Et voilà i robot

Di: Alberto Giovanni Biuso
2 Ottobre 2010

Nunzia Bonifati intervista ingegneri, filosofi, fisici, su uno dei temi essenziali del presente e del futuro. Lega poi tra di loro queste conversazioni in una trama assai piacevole da seguire e sempre chiara nelle sue implicazioni e conseguenze. Ne esce un volume a più voci dal quale emerge la dimensione magmatica della robotica, e cioè di quel sapere all’incrocio tra tecnologia e filosofia che studia lo statuto dell’artificiale, la sua storia, le sue leggi, le sue possibili applicazioni agli ambiti più vari.

Qua e là, nel libro, si avanzano previsioni ancora una volta ottimistiche. Nel 1956 durante la Conferenza di Dartmouth, che dell’Intelligenza Artificiale segna in qualche modo l’inizio, si pensò che nell’arco di un paio di decenni sarebbero stati costruiti robot indistinguibili dagli umani. Oggi -di nuovo- associazioni come la Japan Robot Association «stimano che entro vent’anni avremo robot al posto di fisioterapisti, piloti, chirurghi, maggiordomi, insegnanti, musicisti, badanti, soccorritori e quant’altro» (pag. 10). In realtà, gli ostacoli strutturali che hanno condotto al fallimento dell’IA forte sono tutti in piedi e rimangono determinanti. Se, infatti, «l’obiettivo principale è quello di studiare le capacità percettive di rappresentazione, di ragionamento e di apprendimento di un robot inserito in un ambiente domestico, a tutt’oggi i risultati sono però deludenti» (50) e «dopo cinquant’anni di Intelligenza Artificiale, dovremmo aver capito che non è così facile replicare il modello della mente in un calcolatore!» (G. Veruggio, 98). La ragione sta soprattutto nel fatto che spazio, corporeità e linguaggio sono realtà e strutture immensamente più complesse rispetto ai livelli che anche le più avanzate intelligenze artificiali possono raggiungere.

Infatti, «nell’ambiente, anche quando non accadono cose impreviste, le possibili disposizioni degli ostacoli nello spazio sono così tante che nella pratica qualsiasi soluzione combinatoriale era, ed è, tuttora irrealizzabile» (E. Datteri, 48). Per superare queste impossibilità, «non è casuale che la robotica stia tentando di capire come funzionino i sistemi biologici» (B. Siciliano, 30) e si va definitivamente abbandonando la concezione di una mente -naturale o artificiale che sia- slegata dalla densità senso-motoria, dal corpo. Poiché è il corpo a parlare, e non soltanto i suoi organi fonatori; è il corpo a rappresentare l’interfaccia totale tra la coscienza e il mondo; è il corpo a essere intriso di linguaggio e fatto dunque di comunicazione. Ma, come ben sanno tutti i robotici, «riprodurre un volto umano mobile, espressivo e al contempo esteticamente gradevole è di una difficoltà inimmaginabile» (M.Ferro, 140). Un volto non è una semplice faccia ma costituisce l’intero mondo di un essere umano, lo spazio mobile nel quale la sua storia si ricapitola istante dopo istante.

Dal robot classico si va quindi verso delle più specifiche e specialistiche funzioni robotiche che toccano ambiti assai diversi: medicina, protezione civile, psicoterapie, guerre, architettura, industria, finanza, comunicazione e tante altre. Una “robotica di servizio” che va lentamente e implicitamente abbandonando l’illusione di poter replicare l’intelligenza umana su altri supporti. È davvero un’illusione? Sì, se si ritiene di poter dare pensiero alle macchine; no, se invece la direzione è quella di ampliare e rafforzare la natura protesica e ibridata con l’alterità che l’umano è da sempre. La «progressiva trasformazione dell’uomo in ciborg ai fini del miglioramento e del potenziamento delle capacità fisiche e cognitive» (63) deve partire da una chiara distinzione -in questo libro non sempre perspicua- tra entità assai diverse tra di loro quali sono i robot, gli androidi e i cyborg. Se, infatti, Daniela Cerqui afferma giustamente che «molti esseri umani migliorati o potenziati sono già ciborg» (68), l’Autrice si mostra invece piuttosto scettica e sostiene che non basti l’implementazione dentro un corpo umano di strutture artificiali o l’unione temporanea e funzionale di un umano con un apparato macchinico, per avere un cyborg. Credo, tuttavia, che abbia ragione Cerqui.

Quali sono le differenze tra i robot, gli androidi e i cyborg? I robot esistono da decenni e lavorano instancabilmente in contesti molto diversi. Essi sono il puro artificio di una operatività limitata a obiettivi anche assai complessi ma ben specifici. I robot che già esistono possono essere molto potenti ma sono totalmente privi di adattabilità omeostatica e di coscienza. Gli androidi, al contrario, rappresentato il futuribile di robot antropomorfici e consapevoli, anche se privi di elementi organici. Il cyborg, invece, costituisce il presente e la stessa storia dell’umanità, poiché è la fusione tra un organismo biologico e una macchina o una funzione che modifica la struttura di base dei corpi. Un individuo vaccinato, ad esempio, è anch’esso in qualche modo un cyborg perché il suo organismo è stato riprogrammato allo scopo di difendersi da vari tipi di infezione; chiunque si unisca provvisoriamente o definitivamente a una macchina è un cyborg, dall’automobilista con le mani sul volante e i piedi sui freni al malato di cuore dotato di pacemaker, dal ciclista a chi fa uso di lenti a contatto, di auricolari, di telefoni cellulari.

Anche questa mancata distinzione induce a esagerare il significato e la portata di alcuni robot umanoidi realizzati dalle aziende giapponesi. Bonifati scrive che «Ishiguro vuole realizzare un robot non distinguibile da un essere umano per aspetto, capacità di movimento e di parola. In rete sono disponibili filmati della serie, alcuni dei quali molto inquietanti» (51). Ho visto questi filmati e non credo che risultino particolarmente inquietanti. Nonostante la notevole somiglianza con i modelli umani, tutto in essi -espressione, movimenti, sguardo- dice che sono delle semplici macchine, dei raffinati giocattoli. Se tali manufatti riscuotono grande successo in Giappone e quasi nullo in Europa la ragione è molto interessante e ha a che fare non con la tecnologia o con il marketing ma con le diverse visioni religiose di queste civiltà. Infatti, la tradizione shintoista fa sì che «in Giappone si crede all’esistenza di una vita spirituale negli oggetti o nei fenomeni naturali» (53).

Le questioni si intrecciano sempre. La dimensione etica alla quale fa cenno il sottotitolo parte dalle Tre leggi della robotica elaborate da Isaac Asimov: «1. Un robot non può recar danno a un essere umano, né permettere che, a causa della propria negligenza, un essere umano patisca danno. 2. Un robot deve sempre obbedire agli ordini degli esseri umani, a meno che contrastino con la Prima Legge. 3. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questo non contrasti con la Prima o la Seconda Legge»1. In queste Leggi sembra tutto molto chiaro, semplice, lineare, eppure da regole così coerenti possono derivare conseguenze imprevedibili, atteggiamenti ambigui, pratiche contraddittorie. Chi, infatti, stabilisce che cosa sia un danno? La consapevolezza di che cosa siano il bene e il male è già qualcosa di profondamente umano e come possono, quindi, le macchine farla propria? Il danno è riferito a ogni singolo essere umano o a un gruppo, a una comunità, alla specie? E se un singolo uomo recasse danno a tanti altri, il robot che cosa dovrebbe fare? sarebbe autorizzato ad attaccarlo oppure dovrebbe lasciare che gli altri umani patiscano danno? Che cosa succede se un uomo impartisce ordini contraddittori o se due umani prescrivono atteggiamenti opposti? Ingannare un uomo affinché non patisca danno è un comportamento coerente o no con la Prima Legge? Come escludere che le conoscenze a cui i robot perverranno non faranno loro comprendere quale sia il bene degli esseri umani meglio di quanto lo comprendiamo noi stessi? E a quel punto dovranno ancora obbedirci- rischiando di infrangere la Prima Legge- o saranno autorizzati a prendere iniziative in forma autonoma –infrangendo la Seconda Legge? E se, come accade a Hal 9000 -la vera Mente del viaggio descritto in 2001 Odissea nello spazio– il robot intuisse la propria centralità per portare a termine l’incarico affidatogli sulla Terra dai suoi costruttori, e quindi allo scopo di compiere la propria missione si convincesse di dover eliminare gli umani? In altri termini, se il rispetto della Prima Legge comportasse la necessità di porre per un certo tempo in primo piano la Terza?

Nulla, davvero, è semplice nel mondo. Questo libro ha il merito di ricordarlo, anche attraverso la rigorosa e insieme palpitante prefazione che uno dei massimi esperti italiani di robotica (e di tante altre cose), Giuseppe O. Longo, ha scritto per questo testo vivace e senz’altro utile come introduzione al complesso tema delle Intelligenze Artificiali.

Note

1. I. Asimov, Io, robot (I, Robot, 1950), trad. di L. Serra, Mondadori, Milano 2003, p. 13.

Nunzia Bonifati

Et voilà i robot.
Etica ed estetica nell’era delle macchine

Prefazione di Giuseppe O. Longo
Springer-Verlag Italia, Milano 2010
Pagine XVI-160

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