Che cos’è una “prova” scientifica?

Di: Marco de Paoli
2 Ottobre 2010

Si suole dire che l’elemento caratterizzante il discorso scientifico sia il fatto che esso -contrariamente ad altri tipi di discorsi più retorici o persuasivi o fideistici- garantisca un’obiettività, una ricerca della certezza. Si intende che la plausibilità ed anzi la veridicità del discorso scientifico sia garantita e dimostrata dal fatto che in esso l’ipotesi vada sempre comprovata per essere convalidata. Si parla così del “metodo baconiano” auspicato fra XVI e XVII secolo da Francis Bacon, per il quale la scienza procede e deve procedere metodicamente e per il quale il “metodo” scientifico consiste nel partire dall’esperienza intesa come raccolta dei “fatti” indubitabili, distinguendo quando e in che misura tali fatti siano presenti o assenti (tabula presentiae, tabula absentiae, tabula graduum), per poi procedere per induzione generalizzante (dal particolare al generale e dal semplice al complesso) alla teoria volta alla loro spiegazione. Si ricorda anche il “metodo cartesiano”, esplicitato da Descartes nel Discours sur la méthode (1637): esso raccomanda di accettare per vere solo idee con ogni evidenza “chiare e distinte”; di risolvere un problema anzitutto scomponendolo analiticamente nei suoi elementi più semplici (come quando si scompone un’equazione di quarto grado in due di secondo grado); di partire sempre dagli elementi più semplici per poi risalire ai più complessi; di controllare infine per benino che non si sia saltata nessuna tappa. Ma assai più famoso è il metodo attribuito a Galileo, per il quale non si parte dall’esperienza intesa in senso baconiano bensì da un’ipotesi teorica (come il principio di inerzia) volta a spiegare i dati -non le “essenze” dei fatti ma il loro apparire e le loro correlazioni-; poi questa ipotesi andrà successivamente vagliata e confermata. Si dice così che il metodo galileiano consista in «sensate esperienze» e «certe dimostrazioni» fornite dall’esperimento scientifico (ad esempio l’esperimento del piano inclinato e la misurazione matematica del rapporto spazio-tempo percorso da un grave in caduta).

Nel XIX secolo, nell’era del positivismo, si ribadirà che la scienza deve lasciare da parte la ricerca metafisica delle cause prime e del “perché” per concentrarsi sulla ricerca più abbordabile del “come” i fenomeni appaiono e si manifestano nelle loro reciproche correlazioni: questo è appunto il metodo “positivo” inteso come proprio dell’era “adulta” e scientifica dell’umanità che ha ormai superato i precedenti stadi “teologico” e “metafisico”. Infine nel XX secolo la corrente del neopositivismo o empirismo logico ha insistito sul “criterio di significazione” secondo il quale occorre distinguere ed anzi separare nettamente la teoria scientifica, in quanto dotata di un significato suscettibile di verifica empirica o almeno logica, da una teoria non scientifica o metafisica quale discorso “privo di senso” (sinloss) perché privo di qualsiasi convalida in quanto fuoriesce dai limiti dell’esperienza (“meta-fisica” è appunto “ciò che va al di là delle cose fisiche” ed è per questo ritenuto indimostrabile). Il filosofo della scienza Karl Popper ha poi mantenuto il criterio di demarcazione tra teoria scientifica e teoria metafisica, rovesciandolo però da “criterio di verificazione” in “criterio di falsificazione”: nella sua prospettiva lo scienziato non è tanto colui che con atteggiamento ancora dogmatico tenta di difendere, sostenere, confermare e convalidare la sua ipotesi, bensì al contrario colui che -con atteggiamento nel suo intendimento assai più aperto e “liberale”- ne cerca invece la “falsificazione” ovvero ne cerca i punti deboli che la smentiscano; se l’ipotesi regge alle critiche, se passa indenne tutti i tentativi di dimostrarla erronea e falsa, allora essa sarà una legittima ipotesi scientifica, mentre in caso contrario verrà abbandonata nel cimitero della scienza. Invece una tesi che, per la sua astrattezza e generalità, per principio non sia suscettibile di essere smentita (e nemmeno di essere comprovata) non può nemmeno essere ritenuta scientifica: essa sarà una tesi metafisica, il che non significa (come per i neopositivisti) “priva di senso” bensì più semplicemente e appunto “non scientifica”, ovvero una tesi che non può essere proposta come scientifica. Ad esempio se io dico che vi sono infiniti universi, o se dico che vi sono 482 universi, questa tesi (meta-fisica in quanto procede “oltre” l’esperienza) avrà sì un senso ma non sarà una tesi scientifica in quanto essa non potrà presumibilmente mai essere dimostrata né vera né falsa. In questo senso Popper rivolge una famosa critica al marxismo e alla psicoanalisi respingendo la loro pretesa di scientificità appunto in quanto teorie che, potendo sempre essere “aggiustate” in modo da rendere conto dei fatti più contraddittori, non sono falsificabili. Infine, Paul Feyerabend ha buttato all’aria tutto dicendo: ma quale metodo? In realtà non vi è nessun metodo. Nessuno scienziato, tanto meno un grande scienziato come Galileo, ha mai seguito nel suo lavoro scientifico un metodo come un grigio impiegato o burocrate della scienza: lo scienziato invece -dice Feyerabend- segue il proprio intuito, il proprio istinto di ricercatore, la propria immaginazione; egli usa ipotesi audaci e non si preoccupa più di tanto né di provarle e dimostrarle né tantomeno di smentirle; anzi egli è a tal punto attaccato alle sue idee che spesso, ben lungi dal prendere onestamente atto delle smentite, difende le sue teorie anche contro ogni evidenza in contrario e spesso torce i dati in loro favore fino al limite della menzogna più o meno volontaria. Galileo in realtà -dice Feyerabend- non aveva nessuna “prova” della verità del copernicanesimo, eppure lo difese egualmente a spada tratta; e i suoi famosi esperimenti in fisica, per lo più puramente ideali e mentali, non sempre furono effettivamente attuati.

Ora, di tutto questo dibattito (ampiamente noto in ambito specifico e qui naturalmente riportato solo parzialmente e per sommi capi), poco o nulla è trapelato nella corrente manualistica scientifica contemporanea (soprattutto scolastica, financo di livello universitario). In essa, con indebita e grossolana semplificazione, si continua imperterriti a parlare di “metodo scientifico” e di “prove” certe e risolutive: il metodo che condurrebbe alla prova consisterebbe nel partire dai fatti, nel raccoglierli e quindi nel formulare un’ipotesi di cui si cerca la verifica.

Le “prove” del copernicanesimo e il caso Galileo

Ma che cos’è veramente una “prova” scientifica? Che cosa essa realmente dimostra?

Certo vi sono delle prove scientifiche sufficientemente fondate: ad esempio il rigonfiamento equatoriale e lo schiacciamento della Terra ai poli sono una prova sufficientemente certa della quotidiana rotazione assiale terrestre; ad esempio il principio di inerzia, per cui un corpo in moto se non perturbato prosegue all’infinito nel suo moto, è nel caso specifico sufficientemente comprovato (sia pur non per verifica diretta) dal fatto che, togliendo mentalmente l’attrito e la resistenza dell’aria che lo frenano, il corpo in moto non dovrebbe fermarsi più. Tuttavia vogliamo qui cercare di mostrare come le “prove” pretese univoche, certe, sicure, siano spesso in realtà tutt’altro che tali, essendo invece troppo spesso quanto mai discutibili, opinabili, dubbie, incerte, nonché diversamente interpretabili.

Consideriamo la polemica secentesca fra copernicani e tolemaici. Quali prove o quali falsificazioni vi erano riguardo l’una o l’altra teoria? Se consideriamo questo punto vediamo che la teoria geocentrica era falsificata da alcuni elementi. Infatti, se la Terra è ferma al centro del mondo e tutti i corpi celesti compresi i pianeti e il Sole vi ruotano intorno a cerchio, allora ciascuno di essi dovrebbe sempre essere alla stessa distanza dalla Terra che è il centro del cerchio, poiché in una circonferenza tutti i punti sono alla stessa distanza dal centro e tutti i raggi sono equivalenti; invece i pianeti supposti rotanti circolarmente attorno alla Terra appaiono ora più ora meno luminosi e ora più grandi ora più piccoli, segno indubbio del fatto che essi sono ora più ora meno distanti dalla Terra per cui non possono essere sempre in cerchio attorno ad essa alla stessa distanza come punti sulla circonferenza. Inoltre i pianeti in certi momenti dell’anno sembrano invertire il loro supposto moto di rivoluzione attorno alla Terra e sembrano tornare indietro per poi riprendere il cammino precedente (esistono parecchi arabeschi romani e islamici che sviluppano questo motivo): anche questo effetto costituiva un’anomalia ed una falsificazione della teoria geocentrica, perché incompatibile con il supposto ordinato moto circolare attorno alla Terra. Si fece strada così fin dall’antichità greca la teoria degli epicicli, accettata da Tolomeo, per la quale la teoria geocentrica veniva salvata spiegando questi effetti anomali supponendo che i pianeti ruotando circolarmente attorno alla Terra compissero sul cerchio maggiore altri cerchi retrogradi più piccoli, così appunto apparendo ora più ora meno luminosi, ora più ora meno grandi, ora più ora meno distanti, procedenti ora in avanti ora all’indietro.

In tutta la storia del pensiero scientifico, e soprattutto ai nostri giorni, molte teorie scientifiche deboli e traballanti, inficiate da anomalie e contraddizioni, sono state “salvate” proprio attraverso il continuo ricorso a questi argumenta ad hoc, cioè ad argomenti non frutto di un libero intendimento conoscitivo della natura bensì escogitati e predisposti proprio allo scopo di difendere una teoria in crisi. Non è che questo procedimento sia in tutto scorretto, perché in mancanza di serie alternative è naturale essere restii ad abbandonare una teoria scientifica sotto altri aspetti valida e in grado di spiegare almeno certi fenomeni seppur non tutti; però esso alla fine porta a una difesa pregiudiziale e dogmatica di una teoria debole che viene resa sempre più macchinosa, sempre più farraginosa e inutilmente complicata attraverso la proliferazione di argumenta ad hoc sempre più inverosimili. Nel caso specifico queste anomalie della teoria geocentrica potevano essere spiegate non tanto o non solo abbandonando il presupposto geocentrico e assumendo quello eliocentrico (passo indispensabile non per i calcoli ma per un avanzamento nella comprensione reale della machina mundi), ma soprattutto, anziché restare abbarbicati al perenne mito del perfetto e uniforme moto circolare attorno al centro del cerchio, riconoscendo che il centro fisico dell’orbita non coincide con il centro matematico (col che trattasi dunque, a rigore, di eliostaticismo e non di eliocentrismo) e assumendo orbite ellittiche a velocità variabile con il Sole ancor più spostato a latere in un fuoco. Con queste “piccole” varianti si poteva spiegare, senza ricorrere ad inverosimili artifici, perché i pianeti non sono sempre alla stessa distanza dalla Terra, perché appaiono ora più ora meno grandi e ora più ora meno luminosi, e anche si poteva spiegare perché essi sembrano tornare indietro: risulterebbe così nel modo più chiaro che in realtà essi non tornano affatto indietro ma che invece al contrario in certi periodi dell’anno sono superati e lasciati indietro dalla Terra in moto.

Perché allora, sic stantibus rebus, la teoria geocentrica non venne subito abbandonata fin dai tempi della scienza greca, visto che in fin dei conti l’ipotesi del moto terrestre di rivoluzione (sia pur attorno al Fuoco centrale e non attorno al Sole) era già stata difesa da Filolao, l’ipotesi del moto terrestre di rotazione assiale era stata difesa da Iceta ed Ecfanto, l’ipotesi del moto di rivoluzione di Venere e Mercurio attorno al Sole (pur a sua volta supposto in moto con tutti gli altri pianeti attorno alla Terra) era stata difesa da Eraclide Pontico, e infine l’ipotesi eliocentrica era stata difesa da Aristarco da Samo e da Seleuco Caldeo? Perché occorse un processo millenario così lungo e difficile per giungere all’affermazione definitiva della teoria eliocentrica? Al riguardo una risposta ricorrente è: perché il naturale antropocentrismo (per non dire l’egocentrismo) dell’uomo, favorito dal senso comune a cui la Terra sembra immobile e il Sole in moto, teneva troppo a mantenere la sua privilegiata posizione centrale nel cosmo e questo atteggiamento, accentuato dalla visione biblica e in seguito imposto dalla Chiesa cattolica che a partire dal XIII secolo fece dell’aristotelismo geocentrico la propria dottrina ufficiale, mantenne l’uomo nell’illusione che tutto l’universo fosse fatto per lui e ruotasse attorno a lui quale creatura prediletta e “imago et similitudo Dei“. Ma questa risposta non è del tutto soddisfacente: ad esempio non spiega perché nella scienza greca rimasero minoritarie le posizioni che difendevano il moto terrestre, visto che la cultura greca (a differenza di quella ebraica) non ha mai pensato ad una posizione privilegiata e centrale dell’uomo nel cosmo.

No, il problema è un altro e riguarda appunto le “prove” scientifiche. Esse mancavano: si capiva che la teoria geocentrica aveva molte pecche, ma comunque essa (“aggiustata” con gli epicicli) continuava a consentire misurazioni delle posizioni celesti abbastanza precise. Invece la teoria rivale, la teoria eliocentrica, non appariva sufficientemente supportata ed anzi sembrava essa stessa falsificata. Sorgeva anzitutto il problema della parallasse: se io ho una casa di fronte a me e mi muovo in orizzontale di 100 metri la casa non mi apparirà più allo stesso posto ma più a destra o più a sinistra; similmente, se la Terra in un anno fa un giro attorno al Sole perché allora le stelle non appaiono spostate bensì sempre allo stesso posto? Naturalmente la risposta è: perché le stelle sono così lontane che il loro spostamento apparente è impercettibile; se io mi muovo di 100 metri la casa prima vicina apparirà lontana, ma se il punto di riferimento è una montagna lontanissima all’orizzonte il mio spostamento di 100 metri sarà praticamente ininfluente e la montagna mi sembrerà sempre alla stessa distanza e allo stesso posto. A quell’epoca non si potevano minimamente immaginare le immense distanze degli spazi cosmici, misurabili in milioni e miliardi di anni-luce: nemmeno Copernico e Keplero, che difendevano l’eliostaticismo e supponevano un universo decisamente più grande di quello tolemaico, potevano immaginare una cosa simile, e dunque l’obiezione anticopernicana sembrava valida. Inoltre, e come si è detto, non bastava mettere il Sole al posto della Terra per far tornare tutto a posto: questo fece Copernico, ma la sua teoria restava molto macchinosa, con ancora più epicicli di Tolomeo soprattutto stante l’attaccamento all’idea dei perfetti moti circolari. La vera rivoluzione eliostatica (ma diciamo pure eliocentrica se con questo termine intendiamo una centralità fisica e non matematica del Sole) iniziò in realtà con Keplero, che assunse orbite ellittiche con il Sole del tutto spostato a latere in un fuoco. Infine: se la Terra si muove così velocemente (su se stessa in un giorno e attorno al Sole in un anno) allora perché le torri non cadono come cade il bicchiere sul vassoio portato molto velocemente? Perché non sentiamo il vento controfaccia come quando corriamo velocemente a piedi o a cavallo? Queste obiezioni erano tutt’altro che stupide e nemmeno la risposta di Galileo (ma già di Copernico e Giordano Bruno), che in nome del “principio di relatività” disse che questi effetti non sussistevano stante che anche l’atmosfera ruotava con la Terra, appariva in tutto valida: occorrerà il più tardo principio di gravitazione newtoniano, che spiega come le torri e quant’altro rimangano gravitazionalmente legate alla Terra anche in presenza di forze contrarie, per rendere pienamente conto della cosa. In breve, la teoria copernicana era un’ipotesi alternativa che però mancava all’epoca di salde conferme: si capiva che la teoria tolemaica aveva vari punti deboli, ma anche la teoria alternativa sembrava contraddetta e non appariva sufficientemente fondata.

Non solo infatti la teoria eliocentrica appariva esposta a delle falsificazioni, ma nemmeno poteva contare su conferme salde e indubitabili. Galileo invero, dopo aver puntato «l’occhiale» verso il cielo, aveva ritenuto di fornire quelle prove e ne aveva dato notizia nel Sidereus Nuncius del 1610: ma le “macchie solari” e i crateri lunari da lui visti, se potevano dimostrare che il cielo non era affatto perfetto e incorruttibile come riteneva Aristotele, non dimostravano il moto terrestre; la scoperta dei quattro satelliti di Giove dimostrava certamente che non tutto nel mondo ruota attorno alla Terra ma non dimostrava che nel sistema solare tutto ruota attorno al Sole (gli stessi pianetini gioviani non ruotavano affatto attorno al Sole); le fasi di Venere, simili a quelle lunari, erano un argomento più forte ma le immagini al cannocchiale non risultavano nitide e dunque solo a chi ne era già convinto dimostravano che Venere non ruota attorno alla Terra ma attorno al Sole. Soprattutto le pur importanti scoperte astronomiche di Galileo, anziché dimostrare inoppugnabilmente l’eliocentrismo, apparivano compatibili con il sistema di compromesso del grande astronomo danese Tycho Brahe (per il quale, generalizzando l’antico sistema di Eraclide Pontico, i pianeti tutti -non solo Mercurio e Venere come per Eraclide- ruotano attorno al Sole ma a loro volta essi tutti ruotano con il Sole attorno alla Terra). Galileo in seguito cercò prove fisiche (non astronomiche) dell’eliocentrismo e credette di trovarle nella teoria delle maree, che come altri autori a lui precedenti vedeva come un effetto del moto terrestre (le acque si abbassano e si alzano come l’acqua ai bordi di un catino che viene trasportato): ma questa teoria, per quanto molto interessante e certamente da rivalutarsi oggi in parte, non era completamente esatta perché non considerava l’effetto luni-solare sulle maree terrestri, che già conosceva Keplero e che fu poi noto come effetto gravitazionale. Cosicché, poiché su varie cose Galileo appariva nel torto, poiché si sbagliava almeno in parte sulle maree (ancor oggi la sua teoria mareale è a torto ritenuta in tutto errata) e su altri punti (ad esempio vedeva aristotelicamente le comete come esalazioni di vapori terrestri, e interpretò in modo simile le stelle novae di improvvisa apparizione), allora ci si domandava perché non avrebbe potuto sbagliarsi anche nella sua veemente difesa del copernicanesimo. L’argomento vincente di Galileo, la “prova” tanto desiderata, era piuttosto un’altra: era la deviazione del grave in caduta che, cadendo in una Terra in moto verso est, ne veniva ulteriormente spostato in avanti (complice il “trasporto” dell’atmosfera anch’essa in moto), verso est nel nostro emisfero e verso ovest nell’emisfero opposto. Su questo Galileo aveva pienamente ragione (per altri invece il grave, in una Terra in moto, sarebbe rimasto indietro, verso ovest nel nostro emisfero): ma tale deviazione era impercettibile, non visibile ad occhio nudo, tale da poter provare tutt’al più solo il moto di rotazione diurna, e quindi assai contestata.

Da qui venne il ben noto seguito della storia. La Chiesa, che ormai da secoli aveva assunto come cardine la dottrina aristotelica col suo corollario geocentrico, preoccupata della diffusione del principio protestante del “libero esame” delle Scritture, proibì nel 1616 di difendere il copernicanesimo che pur non aveva condannato per oltre 70 anni (il De revolutionibus orbium coelestium di Copernico è del 1543): in effetti si era in tutt’altra temperie storica, e la Chiesa controriformistica era ben diversa da quella dell’età rinascimentale (che pur aveva condannato le tesi di Pico della Mirandola, di Pomponazzi, di Telesio). Ma Galileo non era come Kant che, quando il Re di Prussia gli ordinò di non scrivere più su cose religiose suscettibili di turbare l’ordine pubblico e l’assetto tradizionale, scrisse una lettera dignitosa dicendo in sostanza di non condividere le censure ma di attenersi agli ordini reali. Galileo, sentendosi forte della sua fama, della protezione dei Medici e delle sue stesse alte conoscenze vaticane che coltivava non senza cortigianeria, sottovalutando il pericolo si fece nuovamente avanti: così, quando il cardinal Barberini con cui era in ottimi rapporti divenne papa col nome di Urbano VIII, riuscì ad ottenere la licenza allora necessaria per la pubblicazione della sua grande opera (il Dialogo sui massimi sistemi del 1632) con la promessa di esporre la teoria copernicana solo come ipotesi, confrontando le due opposte cosmologie -quella tolemaica e quella copernicana- senza parteggiare per alcuna. Egli però nel suo temperamento impetuoso non mantenne la promessa e di fatto prese decisa posizione per il copernicanesimo, difendendo un’ipotesi allora incerta come una certezza, dileggiando come un sempliciotto l’aristotelico Simplicio (nomen omen) che nella sua opera in forma di dialogo difendeva il geocentrismo e, nell’ultima pagina dell’opera, ironizzando nemmeno troppo velatamente sulla prudenza del pontefice in tema di scienza. Donde il drammatico processo, in cui la Chiesa condannò d’autorità un uomo che aveva disatteso gli accordi ma anche una teoria scientifica che, pur all’epoca non provata, doveva rivelarsi nella sostanza corretta. Va detto comunque che la disobbedienza di Galileo (per non dire il suo inganno) ha avuto il suo effetto: anziché darci un’opera in tutto ipocrita, velata e scritta in linguaggio cifrato, che nascondesse tra le righe il suo autentico pensiero lasciandolo solo trapelare, egli ci ha dato un capolavoro della letteratura scientifica.

Le “prove” nella scienza contemporanea: la relatività e il Big Bang

Con ciò appare chiara l’importanza della “prova” scientifica: se Galileo avesse avuto al suo tempo le prove inoppugnabili che cercava (e se fosse stato più accorto diplomatico), probabilmente l’accettazione del copernicanesimo sarebbe stata più semplice. Più in generale diremmo che una teoria scientifica, per essere pienamente accettata, richiede da un lato di non essere smentita nei suoi punti fondamentali (perché non tutto si aggiusta sempre con argumenta ad hoc via via moltiplicantisi) e dall’altro richiede di essere almeno in qualche misura confermata e verificata. In assenza di queste condizioni ogni teoria scientifica (seppur certo non ne sia auspicabile la soppressione d’autorità, come rilevò privatamente Pascal in riferimento alla condanna del 1633) è esposta al dubbio e alla legittima critica: e il fatto è che in molti casi queste condizioni ideali, che rendono inattaccabile una teoria, sono alquanto rare. Certo, per quanto riguarda la teoria del moto terrestre naturalmente ormai da tempo (dopo la rilevazione della morfologia terrestre schiacciata ai poli e rigonfia all’equatore, le misurazioni della deviazione del grave in caduta di Guglielmini nel 1791, gli esperimenti del pendolo di Foucault nel 1851, la misurazione della parallasse fatta da Bessel nel 1838) nessuno più dubita della sua validità. Ma per quanto riguarda altre teorie, anche moderne e contemporanee, le certezze non sono affatto acquisite come si suol credere.

Consideriamo al riguardo le cosiddette “prove” o verifiche della teoria della relatività generale. Esse sono principalmente: la misurazione del grado di deflessione della luce in presenza di una massa gravitazionale come quella di una stella; la misurazione del perielio di Mercurio (ovvero del rovesciamento in tempi lunghissimi dell’orbita di Mercurio nei pressi del Sole); il cosiddetto “rallentamento del tempo” in presenza di una massa gravitazionale. Ebbene, se noi esaminiamo con attenzione queste pretese “prove” vediamo che esse si prestano anche ad altre interpretazioni e non dimostrano con la certezza desiderata la teoria in questione.

Consideriamo la misurazione einsteiniana della deflessione della luce proveniente da una stella lontana, deviata secondo la teoria relativistica dallo spazio “curvato” nei pressi della massa gravitazionale solare: essa in realtà è ritenuta precisa e soddisfacente solo perché Arthur Stanley Eddington (che volle verificarla nel 1919 in occasione di una eclisse solare), tutt’altro che neutrale bensì convinto in partenza della giustezza della teoria di Einstein, eliminò le lastre fotografiche con i dati non rispondenti adducendo la loro scarsa leggibilità, completò d’ufficio i dati insufficienti di altre lastre attraverso tortuosi calcoli matematici volti ad ottenere risultanze il più possibile vicine a quelle preventivate, e infine fece una media matematica fra risultanze troppo alte ed altre troppo basse così da ottenere un dato di misurazione vicino a quello einsteiniano. Esistono precise indagini di storici della scienza che dimostrano ciò. Cosicché ci si può chiedere: fino a che punto questa è realmente una prova o non piuttosto un tentativo di confermare a tutti i costi attraverso la torsione dei dati una teoria? Appare così che il grado di deflessione della luce solare, essendo già stato previsto e misurato da Newton (seppur in modo impreciso per via delle ridotte conoscenze dell’epoca), anziché essere visto univocamente quale conferma della teoria della relatività generale potrebbe essere letto nei termini dell’ottica della fisica classica come rifrazione del raggio di luce dovuta non ad un misterioso “spazio curvo” bensì alla curvatura della materia extrasolare rotante con il Sole (se non all’azione di un diretto influsso gravitazionale), poiché ciò che in realtà risulta curvato è il raggio di luce e non lo spazio.

Passando ora al secondo punto: la secolare rotazione dell’orbita di Mercurio in perielio fino al capovolgimento, assai accentuata rispetto agli altri pianeti e eccedente di 42 secondi per secolo rispetto le previsioni, e per questo anch’essa attribuita ad una poco chiara “curvatura dello spazio” nei pressi della massa solare, può invece essere meglio definita come un “effetto di trascinamento” (frame-dragging) indotto dalla rotazione assiale solare su tutta la materia circostante nel cerchio dei campi magnetici e gravitazionali. La rotazione assiale del Sole, con il suo periodico capovolgimento pressoché mensile, determina anche la rotazione di tutto il suo campo gravitazionale e infine sui tempi lunghi determina anche la rotazione dell’orbita di Mercurio, satellite inserito nel campo gravitazionale solare, fino al completo capovolgimento in tre milioni di anni dell’orbita su se stessa. Anche in questo caso, come già nel caso della deflessione della luce, l’aver ricavato con buona approssimazione lo scarto di 42 secondi dimostra non tanto l’assoluta verità della teoria della relatività, e la reale esistenza di uno “spazio curvo”, quanto piuttosto il valore di un buon apparato matematico che può valersi di dati inerenti la morfologia solare ben più precisi di quelli possibili all’epoca di Newton.

Per quanto riguarda invece il terzo punto, ovvero il “rallentamento del tempo” in presenza di masse gravitazionali: certamente è stato misurato con grande precisione il rallentamento in nanosecondi di un orologio atomico posto ai piedi di un monte al livello del mare, dove la forza di gravità è maggiore, rispetto ad un orologio posto sulla sommità dello stesso monte ove la gravità decresce o addirittura posto sulla Luna (l’esperimento è stato fatto dagli astronauti) ove la gravità è un sesto di quella terrestre. Ma il problema non è tanto l’esatta misurazione del fenomeno quanto piuttosto la sua interpretazione, e una più plausibile lettura porta a concludere che un più intenso campo gravitazionale può modificare non il tempo bensì le frequenze ritmiche e periodiche: questo avviene sia rallentando le frequenze (ovvero rallentando il battito degli orologi, il ritmo cardiaco, le emissioni di fotoni da una particella, rallentando la luce in caso di rifrazione) sia in certi casi al contrario accelerandole (come nel caso, verificato in Lapponia e all’equatore nel XVIII secolo, di un orologio a pendolo che scorre non più lentamente bensì più rapidamente in un intenso campo gravitazionale, stante che il campo gravitazionale accelera la velocità del grave in caduta e la velocità del pianeta in perielio). In tutto ciò non si riscontra un reale “rallentamento” del tempo (e nemmeno un’accelerazione), trattandosi piuttosto di diverse scansioni come quando lo stesso tempo musicale è scandito in tre battute o in sette.

Consideriamo ora un altro caso emblematico costituito dalla teoria del Big Bang, da decenni dominante in cosmologia come standard view, per la quale l’universo sarebbe nato circa 15 miliardi di anni fa dall’esplosione di un misterioso punto infinitesimale di materia contratta o di un punto di pura virtualità denominato “singolarità iniziale”. Ebbene, due sono le principali “prove” portate a sostegno di questa teoria: lo spostamento verso il lato rosso (red shift) dello spettrometro di laboratorio captante la luce proveniente dalle lontane galassie (1929) e la radiazione di fondo (cosmic microwave back-ground) diffusa nell’universo a quasi 3 gradi Kelvin (1965). Interpretando lo spostamento verso il rosso come un effetto di allontanamento Doppler, che dimostrerebbe l’allontanamento delle galassie come il suono dell’ambulanza facendosi grave ne dimostra l’allontanamento, si è estrapolato che queste galassie dovessero un tempo lontano (appunto circa 15 miliardi di anni fa) essere tutte riunite compresse nella singolarità iniziale la cui esplosione (non si vuole chiamarla così, ma come altrimenti definirla?) avrebbe scagliato e allontanato nello spazio la materia poi compattata nelle galassie. Ma questa è solo una delle spiegazioni possibili, e la meno convincente se si pensa ai fenomeni contraddittori emersi: basti pensare alle altissime e inverosimili velocità galattiche (o del substratum in espansione) risultanti alla lettura tradizionale; alla scoperta dei quasar che, pur con grande spostamento verso il rosso che ne indicherebbe una enorme distanza e velocità financo superluminali, appaiono invece per lo più legati a galassie vicine e non a tal punto lontane da noi osservatori; alla difficoltà, in un universo in cui tutto si allontana da tutto, di spiegare il processo contrario di condensazione e raggruppamento di particelle, atomi, stelle, nonché di galassie e ammassi di galassie a enormi reciproche distanze che non di rado anziché allontanarsi si avvicinano fino a scontrarsi. Di conseguenza si fanno strada altre ipotesi interpretative (finora sottovalutate) del rallentamento delle frequenze luminose indicato dallo spostamento verso il rosso, riguardanti ad esempio una perdita di frequenza della luce nel tragitto interstellare, effetti gravitazionali o magnetici finora sottostimati, diverse possibili letture dell’effetto Doppler e altre ipotesi ancora, tutte peraltro essendo più complementari che non mutuamente escludentisi. Parimenti per quanto riguarda la radiazione di fondo: intesa quale l’eco radioattiva via via decrescente da 15 miliardi di anni dell’esplosione inaugurale (in qualche modo simile al contagio radioattivo di Hiroshima), e quindi quale “prova” indubitabile della teoria cosmologica attualmente dominante, la radiazione di fondo per la sua grande uniformità ed omogeneità appare invece più probabilmente, e come tale appariva a molti ricercatori prima che si imponesse la teoria dominante, non l’eco di un’esplosione lontana nel tempo bensì la normale temperatura (passata, presente, futura) sussistente nell’universo in quanto rilasciata dal calore disperso dalle stelle e dalle galassie tutte.

In conclusione si vuole sostenere che spesso nella teoria scientifica i “fatti” non sono sempre così certi come si vorrebbe. Essi in realtà sono quasi sempre polisemici, dunque per lo più portatori di più significati possibili ed aperti quindi a molteplici letture interpretative e non ad una sola: così le “prove” portate a favore della teoria della relatività e quelle portate a favore della teoria del Big Bang non appaiono sostegni univoci e indubitabili a quelle teorie, in quanto compatibili con altre interpretazioni anche più plausibili. Certo si potrebbe ribattere che se le “prove” portate a sostegno di una teoria possono essere plausibili non si vede perché rifiutarle a favore di altre interpretazioni: ora questo potrebbe essere lecito se la teoria che si vorrebbe così comprovata fosse sotto tutti gli aspetti salda e da nulla inficiata, ma così per lo più non è perché in realtà troppo spesso esistono nelle teorie scientifiche vari punti deboli e contraddittori che rendono pienamente legittima la ricerca di alternative. Inoltre la misurazione più o meno esatta di un fenomeno (come la deflessione della luce, il perielio di Mercurio, il rallentamento dell’orologio) può essere semplicemente un effetto del generale progresso delle conoscenze e delle tecniche matematiche e sperimentali, che ancora non comprova in tutto e per tutto nella sua globalità la teoria volta a spiegare tale fenomeno. È naturale ad esempio che Einstein abbia misurato la deflessione della luce in presenza del Sole e il perielio di Mercurio in modo più preciso di Newton, poiché egli veniva oltre due secoli dopo e disponeva di una serie di dati e conoscenze (segnatamente sulla massa e la morfologia solare) che mancavano all’epoca di Newton, ma questo non significa che una più esatta misurazione comprovi in tutto e in tutti i suoi addentellati e corollari (“spazio curvo”, “rallentamento del tempo” etc.) la teoria scientifica al cui interno tale misurazione è stata fatta a fini di comprova. Tolomeo ha fatto numerose misurazioni alquanto precise di varie posizioni di corpi celesti (stelle e pianeti) ed ha rilevato e previsto con buona approssimazione, e talora quasi con esattezza, il periodico ritorno in cielo dei pianeti, ma questo ha fatto attraverso una serie di complicate ipotesi supplementari (ad esempio la teoria degli epicicli) per cui infine apparve sempre più chiaro che le sue misurazioni, pur spesso (anche se non sempre) rivelatesi precise, in realtà non indicavano la reale natura delle orbite e delle traiettorie né dimostravano la verità del geocentrismo che era il cuore della sua astronomia. E come una teoria quale il geocentrismo, rivelatasi errata nel suo presupposto fondamentale, è stata però ritenuta valida dalle maggiori intelligenze per oltre due millenni nella scienza occidentale, così nulla ci garantisce che teorie oggi date per certe, ma in realtà alquanto deboli sotto vari aspetti, non facciano in futuro la stessa fine. Per questo -anche se spesso manuali e libri di testo ci presentano in modo dogmatico ipotesi incerte come verità definitivamente acquisite- occorre mantenere la mente il più possibile libera e non accettare pregiudizialmente la verità di una teoria scientifica. Peraltro occorre sempre cercare di mantenere la mente il più possibile libera, per quanto non sia facile.

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