Filosofare in terra di mafia
Molti professionisti della filosofia sembrano confermare, con la propria vita, ciò che l’immaginario collettivo suppone: che si possa filosofare in Afghanistan come in Danimarca, nel V secolo a. C. come nel X secolo d. C., protetti in una campana di vetro dai fastidi della cronaca. Una simile filosofia è senz’altro possibile: nulla di stupefacente, però, se essa -dimentica del contesto sociale- venga altrettanto solennemente ignorata dalle donne e dagli uomini immersi nella quotidianità della storia.
Cosa significa, in concreto, filosofare nel Meridione italiano a cavallo fra il XX e il XXI secolo? Per comodità di sintesi, risponderei che ad attendere il filosofo è un duplice, inestricabile, compito: ‘diagnostico’ e ‘terapeutico’. Innanzitutto egli può mettere a frutto la sua competenza nel decifrare i ‘testi’, nel decodificare le visioni-del-mondo implicite nei discorsi (e nella prassi) dei concittadini che aderiscono -formalmente, a titolo di militanti, o informalmente a titolo di simpatizzanti e sostenitori- alle varie organizzazioni mafiose. Egli, insomma, può individuare, tematizzare e problematizzare la filosofia della mafia (dove il genitivo è grammaticalmente ‘soggettivo’): la concezione dell’uomo, della società, dello Stato, della morale, della religione, dell’educazione, dell’economia…che i mafiosi solitamente (con tutte le eccezioni del caso) condividono, più irriflessivamente che consapevolmente. Se esiste, come ho tentato di sostenere altrove, una “teologia mafiosa” [1], a fortiori esiste una “filosofia mafiosa”: un modo di intendere e di spendere la vita all’interno di un quadro più ampio di riferimenti cosmologici e, in qualche misura, ontologici.
Conoscere la prospettiva mafiosa sul mondo è, già di per sé, un passo importante. Ma, per quanto rilevante, resterebbe insoddisfacente se non costituisse il presupposto per un secondo passo: la destrutturazione critica della filosofia messa a fuoco. Una cosa è fare storia delle idee, un’altra cosa è fare filosofia: l’analisi delle idee altrui è momento necessario, ma insufficiente, nell’itinerario propriamente filosofico di chi è chiamato, per fedeltà alla propria mission, a mettere in dubbio ogni posizione e a chiedere ragione di ogni convincimento. Non ritengo superfluo soffermarmi, sia pur brevemente, su questo aspetto critico-teoretico del filosofare ‘incarnato’ in un ‘qui-ed-ora’. Sulla base di alcune significative esperienze personali, distinguerei contesti e finalità differenti (anche se è più facile distinguerli sulla carta che non nel concreto esercizio della propria pratica professionale).
Una prima topologia comprende i casi -davvero rari- in cui un soggetto (portatore di mentalità mafiosa) chieda un confronto ‘filosofico’ con un pensatore di mestiere nonché i casi, un po’ meno rari, in cui un piccolo gruppo di soggetti (portatori di mentalità mafiosa) accettino un confronto ‘filosofico’ con un pensatore di mestiere (per esempio su proposta di un ufficio del Ministero della Giustizia). In contesti del genere il rischio più immediato è di scivolare dalla filosofia all’edificazione morale (o, peggio, moralistica). Chi accetta di fare filosofia in queste condizioni deve essere sinceramente disposto a ‘pensare-con’ i propri interlocutori, nella presupposizione che suo compito primario non è ‘convertire’ o ‘salvare’ bensì accompagnare l’altro in un processo di consapevolezza e di dialogo, il cui esito non può essere surrettiziamente prefissato a priori. Ridetto in soldoni: se il filosofo è in veste di filosofo-consulente [2], non può escludere che -ragionando con un mafioso o con un gruppo di individui dalla mentalità mafiosa- possa arrivare ad ammettere che la filosofia mafiosa sia più coerente logicamente e più aderente al reale della sua propria filosofia a-mafiosa o anti-mafiosa.
Una seconda tipologia d’interlocuzione filosofica si configura nel caso in cui il pensatore di mestiere sia invitato a incontrare persone –soprattutto giovani- che, presumibilmente, non sono né membri di organizzazioni criminali né stabilmente influenzati da questi. Qui il rischio preminente non è più costituito dall’edificazione moralistica bensì dalla riduzione dell’esercizio filosofico a formazione ideologica. Lo dico subito per evitare equivoci: la produzione di ideologie (intese, con Karl Mannheim, quali apparati di idee in funzione operativa) non è un’attività disdicevole. Privare la lotta politica di qualsiasi dimensione ideologica -o, se si preferisce, ideale– equivale a relegarla sul piano dello scontro puramente fisico o comunque materiale. Con la stessa chiarezza, però, va detto che il filosofo in quanto tale non può trasformarsi in ideologo: neppure al servizio delle cause più nobili, dei partiti più progressisti, delle chiese più raccomandabili. Perciò egli, incontrando cittadini (soprattutto del Meridione italiano) in assetto di formazione etico-politica, può senz’altro manifestare apertamente le proprie critiche alla Weltanschauung mafiosa e, altrettanto apertamente, evidenziare la fondatezza ontologica e la fecondità operativa di filosofie alternative, ma senza perdere due caratteristiche irrinunciabili della sua specificità professionale: l’intima, sincera, convinzione che le sue idee -per quanto meditate a lungo- non sono per principio irrevocabili; e la conseguente intenzione di sottoporre queste sue idee ad un confronto schietto a 360° senza prefiggersi, come obiettivo strategico, di persuadere ad ogni costo (per esempio ricorrendo ad artifici retorici e avvocateschi) i non-filosofi di professione della validità di una visione dell’uomo e del mondo alternativa alla prospettiva mafiosa.
So bene che queste due esemplificazioni tipologiche, qui solamente accennate, non sono esenti da obiezioni. Alla più ovvia delle quali (“Ma così non si rinuncia alla valenza civile della filosofia? Non si rischia di fare il gioco delle organizzazioni criminali mafiose?”) potrei rispondere che, se si colloca la riflessione su un piano metodologicamente critico, il mafioso -attuale o potenziale- è già spostato ai margini della logica mafiosa. Se egli accetta le regole del confronto filosofico, si allontana per ciò stesso dalle regole della mentalità mafiosa. La filosofia, infatti, non ha bisogno di trasformarsi (degenerando) in strategia comunicativa di tipo moralistico o ideologico. Anzi, è proprio nella misura in cui supera ogni tentazione di dogmatismo, di autoritarismo, di tradizionalismo, di conformismo mentale, di paternalismo pedagogico…che si costituisce come antidoto a ogni cultura -come quella mafiosa- imperniata sulla conservazione dello status quo, del privilegio e della sistematica violazione della dignità umana.
Note
1 Cfr. A. Cavadi, Il Dio dei mafiosi, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2009.
2 Sulla consulenza filosofica e, più in generale, sulla filosofia-in-pratica, non posso qui che rimandare al mio Filosofare di strada. La filosofia-in-pratica e le sue pratiche, Di Girolamo, Trapani 2010.
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