Amore e morte
Lev Nikolaevič Tolstoj e Thomas Mann, rispettivamente in La morte di Ivan Il’ič e La morte a Venezia, affrontano il tema del morire da due prospettive differenti, quella di Ivan Il’ič, che lo vive con orrore confrontandosi con la verità del suo vissuto, e quella di Gustav von Aschenbach, che corre incurante verso la morte, placando la follia di Eros, restituendolo all’imperturbabilità che aveva contraddistinto la sua vita. Due visioni filosofiche che non sono risposte definitive al tema trattato, ma viaggio lucido e disincantato dentro l’animo di chi scopre che la morte –di solito degli altri- adesso lo riguarda personalmente. L’amore è l’altro grande protagonista, potentemente assente nella vita di Ivan Il’ič e magicamente presente in quella di Aschenbach.
Pëtr Ivanovič, amico di Ivan Il’ič -il borghese che giunto all’apice del successo scopre di esser affetto da un male incurabile- sta partecipando alla sua veglia funebre. La moglie del defunto fa un accenno agli ultimi tre terribili giorni del marito. Ha urlato senza sosta, gli racconta. Pëtr ne prova orrore ma poi pensa che a esser morto è Ivan Il’ič «come se la morte fosse un’avventura che riguardava solo Ivan Il’ič, non lui» (p. 13). Un’inferenza a cui si era affidato anche il suo amico che ora stava disteso, freddo, contrito e inerte: «Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, Caio è mortale, per tutta la vita gli era sembrato sempre giusto ma solo in relazione a Caio, non in relazione a se stesso» (p. 53). E proprio riflettendo su Caio, Ivan Il’ič aveva avvertito in tutta la sua potenza l’orrore della morte quando riguarda se stessi.
Aveva mai baciato la mano alla mamma, Caio, e aveva mai sentito frusciare le pieghe della seta del vestito della mamma, Caio? E Caio aveva mai strepitato tanto per avere i pasticcini quando andava a scuola? E Caio era stato mai innamorato? E Caio sapeva forse presiedere un’udienza in tribunale? […] Io e i miei amici abbiamo sempre inteso che non doveva succedere a noi come a Caio (pp. 53-54).
Per quanto cerchi di allontanare il pensiero della morte, Ivan Il’ič già dalla prima visita -quando aveva intravisto sul volto del medico come un’ombra che non presagiva nulla di buono- si sente scaraventato in un abisso angosciante in cui cerca disperatamente un appiglio perché non vuole morire. E pur tentando di sfuggire all’orribile spettro che ormai gli sta accanto, si trova costretto al confronto. I medici gli danno speranza, ma l’ossessione per la verità che abita nel suo corpo lo logora e si trasforma nell’ossessione per la verità che ha attraversato la sua vita: «Soltanto laggiù lontano, all’inizio della vita, c’era un punto luminoso, poi le cose diventano sempre più nere, sempre più precipitose. “Con la velocità inversamente proporzionale al quadrato delle distanze della morte” pensò una volta Ivan Il’ič. E l’immagine della pietra che precipita con velocità accelerata gli si impresse nell’animo» (p. 80).
Assiste inerme al disfacimento del suo fisico che la malattia spoglia progressivamente di ogni forza e con la stessa potenza e velocità denuda la realtà imbellettata, consentendogli di vedere al di là di ogni costruzione. E scopre la menzogna in cui si pasce il mondo -contagiosa come un male epidemico- in cui lui stesso ha vissuto, bevendone a sorsate ubriacanti. Il lavoro, il matrimonio, i figli, la casa. Tutto secondo le regole imposte dalla saggezza comune che vuole un uomo riuscito se ogni cosa è andata secondo quanto previsto dal manuale del buon borghese. Ivan Il’ič analizza ogni cosa, vis à vis con i suoi tormenti fisici: «Le sofferenze si fanno sempre peggiori, più si va avanti, e così tutta la vita è andata avanti, diventando sempre peggiore» (p. 80).
Anche Aschenbach, il personaggio di Mann, aveva vissuto a Monaco di Baviera «in onorevole condizione borghese, come accade a qualche intellettuale in certi casi particolari» (p. 20). Aschenbach era uno scrittore ormai noto, che apparteneva «a una razza in cui non già il talento era una rarità, ma la base fisica di cui il talento aveva bisogno per avere pieno sviluppo» (p. 15).
Il suo viaggio a Venezia diventa da subito viaggio dentro se stesso, traghettato nell’abisso del suo volto più vero dalla visione incarnata della Bellezza perfetta. È Tadzio, un giovanotto polacco di quattordici anni, anche lui all’Albergo Excelsior con la sua famiglia, a vestire i panni di Eros di cui alla vista ancora una volta Psiche si innamora follemente: «Aschenbach fu colpito da meraviglia e quasi da sgomento per la bellezza veramente divina del giovane mortale» (p. 40). Rimane lì per lui. Se ne rende conto quando deciso ad andar via si rallegra del disguido con il suo bagaglio e ne approfitta per tornare indietro e giustificare quella che in realtà è una resa di fronte all’Amore. Non il luogo «allentava la sua volontà, lo rendeva felice» (p. 57) ma Tadzio «per cui gli era stato penoso il distacco» (p. 52). A un tratto persino la morte, annunciata dalla diffusione del colera a Venezia, non ha più il volto terribile e infausto, molto più atroce e persino crudele sarebbe per l’animo suo non godere più della presenza di Tadzio. Eros e Thanatos sono adesso uno di fronte all’altro. E mentre Eros si presenta nei suoi sogni attraverso la trasfigurazione di una festa dionisiaca, Thanatos rappresenta il ritorno a quell’equilibrio apollineo che aveva caratterizzato la sua vita. Il perturbamento è talmente potente che Aschenbach compie la scelta. Rischia per se stesso e rischia per quella figura quasi eterea che ama. Non dice nulla dell’epidemia agli altri ospiti: «era un passo che l’avrebbe ricondotto indietro, che l’avrebbe restituito a se stesso; ma chi è fuori di sé nulla teme quanto il rientrare in sé» (p. 86). E si compiace quando intravede nel giovane i segni della fragilità fisica e pensa che mai diverrà vecchio. Vecchio come il proprio corpo in declino per il quale prova ribrezzo. Si rintraccia così nelle pagine di Mann non soltanto un’eco freudiana, ma persino la più sincera verità sull’amore che di solito si finge di ignorare. La paternalistica convinzione che colui che ama vuole e desidera per l’amato tutto il bene del mondo è una falsità in cui l’umano si trastulla per non guardarsi in volto, per non scoprire la crudeltà egoistica del suo sentimento. Chi ama ha in mente innanzitutto se stesso e famelico desidera l’altro. Divorarlo. Farlo divenire carne della sua carne, in una distruzione che è appagamento totale. E se non può così possederlo allora preferisce che il corpo amato, vissuto e pulsante, si spenga per sempre. È disposto persino a morire perché vivere in quel sacro fondo, abbandonato e solo, ha il sapore amaro della follia incompresa. E l’infingimento dell’amore e sull’amore si estende sul corpo che imbellettiamo e di cui ancor di più ci prendiamo cura per essere amati da chi amiamo. E così Aschenbach va dal parrucchiere e si tinge i capelli: «portava pietre preziose, si profumava, parecchie volte al giorno impiegava molto tempo per agghindarsi e andava a pranzo tutto adorno, eccitato, ansioso» (p. 89). La morte sta lì ad attenderlo, ma non se ne cura, a differenza di Ivan Il’ic non ha alcun potere su di lui. Il lento spegnimento del suo fisico è condotto dall’amore di Tadzio verso la luminosa liberazione. Il suo addio sarà l’addio di Aschenbach alla vita. Non assaporerà mai il terribile distacco dall’amato. È sulla spiaggia, nella solita sedia e ammira il suo giovane Fedro quando la morte realizza il suo sogno di unione e di pace.
Gli parve che il pallido e soave psicagogo laggiù gli sorridesse, gli facesse cenno; che, staccando la mano dall’anca, gli indicasse l’orizzonte lontano, lo precedesse aleggiando nell’immensità piena di promesse. E, come tante altre volte, volle alzarsi per seguirlo (p. 96).
Lev Nikolaevič Tolstoj |
La morte di Ivan Il’ič |
Traduzione di Giovanni Buttafava |
Garzanti, Milano 1999 |
Pagine LIII-87 |
Thomas Mann |
La morte a Venezia |
Traduzione di Anita Rho |
Einaudi, Torino 1990 |
Pagine 96 |
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