilisticamente tra le più belle che abbia prodotto la filosofia italiana del Novecento. L’hegelismo viene rovesciato: «Ciò che è irrazionale è reale, ciò che è razionale è irreale»10. Lo dimostrano, spiega ne La filosofia dell’assurdo, tanto la natura che la storia: se nella prima ogni essere può vivere solo a condizione di distruggerne altri, nella storia le giuste cause sembrano destinate a una perenne sconfitta, mentre le idee più irrazionali e violente esercitano, proprio perché tali, una suggestione fatale. Lo dimostra soprattutto la natura stessa spazio-temporale della realtà. Cos’è lo spazio, se non l’affermazione del molteplice, vale a dire del conflitto, oltre la pace dell’Uno? E il tempo non è forse una fuga continua dal presente, il tentativo fallimentare di sfuggire al male eternamente presente?11 L’Essere è una invenzione dei metafisici, non meno del Divenire. La realtà in cui siamo impigliati non ha né i caratteri di stabilità dell’Essere, né il semplice declino del Divenire concettualizzato, poiché lo stesso mutamento ha delle costanti, e al declino ed alla morte corrispondono la nascita e il fiorire. Al di fuori dei concetti della metafisica, l’esperienza mostra «il Divenire che non diviene e l’Essere che non è»12. Come dare senso alla vita in un mondo che non è, né diviene? Nei Frammenti d’una filosofia dell’errore e del dolore, del male e della morte (1937), sicuramente l’opera letterariamente più bella di Rensi, prevale il senso esistenzialistico della noia, del tedio, del disgusto della vita. Ogni istante della vita è insediato dalla morte, reso assurdo dal suo incombere. «Io mi sento ora già morto, già fuori della vita, mi sento già ora, già essendo ancora in vita, quel nulla che sarò per tutti e per me quando sarò morto, e sento già ora quel nulla che sarà allora già tutto per me»13.

Ma che ne è della morale, se questa è la vita? Perché, dunque, essere morali in un mondo assurdo? Nei Frammenti affiora la tentazione dell’immoralismo, ma è solo un momento. Rinunciare al valori non vuol dire contribuire all’irrazionale? Dal punto di vista politico, non significa forse lasciare che siano i peggiori a fare la storia? Se io considero il male che trionfa nella storia, il successo dei malvagi e la sofferenza dei giusti, scrive nel Testamento filosofico (1937), non posso che concludere che tutto è «Atomi e Vuoto». Ma quando, d’altra parte, considero l’impossibilità di aderire al male e di abbandonare il bene, quando avverto lo slancio del bene come qualcosa di trascendente, anche se non è «il Ciò che ha suscitato questo mondo di crudeltà e di male», non posso che aggiungere: «Atomi e Vuoto e Il Divino in me»14. Questa seconda formulazione è supportata da tre citazioni, la prima da Democrito e due dalla prima lettera di Giovanni: «Colui che è in voi è più grande di colui che è nel mondo» (4, 4) e «Dio è più grande del nostro cuore» (3, 20). È la nuova risposta rensiana alla domanda etica fondamentale: bisogna essere morali perché è impossibile fare diversamente, perché a ciò ci spinge una forza irresistibile, alle quale è impossibile resistere.

Ad Augusto Del Noce è sembrato che in questo modo Rensi superasse il suo ateismo, compiendo un processo inevitabile, poiché il suo ateismo si fondava sul pessimismo, e il pessimismo «deve, nel suo sbocco conclusivo, rovesciarsi in una posizione religiosa»15. Una affermazione che si può sottoscrivere, precisando però che posizione religiosa non vuol dire necessariamente posizione teistica. Abbiamo visto che fin dall’inizio Rensi considera atto pienamente religioso l’annullamento dell’ego, e ritiene che questo atto sia pienamente conciliabile con l’ateismo e distrugga invece la religione con le sue consolazioni. È questo -non, come crede Del Noce, una certa visione positivistica superata col tempo– che gli impedisce di accettare il teismo. Approfondendo il tema mistico dell’annullamento dell’io, presente ancora nelle Lettere spirituali, uscite postume nel ’43 (il filosofo è morto nel ’41), Rensi avrebbe potuto abbracciare una posizione non immoralistica, ma semplicemente sovra-etica. Il bene e il male sono, dal punto di vista della mistica speculativa, semplici distinzioni del pensiero discriminante, che vanno trascesi insieme all’ego. Rensi non segue questa via. Afferma invece ne La morale come pazzia, anch’essa uscita postuma nel ’42, che agire moralmente in un mondo che pare assurdo vuol dire scommettere: se c’è nell’universo qualcosa, «un elemento spirituale che sia sorgente e, quindi, giustificazione del mio atto morale»16, allora l’azione ha avuto senso; in caso contrario, si sarà trattato di una vera e propria follia. C’è qui, da un lato, l’impossibilità di derivare dal nichilismo metafisico un nichilismo etico; dall’altra, l’incapacità di liberarsi dalla tradizionale fondazione metafisica dell’etica. Se l’azione morale non è fondata dall’Essere, sarà fondata da qualche elemento spirituale che si può ipotizzare esistente nel fondo dell’universo. Più interessanti sono gli spunti che si trovano nel Testamento filosofico, che Rensi è riuscito solo parzialmente a sviluppare (anche perché la morte ha interrotto un pensiero in pieno fermento). Si presenta in quello scritto un dualismo dal forte sentore gnostico (confermato anche dalla citazione giovannea), che Rensi avrebbe potuto sviluppare in due modi: o affermando l’esistenza di due principi metafisici, uno del bene e uno del male, facendo rivivere nel pensiero contemporaneo il dualismo manicheo (e facendo propria una posizione spiritualistica), oppure percorrendo la strada difficile di una metafisica pratica, la condizione esistenziale più che teoretica di chi, dichiarando moralmente inaccettabile la realtà con la sua violenza, aderisce interiormente a un’altra realtà, che è quella che si presenta nell’atto morale. In questo secondo caso si ripropone un dualismo, ma l’elemento spirituale non è posto come principio metafisico, non fonda o giustifica la morale; al contrario, è l’atto morale che apre una diversa interpretazione del reale. L’elemento spirituale di cui Rensi avverte la necessità è presente e accertabile dentro di noi e si manifesta realmente come qualcosa che è più grande della violenza del mondo, senza tuttavia che sia possibile accertarlo conoscitivamente: è una realtà da vivere, non da teorizzare (e, se si vuol parlare di Dio, occorrerà parlare di un Dio che si fa attraverso l’azione, non di un Dio origine del mondo, Ente metafisico separato dall’intimo dell’uomo e dall’azione che ne scaturisce). È la via che sarà seguita dalla filosofia della compresenza di Aldo Capitini, un pensatore che sviluppa, mi sembra, le esigenze poste dall’ultimo Rensi. È, il suo, un pensiero con un fondo tragico, amaramente consapevole della violenza e della sofferenza che attraversano il reale, e che tuttavia non rinuncia a pensare la realtà sub specie amoris. L’eros etico che spinge ad accettare il carcere pur di opporsi a un regime politico dispotico (Capitini finirà anch’egli in galera per antifascismo) non ha bisogno di una conferma metafisica, non è una scommessa che si possa vincere o perdere. È una luce che ha già in sé tutta la sua ragione, e che illumina di luce nuova lo spettacolo tragico del mondo.

Note

1 E. Cioran, Il funesto demiurgo, Adelphi, Milano 1986, p. 11.

2 G. Rensi, Il Genio etico ed altri saggi, Laterza, Bari 1912, p. 235.

3 Id., La Trascendenza. Studio sul problema morale, Bocca, Torino 1914, p. 499.

4 Id., La religione. Spirito religioso, misticismo e ateismo, a cura di A. Vigilante, Sentieri Meridiani, Foggia 2006, p. 87.

5 Id., Le antinomie dello Spirito, Libreria Editrice Pontremolese, Piacenza 1910, p.12.

6 Id., Lineamenti di filosofia scettica, Zanichelli, Bologna 1919, p. 246.

7 Id., Polemiche antidogmatiche, Zanichelli, Bologna 1920, p, XVIII.

8 Id., La filosofia dell’autorità, Sandron, Palermo 1920, p. 112.

9 Id., Autorità e libertà. Le colpe della filosofia, Libreria Politica Moderna, Roma 1926, p. 86.

10 Id., L’irrazionale, il lavoro, l’amore, «Unitas», Milano 1925, p. 20.

11 Id., La filosofia dell’assurdo (1937), Adelphi, Milano 1991, cap. VI.

12 Id., Apologia dello scetticismo, Formigini, Roma 1926, p. 54.

13 Id., Frammenti d’una filosofia dell’errore e del dolore, del male e della morte, Guanda, Modena 1937, p. 195.

14 Id., Autobiografia intellettuale. La mia filosofia. Testamento filosofico, Dall’Oglio, Milano 1939 (prima ed. 1939), pp. 223-225.

15 A. Del Noce, Giuseppe Rensi tra Leopardi e Pascal ovvero l’autocritica dell’ateismo negativo in Giuseppe Rensi, in Aa. Vv., Giuseppe Rensi. Atti della «Giornata rensiana» (30 aprile 1966), a cura di M. F. Sciacca, Marzorati, Milano 1967, p. 60.

16 G. Rensi, La morale come pazzia, Guanda, Modena 1942, p. 226.

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