Pavel Haas Quartet a Genova
Cambio di programma per il concerto organizzato dalla Giovine Orchestra Genovese per il teatro Carlo Felice di Genova. Il 29 novembre il quartetto Hagen, per via di un malore di uno dei componenti, non ha potuto deliziare il pubblico con i propri archi, dalla fama ormai internazionale. Il virtuoso quartetto salisburghese si sarebbe esibito con brani di Lutoslawski, Schumann e Beethoven.
A questo proposito è stato invitato a Genova il giovane quartetto Pavel Haas, residente a Praga e vincitore, tra l’altro, del prestigioso Concorso Borciani di Reggio Emilia nel 2005. Veronika Jaruskova, Eva Karova, Pavel Nikl e Peter Jarusek, residenti a Praga e sinora distintisi in particolare per il repertorio ceco (all’interno del quale lo stesso Pavel Haas), nonché per l’esecuzione di grandi classici più datati come Beethoven o Prokof’ev, hanno deliziato lo (ahimè) sparuto pubblico genovese con lo String Quartet op. 7 n. 2 di Pavel Haas, seguito dal quartetto in fa maggiore op. 59 n.1 di Beethoven.
Già col loro CD di debutto del 2007, contenente opere dello stesso Haas e di Janacek, i quattro cechi si sono affermati come fulgida promessa nell’ambito musicale contemporaneo. Il perché del loro successo è stato reso noto al Carlo Felice con dei brani energici, vigorosi ed inquieti, che scrosciando su una platea sorpresa le hanno fatto conoscere la musica di Pavel Haas, artista ancora poco esplorato, ma che si è rivelato favoloso grazie a questo gruppo che ne ha adottato il nome.
Sarà stata la giovane età dei musicisti; sarà stato il fatto che Pavel Haas è un nome poco o forse mai sentito sinora nel corso dei concerti della GOG, e che per tutta la stagione non comparirà più; sarà stata la notizia, letta e ascoltata brevemente dal microfono che ha annunciato il fuori programma, che questo Pavel Haas è morto giovane e per di più dopo la deportazione ad Auschwitz; di qualunque cosa si tratti, una tensione non così usuale ha pervaso la sala poco prima dell’esecuzione, e la platea si è presto fatta conchiglia per questa insolita marea di note disperate.
Se fare filosofia (o almeno provarci) significa riconoscere i limiti del linguaggio, bisogna anche ammettere che descrivere l’esperienza conoscitiva regalata da questo quartetto non può non diventare, a tratti, poesia. Pure chi volesse ammettere la propria ignoranza in ambito musicale (ignoranza di cui è fin troppo facile essere affetti, data la mancanza nelle scuole di un’educazione in questo senso, ma data soprattutto la nostra pigrizia) non potrebbe restare impassibile dinnanzi all’esecuzione dello String Quartet, che attraverso un andare e venire di nervose rievocazioni stride sull’anima come un’unghia su un vetro. Il primo brano, Landscape, ha introdotto gli ascoltatori a un’energia inaspettata, sorprendente, di una modernità spiazzante, certo radicalmente diversa dalla fascinosa modernità di un Mozart, di un Dvoràk. Sono le contraddizioni di questo brano a costituire la sua forza; e solo arrivando all’incerto pizzicare di corde di Cart, Driver and Horse si comprende che le esitazioni di questo compositore sono forse più importanti delle note stesse.
Non si tratta solo dell’inquietudine catartica di questi brani così nuovi e così diversi, ma di un riconoscersi nella sua incertezza, nel suo salire e scendere; che cosa motiva queste contraddizioni, questi salti improvvisi che spesso vogliono così tanto somigliare a una stonatura? Forse Haas pensava alla spaventosa ondata di violenza che stava travolgendo l’Europa durante la guerra? Come non pensare ai colpi di cannone nel suo stridere violento o alle grida delle vittime dell’olocausto nella sua folle rincorsa? Sono domande legittime, ma la musica risponde solo a se stessa, e caso ed intenzione nell’arte sono la stessa cosa.
Il fremito del violino era inestinguibile, l’incertezza della corda sempre più schizofrenica. E c’era da pensare alla verità. Quando si ascolta qualcosa che rende inquieti, si pensa che sia vera, reale. Può sembrare strano, ma la verità spiazzante di ciò che non ci piace ci induce spesso a credere che l’arte debba distrarci da esso: è per via di questo istintivo spavento che andiamo in cerca di mostre tranquillizzanti (lungi da noi le installazioni contemporanee) e di melodie che non osano troppo nell’inconscio, come Mozart.
Così ho pensato a Otto Dix. Non difficilmente i suoi soggetti angoscianti, le sue atmosfere grottesche potrebbero ascriversi alle note del quartetto; questo Haas non fa forse parte di una Nuova Oggettività? Il bello della musica è che raramente tenta di essere rappresentativa (cioè possiamo non vedere nell’opera di Haas necessariamente una denuncia, una protesta) ma può essere solo descrittiva o solo evocativa. Certo, forse Haas si sarebbe sentito vicino a lui per altri motivi, ad esempio nei sentimenti verso la miseria (era di umili condizioni); possiamo anche pensare a quell’ipocrisia di cui Dix ci parlava ritraendo prostitute deformi, generali mostruosi, professori obesi. Ma Haas ha il privilegio degli archetipi e attraverso il pianto del violino tutti noi ci riconosciamo nello stesso pianto, e questo lo rende alla massa, io credo, più sopportabile rispetto a un Dix, che probabilmente ancora adesso farebbe storcere il naso agli amanti dell’armonia.
È questa la cosa che fa spavento: la musica ci conosce, ma non viceversa. È questa la sua particolarità rispetto alla pittura: un quadro si può esplorare, ma non possiamo allo stesso modo esplorare una vibrazione sonora, perché si fa meno “oggettivare”, perché è più archetipica.
Anche l’atmosfera più dolce e soffusa di The Moon and I parla di un disastro da cui non c’è salvezza. Ma certamente non c’è affatto rischio di monotonia, data la straordinaria varietà che questo quartetto offre, al di là dei colori che accomunano i quattro brani. Infatti l’ultimo, Wild Night, raggiunge indescrivibili vertici di tensione, un’agonia sublime che lascia paralizzato il giudizio; e non ho dubbi nel dire che è il brano più bello dei quattro. Anche Schönberg sa ispirare questo effetto: niente solennità, niente retorica, nessuna celeste bellezza, come quella dell’Adagio di Barber (che gli enti televisivi amano fin troppo spesso scongelare per indurre a commozione), ma il truce splendore del ritratto psichico, la cruda nudità delle nostre ferite. È verità. Ed è questa la domanda più interessante: perché è così affascinante la verità se mostrata dall’opera di un artista? Una fotografia non è verità, perché non ne scava gli anfratti, non ne sviscera l’essenza; è gelida riproduzione. La pittura non si limita a imitare, ma dipinge insieme causa ed effetto, particolare e universale, oggettivo e soggettivo: i papi di Francis Bacon, le farneticazioni di James Ensor. Invece la musica, che può avvalersi della successione temporale, descrive il moto ondoso dell’inconscio e la nostra “disperata speranza” di averne controllo. Pavel Haas fa questo.
E poi Beethoven; un Beethoven vivace, elegante, a tratti nostalgico. Probabilmente è voluta la sua grande distanza da Pavel Haas (del resto la scena, bisogna ammetterlo, è stata tutta del ceco e non ne abbia a male il tedesco, data la sua immortale autorità); ma si riconosce, già a partire dall’Allegro, una certa somiglianza, e consiste proprio nel salire e scendere, nell’andare e venire, nel moto ondoso, che non è ancora introspezione ma più che altro un’eco di essa. Gli archi insistono, incidono, poi declinano sfiniti nell’Adagio e molto mesto, e si resta come ipnotizzati da questa continuità tra i due, così lontani e così vicini. E si ha davanti agli occhi, di qua il dolore di un’anima e insieme il dolore di un’epoca, il grido di una generazione di artisti spazzata via in una spirale di violenza, di là il rinfrancarsi dalla verità, il cibo della mente che ci conforta dell’essere qui, ancora, senza risposte. E non si sa proprio dire chi dei due sia più moderno.
Fino a prova contraria, una serata filosofica, più che degna di leggersi qui.
E oggi, ci è rimasto qualcosa di moderno? Bella domanda.
Teatro Carlo Felice – Genova |
29 novembre 2010 |
Quartetto Pavel Haas |
Veronika Jaruskova e Eva Karova (violino), Pavel Nikl (viola) e Peter Jarusek, (violoncello) |
Programma |
Pavel Haas: Quartetto n.2 op. 7 |
Beethoven: Quartetto op. 59 n.1 |
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