Settimana filosofica 2010
Filosofando fra il Piave e le Dolomiti
Dal 20 al 26 agosto di quest’anno, alcuni di noi (fra i quali i due promotori di questa rivista) hanno riprodotto un’esperienza ormai più che ventennale: “le vacanze filosofiche per non…filosofi”. Un po’ da tutta Italia (dalla Sicilia alla Lombardia, dal Lazio alla Liguria) ci siamo dati appuntamento in un albergo di Nevegal, fra i boschi del bellunese, per riflettere sul tema della libertà: una scelta, se non ‘obbligata’ (sarebbe forse un po’ paradossale), certo logicamente consequenziale dopo le precedenti vacanze dedicate al potere. Ciascuno dei quaranta partecipanti (di cui solo una sparuta minoranza laureati in filosofia: per il resto, ingegneri e avvocati, medici e magistrati, studenti universitari e attempati pensionati) avrà certamente vissuto l’esperienza attraverso la griglia delle proprie aspettative e della propria sensibilità: secoli prima della sottolineatura, da parte di Heidegger e di Gadamer, della inevitabilità della “pre-comprensione”, il vecchio san Tommaso d’Aquino aveva osservato che quod recipitur, admodum recipientis recipitur… È dunque senza la minima pretesa di essere fedelissimo ai fatti, ed esauriente nelle considerazioni critiche, che provo a socializzare alcuni flash su ciò che è successo in Cadore e, soprattutto, nella mia mente.
Intenti programmatici e svolgimento effettivo
Secondo la tradizione ormai più che ventennale (ho iniziato le vacanze filosofiche nell’estate del 1983 in una collina sopra Trento), la prima sera è dedicata a un primo scambio di autopresentazioni e all’evidenziazione, da parte mia e dei colleghi che –via via negli anni– hanno accettato di cooperare, di alcune caratteristiche qualificanti dell’iniziativa. Nella Lettera di benvenuto ho avvertito l’esigenza interiore di sottolineare soprattutto tre o quattro aspetti: a) l’idea di filosofia non tanto come una ‘disciplina scolastica’ bensì come un modo di affrontare la vita (in maniera consapevole) b) il gusto della riflessione (e, dunque, la fruizione di spazi di silenzio meditativo, di contemplazione) c) l’arte del confronto dialogico con gli altri (al di là del mutismo scoraggiato e della chiacchiera saccente) d) lo stile della nonviolenza (da Gandhi denominata “forze della verità”) che è possibile solo se si destruttura la identificazione delle idee con i soggetti che le espongono, a causa della quale, per non offendere l’altro, evito di criticarne le tesi o, al contrario, per contestare le tesi altrui ritengo inevitabile aggredirlo. Rispetto a queste attese, si può dire che la maggior parte dei partecipanti è riuscito a sintonizzarsi e a sperimentarne i vantaggi. Forse, come nei miei timori, le difficoltà maggiori si sono registrate sull’ultimo punto: in qualche caso, su argomenti seri e più spesso futili, si sono registrati piccoli attriti che un atteggiamento di migliore autocontrollo emotivo, di attenzione alla sensibilità altrui e di distanza ironica dagli equivoci della comunicazione, avrebbe potuto evitare. Per fortuna, e per merito di tutti, comunque il tono complessivo della convivenza si è mantenuto sostanzialmente sereno e, frequentemente, anche allegro.
Il filo tematico
Il tema dell’anno –libertà e libero arbitrio– è stato affrontato, come in altre edizioni, in una prospettiva storico-critica. Elio Rindone, infatti, ha seguito la nozione di libertà nel mondo greco (Socrate, Platone, Aristotele, lo Stoicismo) e nel mondo medievale (Agostino e Tommaso d’Aquino); a me è spettato focalizzare, come esponenti della Modernità, le posizioni opposte di Cartesio e Spinoza nonché il tentativo kantiano di arrivare alla certezza della libertà per via pratica, anziché teoretica; Alberto Giovanni Biuso ha esplorato alcune prospettive contemporanee –se non sempre in senso strettamente cronologico, dal punto di vista della fortuna nel XX secolo– come Schopenhauer, Nietzsche, Foucault e Lorenz. Giusy Randazzo, infine, si è assunta il compito di sollecitare, nella penultima sessione, la reazione personale dei partecipanti mediante una metodologia che prevedeva sia la discussione in gruppi di quattro-cinque persone sia un confronto più ampio in assetto plenario. Il percorso diacronico ha disegnato una sorta di parabola: dalla visione greca di un cosmo stretto dalle tenaglie della ‘necessità’ (anche quest’anno, al teatro antico di Siracusa, la follia di Aiace e lo struggimento amoroso di Fedra sono stati attribuiti – rispettivamente da Sofocle e da Euripide – agli dei e al destino) si è andata profilando una soggettività (Socrate, Platone e Aristotele la chiamavano ‘anima’) capace di svincolarsi, almeno parzialmente, dai condizionamenti esterni, sociali, pubblici e dai demoni interiori, le “mille teste” del mostro che ciascuno di noi è. La ‘libertà’ diventa ‘libero arbitrio’ forse già con Aristotele, certamente con Agostino e Tommaso d’Aquino: poiché non abbiamo una visione diretta del Bene assoluto (al cui cospetto resteremmo abbagliati e paralizzati, obbligati all’adesione dall’evidenza), la nostra volontà spazia sempre fra beni finiti (anzi, fra aspetti finiti di beni finiti) e non è quindi mai determinata ad unum. Con la modernità il soggetto, che nell’epoca classica era fortemente limitato dall’ordine cosmico e nel medioevo dall’onnipotenza del Creatore, esplode; con Cartesio diventa il principio e il criterio della verità e della libertà. Da qui la reazione di Foucault (XX secolo) che riprende Nietzsche (XIX secolo) che aveva ripreso Spinoza (XVII secolo) che aveva ripreso lo Stoicismo (IV secolo a. C. – III secolo d. C.): la libertà è liberazione dal proprio ego e accettazione delle inflessibili leggi (o ‘strutture’) della natura e della storia. Oggi la domanda è, fondamentalmente, questa: è ragionevole trovare uno spiraglio, una fessura, fra la libertà come autodeterminazione assoluta (Sartre) e la libertà come accettazione della necessità assoluta (che sembra imposta anche del determinismo scientifico sia fisico che biologico)? È ancora praticabile, sulla scia di Pascal e di Kant, una prospettiva che riconosca nell’essere umano sia la sua appartenenza ai meccanismi naturali (al pari di minerali, vegetali e altri animali) sia la sua appartenenza a una dimensione oltre-che-fisica (il “regno dei fini”, della responsabilità etica, dell’autodeterminazione morale)? Forse la verità è che nasciamo ‘schiavi’ e possiamo –possiamo!– morire (relativamente) liberi solo se viviamo come se fossimo liberi. Nelle questioni pratiche, la pratica non è irrilevante: se vivi da schiavo, muori da schiavo; se vivi da libero, muori da libero. È uno dei campi in cui le profezie si auto avverano o, meglio, le teorie si auto confermano: pensi di non essere libero e non lo sarai davvero; pensi che sei dotato di libertà condizionata, ti impegni in un processo di auto liberazione e, in itinere, sperimenti di essere davvero libero. Nessuno si aspettava di dirimere la questione della libertà in maniera definitiva grazie a sette seminari (per giunta tenuti da tre relatori di diverso orientamento filosofico): averla messa in luce in termini un po’ più precisi, ascoltando le ragioni degli uni e degli altri, è stato l’obiettivo raggiungibile e, a mio avviso, effettivamente raggiunto.
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A questa analisi di Augusto Cavadi aggiungiamo le sintesi dei propri interventi che i quattro relatori hanno preparato per il sito www.vacanzefilosofiche.eu. In questo modo, i lettori potranno farsi un’idea dei contenuti e del taglio argomentativo che hanno caratterizzato le diverse relazioni.
Dalle prime esperienze della libertà intesa in Grecia come non-schiavitù, indipendenza dal potere altrui, si passa con Socrate alla scoperta della libertà interiore, propria di chi conosce il bene e lo fa. Nel mito di Er, Platone sottolinea i limiti della libertà umana, mentre Aristotele illustra il processo decisionale che porta alla scelta volontaria. Nell’età ellenistica gli Stoici identificano la libertà con la consapevolezza che tutto è necessario; al contrario, Agostino è sostenitore del libero arbitrio, atto della volontà che può anche disubbidire alla ragione e Tommaso spiega che la scelta libera è possibile perché nessun bene finito attrae necessariamente l’uomo, la cui capacità di desiderare è infinita.
(Elio Rindone)
La Modernità è caratterizzata dall’opposizione radicale fra chi ritiene, come Cartesio, che la dimensione spirituale ( e dunque razionale e volontaria) dell’essere umano sia evidente e chi, come Spinoza, ritiene evidente l’illusorietà del libero arbitrio umano. Entrambi gli autori pensano l’antropologia alla luce della loro teologia: di un Dio radicalmente libero e onnipotente (Cartesio) o di un Dio radicalmente necessitato ad essere ciò che è (Natura) e a squadernarsi con la ferrea necessità della logica geometrica. Con Kant si tenta un superamento dell’opposizione metafisica precedente: l’uomo, che in quanto animale bio-fisico appartiene al regno del determinismo, è però anche soggetto ‘noumenico’ che si muove nel regno dei fini liberamente perseguiti. Egli non ha nessuna possibilità di dimostrare razionalemnte d’essere libero, ma può – e deve – vivere “come se” (als ob) lo fosse effettivamente.
(Augusto Cavadi)
L’uomo è un’invenzione recente che presto sparirà. Questa affermazione di Michel Foucault può sembrare paradossale ma essa si limita a registrare la nascita e la dissoluzione del soggetto (non della persona) che pretende di rappresentare l’intero, del quale è invece soltanto una parte. E se la soggettività è un’illusione, il soggetto libero lo è ancor di più. Spinoza, Schopenhauer, Nietzsche hanno distinto con chiarezza la libertà di fare, che non è in discussione, dalla libertà di volere proprio quel fare e non un altro. Tale seconda forma della libertà (l’actus elicitus) renderebbe del tutto immotivato e quindi insensato ogni agire.
Siamo certamente liberi -per fortuna- da molte costrizioni esterne ma non possiamo esserlo dalla nostra stessa natura, che già Eraclito definiva il vero demone dell’uomo. Le ricerche etologiche di Konrad Lorenz confermano pienamente la continuità tra la nostra specie e l’intero mondo animale, col quale condividiamo anche i condizionamenti biologici. Ma conoscere i confini del nostro agire non rappresenta una ragione di tristezza, al contrario costituisce un motivo di serenità. Le sollecitazioni esteriori -materia e storia- producono le nostre inclinazioni interne e le inclinazioni interne -il corpomente- fluiscono nella materia che è tempo cosmico e nella storia che è tempo sociale. Il soggetto separato non esiste; esiste il flusso temporale del quale ciascuno di noi è un istante effimero ma unico, irripetibile e per questo eterno, necessario e per ciò colmo di senso.
(Alberto Giovanni Biuso)
La MNR –Metodologia della Narrazione e della Riflessione- è una pratica dialogica, ideata a Genova (www.sicurascuola.com). È stata utilizzata, in parte modificandola in vista dell’utilizzo durante la Settimana filosofica, a Nevegal poiché favorisce la condivisione e una reale distribuzione della partecipazione, grazie alla formazione di sottogruppi momentanei e alla facilitazione non direttiva. Le domande sottoposte alla riflessione dei sottogruppi sono state le seguenti: Qual è, tra le citazioni proposte o tra le posizioni esposte dai relatori, quella che più condividete?; Quali caratteristiche personali ed esistenziali dovrebbe, secondo voi, possedere chi aderisce alla concezione del libero arbitrio fatta propria dal gruppo?; Qual è l’importanza del problema del libero arbitrio nel tessuto della vita quotidiana?. Il lavoro dei gruppi e la socializzazione delle risposte in plenaria hanno permesso la condivisione delle differenti visioni personali sul tema del libero arbitrio, a partire dalle linee di ricerca emerse durante le giornate precedenti.
(Giusy Randazzo)
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