Edipo Re

Di: Dario Carere
3 Gennaio 2011

Finalmente ritorna la tragedia; e non è un paradosso.
Lo Stabile di Genova ha messo in scena, dal 23 al 28 di novembre, un Edipo Re come sempre profondo e inquietante, ma soprattutto dalle grottesche atmosfere di delirio, che spogliando l’eroe allucinato (e allucinante) della sua secolare veste sublime, lo colloca in un ruolo ironico, logorroico, a tratti psicotico. Il risultato dell’impegno registico di Antonio Calenda si è rivelato un’opera incentrata sull’introspezione, sull’io diviso, sulla patologia (naturalmente la via interpretativa tracciata da Freud), che lo spettatore avrà potuto assimilare abbastanza facilmente dato il contesto “clinico” del travaglio del re di Tebe, benché la scena abbia senza dubbio molto sorpreso gli amanti dell’“austera” classicità. Finalmente ritorna Edipo, dunque; e sarebbe bello, certo, se questa non fosse l’unica tragedia greca del programma dello Stabile che purtroppo, anche quest’anno, non ha lasciato molto spazio al conflitto inconciliabile della scena ateniese, privilegiando ancora Shakespeare. Viene da chiedersi il perché di questo gusto: cosa ci allontana dai conflitti irrisolti, avvicinandoci invece a drammi meno “universali”? Aleggia nell’aria, forse, un certo bisogno di tranquillità.
Contesto clinico: è proprio il termine esatto, dato che per la maggior parte del tempo questo Edipo (un magnetico Franco Branciaroli) parla rimanendo sdraiato su un triclinio, contorcendosi, sbraitando, disperandosi. Sulla sinistra spicca la sagoma di un uomo seduto su una poltroncina, quasi che Edipo abbia bisogno di questo fittizio interlocutore per il suo viaggio conoscitivo. In poche parole, la scena si presenta come lo studio di un analista, dalle pareti spoglie, senza nessun arredamento, e la disgraziata esperienza del re solutore di enigmi è un viaggio dentro il suo rovello mentale, che non ammettendo compromessi (o non sarebbe tragedia!) lo guiderà verso la distruzione di chi ha desiderato scoprire l’insondabile. Non lo accompagnano dei veri e propri personaggi, ma ombre della sua ossessione. Edipo non è folle ma troppo umano. Il suo destino è quello di cogliere il segno (eichon) con cui trovare la chiave dell’enigma. E forse qualcosa di questo genere si prova a fare dall’analista, la nostra Pizia personale. Si può forse oggettivare ciò che è parte di noi stessi? Possiamo davvero metterci sulla lente, scoprirci come alterità? Edipo comprende che non è possibile. Come dargli torto?
Infatti, ed è questa la trovata più brillante, Branciaroli interpreta non solo Edipo, ma anche Tiresia, il secondo messaggero e persino Giocasta (per gran parte dell’opera rimane vestito da donna). È da solo oppure no? Restano al di fuori di lui soltanto Creonte, fratello di Giocasta, ingiustamente accusato da Edipo e per poco scampato alla pena di morte, e poi ovviamente il coro, che Calenda ha valorizzato con uno strano gioco di pareti semitrasparenti e luci soffuse. Il coro di questo capolavoro sofocleo è probabilmente il più tragico in assoluto: “La cosa migliore per un uomo è il non nascere, e in secondo luogo, se già è al mondo, il tornare il prima possibile da dove è venuto”. Qui Edipo ne è scocciato, più che sconvolto. I corpi seminascosti degli attori appaiono e scompaiono dietro il fondale e ai lati, intromettendosi, più che accompagnandoli, nei ragionamenti di Edipo. Già all’inizio dell’opera compaiono dei volti illuminati e in fila, in uno spazio dilatato dall’oscurità, e l’annuncio della peste a Tebe è per Edipo non molto diversa da una notizia di telegiornale.

Edipo è tutt’altro che solenne. È nervoso, balbettante, sconnesso. Lui stesso in genere non sembra credere a ciò che dice. La sua rabbia è soffocata, diventa non urlo ma sibilo a denti stretti; il suo dolore diventa non pianto ma sconsolato vaneggiamento, come un quadro metafisico. Quando racconta la sua fuga da Corinto per via del timore di uccidere il proprio padre e sposare la propria madre (così gli era stato profetizzato dall’oracolo: non sapeva che quelli non erano i suoi veri genitori e che presto avrebbe ucciso il padre Laio per una banale lite) assume un tono neutro e si mette a scrivere con una penna o pastello invisibile per terra e sui muri. Un accenno di grafomania compare anche quando uno dei due corifei pronuncia ripetutamente i versi -che riassumono la vicenda di Edipo e si concludono con la frase “Prima di giudicare se un uomo è felice, aspettate…”- alzando sempre di più la voce ma senza mai arrivare alla conclusione -“la sua morte”- che nel frattempo Edipo riporta nervosamente su un quaderno, fino a quando inizia all’improvviso la scena successiva.
Perché questi indizi di mania? Il dramma umano qui si manifesta attraverso la lingua della patologia, ma è forse esso stesso oggi da considerarsi patologia? No, il conflitto è normale, è addomesticato, Edipo è noi, Edipo è tutti; solo che forse il linguaggio della patologia è l’unico che ci è rimasto per esprimere un conflitto. Ecco cosa resta del sublime tragico: un referto psichiatrico. Persino l’arte deve avere l’acre odore dell’analisi. Se gettiamo uno sguardo al mondo, al nostro ossessivo tentativo di distrarci, al nostro giocare a non pensare, al nostro schizofrenico bisogno di esaltazioni visive, forse possiamo accorgerci che è diventato normale giudicare “malato” chi osa anche solo porsi certe domande, chi prova a oggettivare il proprio disagio. Preferiamo nasconderlo: Edipo, in quanto eroe tragico, è sì somma di tutti gli uomini ma, in quanto eroe sofocleo, è un uomo eccezionale, superiore, e per questo del tutto solo. E probabilmente il solo modo in cui noi riusciamo a esprimere questa superiorità è appunto la malattia. Ciò che i Greci chiamavano sublime, noi lo chiamiamo pomposo.
La verità esiste ma gli uomini sanno quanto sia pericolosa. Il dolore di Edipo che si acceca per aver visto troppo oltre diverrà la disgrazia di Penteo nelle Baccanti, fatto a pezzi per aver cercato di razionalizzare il nostro conflitto inconciliabile. A cosa tendiamo noi, invece? Siamo Edipo o Penteo? Sondiamo o sopprimiamo? La risposta, io credo, è nessuno dei due: secoli di verità, di Io, di anima, di Soggetto e altre parole unificanti qualcosa che non è affatto unitario, hanno portato a questo risultato, cioè al bisogno di distrarci dalla verità, di sopportarla attraverso un frivolo rumore. Come dice lo splendido personaggio di Winnie in Giorni felici di Samuel Beckett: “Quando sembra non ci sia più nulla da dire… si finisce per dire tutto”, per non capire più quello che si dice.

Conclusione: dopo una densa oscurità, il triclinio è sgombro e Branciaroli appare seduto proprio su quella sedia dove la sagoma di spalle è rimasta immobile per tutta la durata dell’azione. In poche parole, mentre parlava, si ascoltava da solo: era lui la sagoma, lui stesso analizzava parlando. È stato lui stesso spettatore. E mentre di nuovo il buio cala sul suo sguardo cieco, una luce rosso sangue gli illumina solamente il viso, che ora è finalmente isolato nel suo essere-nel-mondo. Una trovata geniale, che ci comunica il senso di appartenenza di Edipo a una dimensione, quella dell’inconscio, in cui non esiste una vera fuga da noi stessi. Non si può oggettivare la nostra voce, perché anche nell’oggettivazione le facciamo assumere toni nuovi.
Di certo, questo noi abbiamo in comune con Edipo: incapaci di vedere ancora qualcosa di piacevole sulla terra, ci trafiggiamo gli occhi, appartenendo a una sola cecità. E così chi cerca ancora qualcosa (cioè un nuovo modo per dire) diventa Edipo. E il suo sentimento di inadeguatezza, il suo prendere in giro gli altri, i suoi insulti collerici (splendida, tra le altre, la frase gridata a Tiresia -“Ti nutre una sola notte”- detta proprio da lui che vagherà nelle tenebre) mimano il nostro stanco annaspare nella quotidianità, nel fastidio di essere sempre qui senza una risposta, mentre attendiamo che un mezzo ci porti via, che le ore passino, che torni il bel tempo. Ho detto che Edipo è tutti: no, diciamo che Edipo è alcuni. Hölderlin vi ha visto il Tiranno che grandeggia nella sua smisuratezza; Nietzsche l’uomo, o l’oltreuomo, che più di tutti gli altri ha conosciuto, avendo più degli altri sofferto; ma a noi che differenza fa? Oggi siamo tutti sulla stessa barca o -meglio- abbiamo la necessità che così sia, perché le eccezioni sono diventate troppo scomode da osservare, da assimilare, ed è molto più semplice dire che questi turbamenti appartengono a tutti, che siamo tutti un po’ filosofi, che “tutti siamo così, ma che bisogna pur andare avanti”, con la convinzione che la mediocrità si sia involata da questo mondo e che anche il conflitto inconciliabile, grazie al cielo, si sia democratizzato.
Ma questa è un’altra storia. Grazie Calenda.

Edipo Re
di Sofocle
Traduzione di Raul Montanari
Regia di Antonio Calienda
Scene di Pier Paolo Bisleri
Con Franco Branciaroli
Teatro della Corte di Genova
Dal 23 al 28 novembre 2010

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