Teodicea

Di: Niccolo Cappelli
2 Ottobre 2010

Report liberamente tratto dalla lezione del Prof. Sergio Givone sulla teodicea di Leibniz
(Festival di Filosofia 2010)

Teodicea (theos-dike) è un neologismo coniato dallo stesso Leibniz per indicare la dottrina concernente la giustizia divina. Nello specifico, si pretende quindi di dimostrare che la presenza del male non inficia la giustezza di questo mondo, giudicato «cosa buona» dallo stesso Dio ebraico. A ben vedere il quesito sembrerebbe condurre a una vera e propria tautologia. Qual è, difatti, il significato di indagare la giustizia di colui che viene identificato come il fondamento della giustizia stessa? Il problema, in realtà, non è certo nuovo nell’ambito della speculazione filosofica. I libri sapienziali hanno dato adito a varie interpretazioni nel corso della storia. Il Libro di Giobbe, ad esempio, ha messo in imbarazzo più di un rabbino, laddove YHWH sembra accondiscendere a un gioco che a ragione potremmo definire diabolico, essendo frutto della mente di Satana. A patirne le conseguenze è il povero Giobbe, reo soltanto di essersi comportato sempre come un impeccabile uomo di fede. Com’è noto, Satana induce Dio a privare Giobbe di ogni favore, infliggendogli penose sofferenze al fine di mettere alla prova l’autentica sincerità della sua fede. Il dilemma della moralità di quest’atto divino ha rappresentato un problema di non poco conto fino ai tempi nostri, appassionando, fra gli altri, un pensatore del calibro di Carl Gustav Jung, che finirà per vedere nello YHWH ebraico un Dio in cui la propria funzione inferiore –l’Ombra– non si è ancora scissa dal principio assolutamente buono con cui verrà identificato il Dio neotestamentario. La stessa crocifissione di Cristo sarà l’atto con cui Dio, che si è fatto carne, porrà rimedio all’azione immorale che un tempo la sua Ombra aveva perpetrato ai danni della sua creatura Giobbe1.

Prima di Leibniz, anche S. Agostino si era eretto a difensore della bontà e della giustizia divina. Riprendendo la celebre tesi plotiniana, S. Agostino vedrà nella presenza del male niente più che un’assenza di bene, ossia il male verrà defraudato dalla sua pretesa ontologica di avere un fondamento sostanziale. S. Agostino, catechizzando il pensiero plotiniano, troverà soluzione a due problematiche essenziali della dottrina cristiana: la confutazione della responsabilità di Dio nei confronti della presenza del male nel mondo e, allo stesso tempo, la confutazione della concezione manichea dei due principi ontologicamente contrapposti.

Ma siamo sicuri che sia questo il nocciolo del problema a cui Leibniz avrebbe dedicato la sua opera? Secondo il prof. Givone le cose non stanno proprio così. Per assurdo, sarà Voltaire a cogliere il significato autentico della questione leibniziana, lo stesso Voltaire che si era preso gioco del suo collega filosofo beffeggiandolo e ridicolizzandolo nella figura del prof. Pangloss, colui che nel Candide aveva la stupida pretesa di sapere tutto. Ma che cos’è che Voltaire aveva capito e contro cui si era rivoltato con tanta veemente ferocia? La questione, spiega Givone, è tipicamente moderna. Leibniz solleva un quesito che appartiene all’anima della speculazione filosofica della modernità, una linea di confine con il pensiero antico: il senso del mondo.

Gli antichi greci non ponevano in questione il senso del mondo perché questo aveva un senso di per sé. Dato il suo senso, la domanda riguardava piuttosto il tipo di condotta da assumere nel mondo. Sarà con l’avvio della riflessione teologica cristiana che inizieremo a chiederci se il mondo sia un luogo dove valga la pena di vivere o meno. La risposta di Leibniz è stata a torto considerata da Voltaire ottimisticamente infantile. Per il filosofo tedesco, infatti, non solo il mondo è dotato di senso, ma è addirittura il migliore dei mondi possibili. Cerchiamo di capire perché.

Dio ha creato il mondo, tesi che Leibniz non pone in questione. Prima dell’atto creativo, la sua bontà ha dovuto necessariamente portarlo a scegliere fra tutti i mondi possibili quello che contiene al suo interno più ordine, più virtù e più felicità. Ma non è forse la virtù, come ci ricorderà più tardi anche Kant, la vittoria sul vizio? Non è forse la felicità una conquista ottenuta trionfando sull’infelicità? Allora, in generale, il positivo non è che l’imporsi di una parte del tutto sull’altra parte che necessariamente lo compone. Il positivo non è che una vittoria sul negativo; da qui la necessità degli opposti. Ma il fondamento della tesi leibniziana va ben oltre, tesi che, secondo Givone, Hegel porterà alle estreme conseguenze. In Leibniz troviamo la sintesi di due momenti che costituiranno l’anima da una parte della visione domenicana e dall’altra di quella francescana, e che possono essere fatti risalire all’interpretazione che Plotino dà della figura del Demiurgo nel Timeo platonico.

La prima tesi afferma che Dio ha cercato nella sua mente il modello perfetto del mondo, quello che conviene al meglio, e necessariamente esso è venuto in essere. La seconda tesi confuta la prima, sostenendo che se Dio avesse dovuto fare i conti con una necessità, il suo non sarebbe stato un atto libero. Dio, al contrario, nella sua onnipotenza deve godere della massima libertà. Leibniz sintetizza questa storica diatriba sostenendo che Dio ha dovuto fare i conti con una necessità, ossia con la sua naturale propensione al bene, ma lo ha fatto di sua volontà, e perciò liberamente. Ma ancora una volta, Leibniz si spinge oltre.

Secondo Givone, Voltaire aveva intuito l’essenza della problematica leibniziana attraverso la lettura di un’opera del poeta inglese Alexander Pope: Essay on man. In questo poema, che Voltaire sembra conoscesse a memoria, troviamo scritto: «Everything is good», da tradursi, piuttosto che «tutto è buono», come «tutto è bene». Ecco che si scioglie il bandolo della matassa. Il problema fondamentale suscitato dalla lettura leibniziana è, come già detto, un problema di senso, di cui l’apologia di Dio non rappresenta che il pretesto. Rifacendosi alla tradizione mistica, Pope afferma che tutto, nonostante il male, è bene. Parole queste che riecheggiano in chiunque abbia dimestichezza con le dottrine esoteriche, ad esempio, in ambito cristiano, con le meravigliose eresie di Meister Eckhart, oppure, in letteratura, con l’affascinante figura di padre Zosima, maestro del giovane Alësa ne I fratelli Karamazov.

Tutto è bene. Sì, perché se così non fosse, se il male fosse in una qualunque forma superiore al bene, allora niente avrebbe più senso. Allora sarebbe bene soltanto tacere, interrompere ogni argomentazione, ogni azione, perché se niente ha senso, che senso avrebbe ciò che potrei dire, o ciò che potrei fare?

La critica di Voltaire, il suo disappunto nei confronti di questo mondo che sembra scandito da un «disordine eterno», in cui i nostri vani piaceri si trovano mescolati a dolori fin troppo reali, riprende l’antico argomento epicureo delle quattro possibilità del male:

  1. Dio ha la possibilità di eliminare il male, ma non vuole farlo. In questo caso è un Dio malvagio.
  2. Dio vorrebbe eliminare il male, ma non ne ha il potere. Risulta quindi un Dio impotente.
  3. Dio non vuole eliminare il male e nemmeno ne possiede la capacità. Questo Dio sarebbe allo stesso tempo impotente e malvagio.
  4. Infine, Dio vorrebbe e potrebbe eliminare il male, ma per qualche motivo non lo fa.

Per Leibniz questa quarta ipotesi descriverebbe il reale stato di cose. Ma perché, allora, Dio non si adopera per eliminare il male dal mondo? Perché se eliminasse il male, eliminerebbe anche il bene, e con esso un di più, un valore aggiunto. Il bene, difatti, è per il filosofo tedesco più forte del male, più importante del male, superiore a esso non solo qualitativamente, ma anche quantitativamente. In fin dei conti, Leibniz fa suo il presupposto platonico. Nonostante la presenza del male, il mondo e questa vita che ci è dato vivere rimangono qualcosa che a livello fondamentale è un bene. In questa ricerca incessante di un valore aggiunto, l’uomo può trovare un aiuto nella bellezza. «La bellezza salverà il mondo», diceva Dostoevskij, quella bellezza che per Baudelaire fioriva anche dal male.

Note

1. Cfr. C. G. Jung, Opere, vol. 11, sez. prima, Bollati Boringhieri, Torino 1992.

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