Le diverse immagini di Socrate nelle Apologie di Platone e Senofonte

Di: Alessandro Generali
1 Luglio 2010

La scelta di Socrate di non tramandare il proprio pensiero attraverso testi scritti ha costretto gli storiografi a cercare di ricostruirlo, come è accaduto per molti personaggi greci, riferendosi alle testimonianze di altri autori. La mancanza di fonti dirette e la necessità di appoggiarsi a quelle indirette ha creato attorno alla figura del filosofo greco una certa aura di incertezza e di mistero, che ha reso difficile giungere a una definizione univoca della sua riflessione e delle vicende della sua vita. Le stesse fonti indirette attendibili non sono particolarmente numerose, a causa del lungo periodo intercorso fra gli anni in cui svolse il suo magistero e quello in cui operarono i primi filologi greci. Ad accentuare l’incertezza si aggiungono le discrepanze presenti nelle testimonianze dei suoi contemporanei, che delineano immagini di Socrate fra loro molto differenti e persino contraddittorie. Certamente sappiamo che ha parlato di lui Aristofane, con la sua tipica ironia corrosiva, ne Le nuvole; Aristotele lo ha menzionato, anche se ciò che scrive non può essere considerato pienamente attendibile a causa della sua consueta tendenza a rielaborare e a mistificare il pensiero degli autori che nomina nei suoi scritti. Pure sappiamo che un tale Ermogene, nel circolo degli amici di Socrate, i cui scritti sono ora perduti, ha raccontato del suo processo1.

Fra le testimonianze rimasteci le più autorevoli e accreditate sono però quelle dei suoi diretti discepoli, cioè Platone e Senofonte. Platone rappresenta una delle fonti principali del pensiero greco e quindi occidentale e, in quanto tale, ci appare affidabile, se non altro per l’acume della sua interpretazione teoretica. Sia Platone che Senofonte erano inoltre direttamente legati a Socrate da un rapporto personale, perché erano suoi allievi, ed entrambi ne hanno ricordato la figura e l’opera con una propria Apologia, fornendo due testimonianze parallele assai ricche di informazioni e fra loro spesso complementari, ma anche evidentemente portatrici di immagini differenti di quell’autore. Argomento comune dell’Apologia di Socrate di Platone e di quella di Senofonte è la descrizione del processo che venne tenuto ad Atene nel 399 a.C. a carico del loro maestro, accusato per Senofonte di corruzione dei giovani e di empietà2 e per Platone anche di sofismo3. Per entrambi gli autori, gli accusatori di Socrate furono principalmente due: Meleto, “uno sconosciuto”, come lo ha definito Platone stesso4, e Anito, il “mandante” di Meleto, dipinto come un fanatico avversario dei sofisti5.

L’immagine tradizionale di Socrate, alla quale tutti ci sentiamo più vicini, è senza dubbio quella che emerge dall’Apologia di Platone. In essa Socrate viene descritto fiero negli atteggiamenti e sicuro nell’argomentare, intento a schernirsi dalla sentenza dell’oracolo che aveva decretato la sua assoluta superiorità morale e intellettuale rispetto a tutti i suoi contemporanei. Un Socrate che, con una modestia pari solo alla sua statura intellettuale, pregava i membri del tribunale di scusarlo per la sua scarsa perizia giuridica e per la conseguente difficoltà che avrebbe avuto ad argomentare la propria difesa in modo adeguato, che viveva la propria condanna con superiore distacco e con serenità, fermo nei suoi ideali civili di rispetto delle leggi. Un personaggio, insomma, esemplare, che impersonificava l’ideale greco dell’uomo e del cittadino.

L’Apologia di Senofonte -oltre che sul tradizionale intento encomiastico tipico di quel genere letterario- si concentra invece, come l’autore stesso sottolinea nella parte introduttiva, nel cercare di fornire una giustificazione della megalegorìa del maestro, cioè nello spiegare le ragioni dell’apparente arroganza del discorso socratico e dell’autoelogio che avanza in propria difesa in tribunale6.

Molti hanno visto, nella controversa operetta senofontea, una rappresentazione più realistica e più vicina all’effettivo personaggio storico di Socrate, che avrebbe al contrario potuto venire maggiormente mistificato dal testo platonico, più portato a forzare il personaggio secondo gli intenti teorici del proprio autore. Contro questa tesi si pone però Gigon, il quale sostiene che Senofonte «non ha mai avuto in mente di mettere per iscritto le proprie personali memorie del Socrate storico»7. Volendo dare credito a questa interpretazione cade di conseguenza la tradizione che tendeva a considerare l’operetta di Senofonte strettamente subordinata a quella di Platone, come accade, in particolare, per i contributi di Wilamowitz8 e per il lapidario giudizio di Guthrie, che la definisce un «rather pathetic little work»9. Secondo l’ipotesi di Gigon la ricostruzione storiografica non fu l’intento di Senofonte e l’opera deve essere considerata una pregevole trattazione letteraria.

Tirando le somme, il Socrate che ci è stato tramandato non è affatto quello “storico”, ma in tutti i casi il suo pensiero e le vicende della sua vita sono state piegate alle esigenze narrative di chi ne ha trattato. Allo stato attuale degli studi è possibile più che altro individuare un Socrate visto dai suoi amici (Senofonte e Platone) e uno giudicato, al contrario, dagli avversari (Aristofane). In mancanza però di fonti storiografiche univoche, appare più affascinante rimanere legati all’immagine esemplare di Socrate delineata dalla narrazione platonica che non a quella più prosastica illustrata dall’Apologia di Senofonte.

Note

1. Xen., Socr. Apol., 2

2. Xen., op. cit., 10

3. Plat., Socr. Apol., 19b

4. Plat., Eutiph., 2b

5. Plat., Men., 90a-95b

6. Xen., Op. Cit., 15-18

7. O. Gigon, Sokrates, Sein bild in Dichtung und Geschichte, Berne, 1947, p. 50

8. U. von Wilamowitz-Moellendorff, Die xenophontische Apologie, «Hermes» 32 (1897), pp. 105 e segg.

9. W.K.C. Guthrie, A History of Greek Philosophy. Vol. III: The Fifth-Century Enlightenment, Cambridge, 1969, p. 339

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