Il filosofo esordiente
Valerio si infagottava sempre quando usciva di casa. Maglia di lana, pullover, cappotto, sciarpa. E tirava su anche il bavero per coprirsi. Camminava sconosciuto ormai da molti mesi. Persino a se stesso. Non aveva più il cellulare. Lanciato dentro un cassonetto della spazzatura un giorno che rientrava a casa. Non aveva più neanche quella compagnia di amici che sin da adolescente frequentava. Licenziata nel silenzio a ogni richiesta di incontro. I suoi libri invadevano il piccolo spazio in cui viveva. Letti tutti ormai. Studiati sin nelle note. Il bisogno vampiresco di succhiarne altra energia muoveva la sua volontà, spingendolo ad andare fino in biblioteca per ingurgitare altra vita che gli consentisse di tirare avanti. I soldi erano ormai quasi finiti. La decisione di non chiedere più nulla alla sua famiglia s’intravedeva sul volto. Smagrito. A trent’anni l’obiettivo deve essere raggiunto. Eppure aveva creduto che la filosofia non lo potesse tradire. La sua amante era. Sin da quando a quindici anni aveva scoperto che il mondo vero non era là fuori ma preziosamente nascosto in quei libri. Ed era giusta la realtà che aveva deciso di abitare fin da allora. A tal punto lo era che si adornava di aggettivi che soltanto un cieco non avrebbe scorto e un sordo non avrebbe saputo ascoltare. Morale, teoretica, etica, politica, storica, religiosa, antropologica. Questo era la filosofia e tanto altro. Questo difendeva nell’essenza del suo valore, proteggendolo dall’irrazionalità malvagia dell’uomo egoista e impietoso.
Aspettava di potersi un giorno dichiarare sacerdote della sua Dea. Filosofo, insomma. E seguiva quelli che già amministravano il suo culto, convinto che lasciarsi alla spalle l’umanità dei molti gli avrebbe reso la possibilità di accettare meglio la superficie in cui vivacchiavano e in cui era costretto a muoversi.
Al liceo la sua insegnante lo premiava ogni volta. Non si sbagliava, Valerio. E all’università la lode non mancava mai in nessuno di quegli esami che con gioia aveva sostenuto. Da studente ogni tanto rimaneva seduto sulla panchina dell’androne della facoltà. Guardava passare quei filosofi, sorridenti o impassibili, che sembravano ormai immuni dal chiacchiericcio inconsistente e dalla folla senza volto che avrebbero potuto, in un altro tempo, risucchiarli nelle acque di un mondo inautentico. Erano l’esercito della sua Dea, troppo ben equipaggiati per morire nel Mondo anziché esistere sulla Terra. I suoi eroi. E pregava ogni giorno di poter divenire uno di loro e degnamente chiamarsi Filosofo.
Aveva studiato costantemente e scritto su tutto, perfezionando ogni parola o frase o ragionamento per evocare con la forza elementare del linguaggio la sua Dea, per far emergere il segno di ciò che veramente era reale.
Nessuna distrazione dal suo obiettivo che gli sembrava giustamente là in fondo ad attenderlo non appena fosse stato visibile a tutti che anche lui non era un semplice devoto ma un serio profeta.
Le logiche mafiose di quell’esistenza troppo umana lo schifavano ma sentiva di esser fortunato a non doverle combattere e ad aver scelto la via della sua dike.
L’ingiustizia, le raccomandazioni, le segnalazioni, i concorsi truccati, tutto il marciume stava fuori dall’entrata del tempio che l’accademia da sempre era. Perché mai, d’altronde, si sarebbero dovuti fregiare di quegli aggettivi tanto preziosi? E quando qualcuno gli diceva che purtroppo non era così che andavano le cose, Valerio li guardava pietoso e in cuor suo sorridente perché la credulità della gente si scontrava con la realtà dei fatti. E il fatto era evidente. Aveva votato la sua vita alla Filosofia e nessuno che fosse stato spinto da un tale religioso furore poteva virare così drasticamente verso logiche miseramente umane. Valerio era certo che a lui non sarebbe mai accaduto e proiettava questa sicurezza su quell’esercito di Templari, su quei filosofi viventi che impartivano la messa dalle cattedre.
I mercenari stavano fuori.
Il giorno della laurea arrivò quasi subito. Gli anni erano trascorsi senza il minimo accenno di stanchezza. Neppure lenti.
Aspettava con gli altri, vestiti a festa, di discutere la sua tesi. Seduto sulla solita panchina che l’aveva ospitato per anni. Accanto a lui una donna stava assorta, silenziosa. Valerio accarezzava la copertina blu della tesi, con i polpastrelli seguiva le lettere dorate impresse.
D’un tratto la mano della donna si posò sulla sua.
«Smettila. Non ne vale la pena».
La fissò stupito. Lei si alzò e guardandolo un’ultima volta scomparve tra la gente che sostava rumorosa nel bel mezzo dell’androne. Si guardò intorno, ma decise che non era il momento di farsi domande. Era il giorno in cui avrebbe tentato di dare risposte.
«Sarà forse vero quanto Whitehead sostiene: tutta la storia della filosofia occidentale non è altro che una serie di note in margine a Platone. Eppure a conclusione di questo percorso universitario e di fronte a voi che siete i filosofi che hanno tracciato l’orizzonte della realtà in cui sono cresciuto in qualità di studioso e con cui oggi umilmente sto avendo per la prima volta l’opportunità di confrontarmi, sento di condividere Seneca, piuttosto: Platonem non accepit nobilem philosophia, sed fecit. La filosofia non accoglie già nobili, perché per natura l’animo umano non lo è. La filosofia rende nobili».
Concluse la sua discussione ben contento di avere espresso finalmente il suo credo. Gli applausi e la lode seguente lo inorgoglirono. Era umano. Le mani di quell’esercito che una per una stringevano la sua gli diede la sensazione che forse a breve sarebbe divenuto un loro pari. Nobile come loro.
Erano passati sette anni da allora. E aveva dedicato ogni singolo giorno alla sua Dea, vivendo come suo rappresentante. Continuava ad andare all’università, a respirare l’aria di quell’ambiente purificato dalle brutture del mondo, a sedere sulla sua panchina. E a poco a poco divenne più vecchio dei giovani studenti che di anno in anno si aggiungevano alla schiera dei devoti.
Partecipava a ogni concorso che veniva bandito. Sempre escluso. Non era ancora abbastanza filosofo. Le riviste cominciarono ad accogliere i suoi saggi. Le pubblicazioni si moltiplicarono nel giro di poco. Eppure non era ancora abbastanza filosofo. Ogni volta che non si ritrovava nella lista degli ammessi, pensava di non essere ancora filosofo. E andava dai commissari a scusarsi per il suo elaborato poco teoretico. Qualcuno sorrideva impressionato, qualcun altro non capiva e credendolo ironico lo mandava via invitandolo bruscamente a studiare. Le porte di ogni istituto erano decorate con i nomi di quei nobili, subito sotto campeggiava la Dea con i suoi begli aggettivi. Era moralmente, eticamente, politicamente, teoreticamente, antropologicamente, religiosamente impossibile che quegli uomini non fossero morali, etici, politici, antropologici, religiosi. Una contraddizione in termini che la Filosofia non avrebbe potuto ammettere. Eppure cominciava a notare strane circostanze che persino a lui, cieco e sordo a detta di molti, ritornava difficile non vedere. Aveva imparato a individuare i laureati che sarebbero arrivati primi nei concorsi. Erano gli amici di quello che estraeva la busta. I soliti che frequentavano l’istituto. Sapeva quanti ne avrebbero ammessi: sempre il doppio rispetto ai posti disponibili. E quando il dubbio si era fatto più consistente era andato dal suo professore di filosofia morale -il più morale di tutti- che gli aveva sghignazzato dritto in faccia.
«Un ingenuo come lei è un bene che sia bocciato, mi creda».
A poco a poco, di mese in mese, di anno in anno, il suo esercito di Templari si trasformò in un esercito di mercenari al soldo dell’Ingiustizia. Aveva imparato a riconoscerli. Ormai sapeva che in Italia soltanto una manciata ristretta erano nobili, il resto baroni.
Il Natale era vicino. Per l’ennesima volta si era recato a guardare la lista degli ammessi. Non c’era. Poi silenziosamente si era seduto accanto a una ragazza in attesa di discutere la tesi. Accarezzava nervosamente la copertina verde della sua tesi, sfiorando con i polpastrelli le lettere impresse. Poggiò la sua mano su quella di lei.
«Smettila. Non ne vale la pena» le disse.
Scomparve tra la folla che sostava nel bel mezzo dell’androne.
La mattina dopo, infagottato come al solito, da un anno ormai, si diresse verso la biblioteca. Studiò come al solito, mangiando con ingordigia il suo ultimo pasto. Come al solito andò nell’edificio dell’accademia che l’aveva formato. Si sedette come al solito sulla panchina di quell’androne che accoglieva rumoroso le nefandezze più basse provenienti dall’esterno. Guardò come al solito i sacerdoti della sua Dea, vilipesa e frodata dal loro implacabile demone. Si cosparse in silenzio di benzina.
Nel bel mezzo dell’androne si diede fuoco. Il primo albero di Natale dell’anno si accese. Una torcia nel buio della scellerata meschinità. Il sole abbacinante all’uscita della caverna. Il Mondo di schiavi si allontanò da lui che urlava ridente: «Video barbam et pallium, philosophum nondum video».
E ancora urlò. Nei tre giorni seguenti di agonia null’altro disse.
Questo racconto è dedicato a tutti i giovani che hanno sacrificato la loro vita in nome della dea Dike. Due nomi a memoria di tutti: Jan Palach e Norman Zarcone.
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