Donne finte e donne vere

Di: Giusy Randazzo
2 Ottobre 2010

Immaginate di svegliarvi tutte le mattine con uno splendido marito accanto che è anche un gran bell’uomo e che non russa neppure, di essere ricche, bellissime, di avere un lavoro che vi consente di guadagnare e di non timbrare il cartellino, -perché siete scrittrici note- e di avere degli amici sinceri, saggi, anche loro ricchi e sempre disponibili, persino a venirvi incontro nelle vostre esigenze lavorative, persino pronti a sostenervi e a condividere le vostre inquietudini anche quando prendete istantanee decisioni che fino al giorno prima neanche si profilavano all’orizzonte. Certo è difficile poter spingere l’immaginazione così oltre. Eppure non è finita: lo sforzo è ben più consistente. Adesso, dovete immaginare che un bel giorno non volete più essere sposate e quando lo dite a vostro marito, anziché mandarvi a quel paese per l’assenza di motivazioni e trascinarvi dall’avvocato con le pretese più insensate e iniziare una giudiziale decennale, decide di non assoldare nessun avvocato e vi prega di tornare con lui, rifiutandosi di sottoscrivere la separazione persino quando gli proponete di cedergli tutto quello che avete in comune. Perché? Perché il gran bell’uomo vi ama da morire. Questo l’incipit del film Mangia, prega, ama di  Ryan Murphy,  tratto dal romanzo bestseller di Elizabeth Gilbert, che narra una storia vera, la sua. Non la vostra, insomma. La protagonista, Liz Gilbert (Julia Roberts), si dispera e soffre moltissimo per questa lacerazione dell’io determinata dal senso di colpa che avverte a causa del disamore per il marito (ma questo è soltanto probabile, perché davvero non si è capito).  E così si consola con un attore, bellissimo e fascinoso, che sembra pendere dalle sue labbra. Alla fine lascia anche lui. La sofferenza è davvero troppa. Bisogna fare qualcosa. È necessario dare una svolta significativa alla propria esistenza incolore e dilaniata. Certo, quando la coscienza del proprio limite ontologico si apre al fondo originario ci si sente perduti, disorientati, finiti. Eppure la riflessione, affinata dalla sofferenza, fa scattare l’intuizione, che coglie il principio primo, e dribblando con un medio inconfutabile, approda alla necessaria conclusione, un goal che lascia a dir poco stupefatti: l’uomo non vive affatto se non mangia, ma l’uomo senza amore vive nella sofferenza, dunque l’uomo deve mangiare poi pensare all’amore. Si può forse vivere senza mangiare? Non basta però soltanto mangiare, per vivere meglio bisogna imparare a mangiare meglio. Ma ancora: come risolvere l’angosciante estraneità della nostra esistenza finita? Come riscattare questo pegno che è il soffrire umano sulla Terra? Risposta: pregando Dio che ci renda pan per focaccia. Qui giunge l’eureka. Il segno divino compare sotto forma di phronesis questa volta. Per riemergere non sono necessari gli studi filosofici e neanche qualche seduta dallo psicanalista, piuttosto bisogna girare il mondo per ritrovare il centro in cui non si cede né troppo all’io né troppo a Dio, imparando a mangiare bene, a pregare nel modo più appropriato e ad amare un uomo perfetto. Certo è dura. La vita ha posto la protagonista di questa avvincente storia davanti a una salita scoscesa. È costretta a passare quattro mesi in Italia mangiando spaghetti, sorseggiando vino e ridendo di cuore con i nuovi amici, -sempre i migliori che si possono incontrare-; poi quattro mesi in India, dove –ascoltate bene- è costretta a lavare un quadratino di pavimento con una minuscola pezzuola e a fare meditazione, immobile, svuotando la testa da tutte le domande esistenziali che l’hanno oppressa; e per finire –come se non fosse abbastanza- quattro mesi a Bali per trovare l’amore, un uomo dai sentimenti purissimi, che si commuove con la tenerezza di un bimbo, che si prende cura di lei in modo paterno, che pur nonostante è affascinante, macho e ricco. Insomma, per ritrovare l’equilibrio bisogna soffrire.

Questa la trama. Mi si dice che il romanzo è più coinvolgente. Il problema, però, è che non si tratta di un film che vuole avere come scopo quello di presentare una storia leggera, divertente e ai limiti dell’inverosimile. Il film ha la pretesa di narrare la storia vera di una donna vera che ha il “coraggio” di dare una svolta alla sua vita: un paradigma di vita possibile, insomma. Per essere vere, certe storie, però, non basta che siano vissute. Sono vere le storie in cui ci si riconosce in almeno uno dei moti dell’animo narrati, altrimenti sono irreali, come quella della Gilbert. Cosa vuol trasmettere questo film?  Un monito per chi mangia i tramezzini nell’unica ora di pausa lavorativa? Un’indicazione per chi vive nel disequilibrio interiore perché oppresso dall’ansia, dai bucati, dai conti che non tornano, da un lavoro alienante? Una speranza per chi si addormenta accanto a un marito indifferente, per il quale si è indifferenti, perché magari gli anni di convivenza, di vita dura, hanno prosciugato ogni sentimento? In questo film non ci sono donne vere, come quelle che si incontrano sull’autobus all’ora di punta; che hanno conquistato, in quel luogo stracolmo, un angolo per sé -sopravvivendo alla fiumana di gente che si accalca l’una contro l’altra, urtandosi e arrabbiandosi perché il contatto le infastidisce-, con i loro volti stravolti, anche quando sono truccati, con quegli occhi stanchi e profondi, che ti lasciano viaggiare nelle loro case, nel loro posto di lavoro, nel tempo pieno che hanno già vissuto dal risveglio mattutino; che pensano assorte, rivolgendo lo sguardo a quel vetro che le separa dalla vita, dai sogni, dal mondo sensato che da bimbe credevano di abitare. Quelle donne che fissi perdendoti nella loro amarezza, nel loro orgoglio, nella loro bellezza pura e delle quali scorgi d’un tratto un sussulto, che sembra rallegrarle. E forse è il solito piccolo obiettivo che rappresenta la salvezza giornaliera o magari soltanto un semplice accordo con quel marito indifferente che quel giorno risparmia loro qualcosa, andrà lui a prendere i bimbi a scuola nel pomeriggio. Poi, per chi non lo sapesse, ci sono altre donne che non hanno il marito indifferente, che però va a prendere i bimbi a scuola e di tanto in tanto butta anche la spazzatura, e non hanno un lavoro stabile e non hanno piccoli obiettivi che le fanno sussultare di piccole gioie. Poi ci sono altre donne ancora, che con soddisfazione vanno al lavoro, e se anche il loro matrimonio non è l’optimum se ne fanno una ragione. Donne che però non sono così “coraggiose” da girare il mondo per un anno per ritrovare l’equilibrio. E forse non soltanto per i probabili figli, per il probabile marito, per la probabile assenza di tanti denari, per il probabile licenziamento, ma semplicemente perché, quando salgono su quell’autobus e si confrontano con quei volti non loro, imparano ogni giorno cosa sia il coraggio e comprendono ogni giorno che cambiare cielo non cambia l’animo, ma guardare l’animo di queste donne vere cambia la giornata. Imparano, insomma, il vero coraggio, il modo per vivere, nonostante la contraddizione che intesse quasi tutte le donne vere che vivono storie vere: essere se stesse pur essendo per altri.

Ryan Murphy
Mangia prega ama
Eat Pray Love
Con Julia Roberts (Elizabeth Gilbert), James Franco (David), Richard Jenkins (Richard), Viola Davis (Delia), Billy Crudup (Steven)
USA, 2010.

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