Sette contro Tebe: un dramma nel suono
Introduzione
Was ist eine attische Tragödie? In riferimento alla domanda di Wilamowitz-Moellendorff, titolo dell’introduzione al suo monumentale commento all’Eracle di Euripide (1889)1, i tentativi di risposta in ambito filosofico hanno seguito fino a oggi tre approcci principali. Posta la differenza tra tragedia e tragico, come diversi studiosi hanno rilevato2, in quanto solo nella modernità il tragico diviene un problema (concetto) filosofico che risulta mantenere un rapporto più o meno forte con la tragedia, si vuole rispondere alla domanda iniziale partendo dalla definizione di Eschilo come poeta di un pensiero tragico. Se si considera la tragedia eschilea un λόγος filosofico che si dà nella forma della poesia, e questa è la prospettiva del presente contributo, ne consegue che già a partire da Eschilo, ma pure con il filosofo a lui coevo Empedocle, si ha un’aurorale forma di pensiero tragico. Da qui le tre chiavi di lettura principali della tragedia alle quali si è fatto cenno: artistico-estetica, psicologica e metafisica. In questa riflessione si andrà al di là del riconoscimento della tragedia come forma letteraria, ci si protenderà oltre, verso l’approccio ermeneutico e speculativo che vuole indagare gli aspetti abissali dell’esperienza umana e la sua apertura siderale all’evento, ovvero a ciò che in quanto aorgico mette in crisi l’esistenza che cerca sempre di strutturarsi in forme determinate3. Va da sé che la prospettiva pocanzi enucleata è estendibile anche a Sofocle ed Euripide, ma per ragioni di spazio si rimarrà qui entro i confini del tragico eschileo.
Jaspers, prendendo le mosse dalla tragedia greca per parlare über das Tragische, vede nei tragediografi greci le grandi espressioni dell’aurorale coscienza tragica, e afferma che anche ciò che di essa si è sviluppato successivamente rimane strettamente connesso a questo nucleo originario4. Nella tragedia attica, dunque, sta il plesso sorgivo di ogni pensiero tragico che si è sviluppato nella storia del pensiero fino ai giorni nostri. Da allora è lecito parlare di tragedia e filosofia come se fossero due strade parallele? O l’antico disaccordo insanabile5 enunciato da Platone – παλαιὰ […] διαφορὰ6 – ha determinato la storia della filosofia, fino a oggi, in forza del coabitare delle due? È il cosiddetto «diventar-filosofico della tragedia»7 che, non depotenziandola della sua tensione poiché essa, sul fondamento della complessità delle vicende umane, elabora le proprie domande, fa sorgere gli interrogativi della filosofia8. La tragedia accoglie la frammentarietà del mondo nel mondo della forma nel loro permanente e intramontabile dissidio. E «come la verità dell’essenza, che si scarica, procacciando vita, nella vita, denuncia la perdita della propria immanenza vitale, così il fondamento problematico della tragedia diviene visibile e si fa problema solo nella filosofia»9. La tragedia fornisce la risposta alle domande umane, dunque, «non più in quanto mera evidenza concresciuta, bensì quale prodigio, quale un ponte snellamente e solidamente arcuantesi su abissi senza fondo»10.
Insondabili abissi, difatti, sono quelli che sonda chi del tragico si occupa; e ciò avviene «perché la parola stessa, tragico, pur intesa come “ciò che è affine o ha relazione con la tragedia”, indica elementi molto antichi, rituali così come sacrificali, finanche musicali»11. Parola che ha attraversato la storia giungendo sino al presente secolo, sino ai più razionalmente invalicabili limiti delle esperienze umane. Eschilo mostra la via per comprendere l’uomo e il mondo, per com-prendersi, indicando ciò che è possibile κατὰ τὸ εἰκὸς e κατὰ τὸ ἀναγκαῖον12. I successivi paragrafi, seguendo l’approccio speculativo, risponderanno alla domanda posta in apertura. Si tenterà di toccare le radici metafisiche della tragedia.
Ἑπτὰ ἐπὶ Θήβας
In una sua opera dedicata alla filosofia della musica, il filosofo Giovanni Piana sostiene che «il suono è una irruzione nel silenzio. Il rompere, l’irrompere, il lacerare sono parole che il linguaggio assegna anche all’ambito dei fenomeni sonori e che richiamano, in questo ambito, il rapporto fra il suono e il silenzio»13. In Sette contro Tebe, sin dai primi versi, emerge in tutta la sua pienezza il lessico che pertiene all’udire; dimensione certamente presente in tutto il corpus eschileo, ma non nelle proporzioni e con l’insistenza della tragedia di cui parliamo. È dunque legittimo affermare che si tratta di un dramma nel suono. Quali suoni? I suoni tremendi dell’uragano bellico, della tempesta di Ares, degli aspetti più cruenti della guerra. Ἔρις (v. 726) è sinfonia di suoni e rumori ove sgorga il sangue che irrora la Terra, incutendo terrore al punto da far levare, dinanzi alle vibrazioni dei corpi che si propagano nell’aria raggiungendo l’apparato uditivo – «θρέομαι φοβερὰ μεγάλ’ἄχη» –, un «urlo di paura: forte è l’angoscia» (v. 78, p. 121)14. Il suono diviene luogo in cui vengono suscitati i più svariati e reconditi sentimenti che si ergono di fronte alla follia della guerra fratricida tra Eteocle e Polinice (fratelli-re-nemici), figli di Edipo, rampolli della stirpe di Laio, che in Tebe, città dalle sette porte, ha luogo; e «l’arte magistrale del poeta sta nel modo in cui usa per fini drammatici le sette porte della città»15. La violenza è percepita, predetta, dedotta, immaginata, ma mai messa in scena.
Il coro, all’udire «stridore di strage» (v. 124, p. 123), implora l’intervento degli dèi che hanno parte attiva nel dramma: Zeus, Atena, Apollo, Ares, Poseidone. Nel cuore di Tebe si leva un grido:
onde intorno alla rocca – guerrieri e fluttuanti cimieri – mugghiano, sospinte dal soffio di Ares. Ma tu, Zeus padre nostro, tu che puoi tutto compiere, salvaci, salvaci dalla cattura nemica! Ma già gli Argivi la cittadella di Cadmo circondano: terrore delle armi di Ares! Strette le ganasce <…> nel morso i cavalli mugugnano: stridore di strage! (vv. 111-118, p. 123).
Viene affermata (confermata) la forza del decreto divino secondo cui l’esito della vicenda non dipende dagli sforzi dei mortali, ma da Zeus: solo da lui procede il verdetto della guerra. Alla luce di questa profonda consapevolezza, bisogna che si dia voce all’altare dei sacrifici e il messaggero riporta a Eteocle quanto ha visto/udito: i sette guerrieri argivi nell’atto di compiere un sacrificio. I versi che descrivono il rituale sono espressione della «fosca grandiosità della poesia eschilea»16. Il sacrificio officiato dai guerrieri che «hanno Ares negli occhi» (v. 53, p. 119) e che promettono di riversare terrore e strage su Tebe, rocca dei Cadmei, è un boato (v. 64, p. 121) risonante come onda che si propaga nell’aria arrivando fino al cuore della città: «ἀκούετ’ ἢ οὐκ ἀκούετ’ ἀσπίδων κτύπον;», «lo sentite o non lo sentite questo fracasso di scudi?» (v. 100, p. 123). Cosa fa Eteocle dinnanzi all’incombente sciagura? La risposta a questa domanda risiede nei versi in cui il πάθος tragico raggiunge il suo apice, ovvero «la scena in cui egli annunzia al coro la sua decisione di fare fronte al fratello, e vi persiste nonostante tutte le preghiere delle donne»17.
Aἱ βοᾶι accompagnano gli scudi dei guerrieri il cui bronzo intona il canto della devastazione – «canta alle porte il bronzo degli scudi» (v. 161, p. 125) –, e alla cui melodia si uniscono il clangore dei carri (v. 151, p. 125), il cigolio delle ruote (v. 153, ibidem.), il vibrato delle lance (v. 155, ibidem.), lo strepito dei carri (v. 204, p. 129), le ruote che stridono girando in tondo (v. 205, ibidem.), i cavalli che mugghiano (v. 206, ibidem.), il fracasso di pietre che rimbombano (vv. 212-213, ibidem.), i cavalli nitrire (v. 245, p. 133), lo sconquasso alle porte (v. 249, ibidem.), frastuono e grida insieme (vv. 239-240, ibidem.), i vagiti insanguinati (v. 348, p. 141), il nemico che sbraita e spasima per la battaglia eccitando il suo ardore allo squillo di tromba (vv. 392-394, p. 143). Una domanda pone il coro: «τί γένωμαι;» (v. 297), «che cosa sarà di me?» Quale τέλος persegue il dio guidandoci in questo atroce sentiero? Nell’assordante e spaventosa melodia bellica si leva l’invocazione per la salvezza città: «Zeus onnipotente! Contro i nemici rivolgi il tuo fulmine» (v. 255, p. 133).
Un dramma nel suono
Appare strano il primato dell’udire se si considera che nella cultura greca è il vedere la dimensione sensitiva principale. Ma qui i suoni diventano immagini. La polvere, messaggero senza voce – «ἄναυδος σαϕὴς ἔτυμος ἄγγελος» (v. 82) –, alzata dall’incedere del passo dell’esercito argivo verso la città, impedisce alle fanciulle di vedere il tristo spettacolo. L’unica soluzione è abbandonarsi al dramma annunciato dai suoni, ascoltare la sinfonia del repertorio di sonorità diversificate che il dissidio reca con sé come propria annunciazione, evento che comporta la distruzione della forma. I rumori uditi vengono visti dalle donne: il coro vede il rumore – «κτύπον δέδορκα» (v. 103, p. 123) –, e la trasfigurazione del suono in immagini dà luogo a un’originale sinestesia tra vista e udito. Terrore incutono le melodie delle armature in marcia verso la città di Cadmo: «questo rumore… l’ho negli occhi!» (ibidem.). Il dramma del suono crea una sequenza di immagini che, grazie anche al lessico onomatopeico, si scagliano violentemente negli occhi. Esse proiettano coloro che ascoltano nell’estetica della guerra, nell’orrore di cui essa è ancella e portatrice, capace di sconvolgere il cuore e le menti dei mortali. Il dramma è espresso e annunciato nei suoni; i suoni creano immagini; le immagini divengono viva presenza e criterio ermeneutico del reale. Quanto detto sin qui, espressione del grande pensiero eschileo, tocca l’esistenza di ogni essere umano. Quanto sono potenti i sensi, e in particolar modo l’udito, nell’evocare eventi che manifestano tutta la loro portata drammatica? Chi all’udire un suono, rumore o melodia non è mai disceso nell’abisso più profondo dei propri ricordi, nella catabasi del proprio tempo perduto, tra le immagini di ciò che ineluttabilmente è accaduto?
Eteocle invita il coro – va precisato che il sovrano si rivolge al coro di vergini, ovvero a coloro che incarnano il legame profondo della città con il sacro – a intonare il peana propiziatorio, facendo così cessare le urla di terrore: bisogna sopportare e accettare il destino. Egli, infatti, decidendo di combattere presso la settima porta contro il fratello Polinice, sceglie consapevolmente il proprio destino abbracciandolo – «morte è il mio destino: perché dovrei blandirlo?» (vv. 703-704, p. 165). Nello spazio sonoro del dramma il lamento si trasforma in invocazione, e hanno inizio i canti rituali in onore delle divinità: «ascolta prima la mia preghiera e poi innalza tu il sacro grido, il peana propiziatorio: […] Così infonderai coraggio ai nostri e dissolverai la paura della guerra» (vv. 267-270, p. 135). Eteocle vuole che le fanciulle innalzino un canto composto, un ὀλολυγμóς, termine che indica l’ululato rituale femminile, e ciò sarà possibile perché il governatore grazie alla potenza persuasiva della retorica trasformerà il delirio irrazionale delle fanciulle, il cui grido invocava “giustamente” la protezione divina, in silenzio razionale che si apre alla riflessione. Da una parte l’animo saldo del sovrano, dall’altra l’angoscia del coro pervaso dal terrore18. Il silenzio ottenuto da Eteocle non deve essere considerato un’assenza totale di λόγος, bensì una μεταβολή della mente dal turbamento dei rumori provenienti dall’esterno e fedelmente riprodotti nel canto di propiziazione: è solo nel silenzio che ha luogo l’insediamento di senso mediante la riflessione. Grande è il fardello di chi regge il timone della πόλις.
Il vento di Ares soffia impetuoso portando con sé il terrore di un ipotetico assedio nemico evocato dai suoni. Se ciò accadesse, ai vinti non rimarrebbe che il pianto al termine della notte come unica consolazione, «perché, se vince l’odiato nemico, la speranza è arrivare al termine della notte, ultimo conforto del dolore e del pianto» (vv. 365-368, p. 141). Posta l’indiscussa sovranità di Zeus, Ares ha un ruolo preminente nel dramma ed è presentato come colui che decide ai dadi la sorte della guerra. Il particolare più interessante è che qui il dio che incarna gli aspetti più cruenti della guerra ha due volti, due aspetti. Egli è dentro e fuori le mura della città, è ovunque19. Il pensatore di Eleusi formula una considerazione filosofica molto profonda sulle radici di ogni guerra, sull’origine di ogni conflitto, sulla forma che accoglie in sé l’impulso della propria distruzione e la cui vita vuol dire stare costantemente nel pericolo di tale impulso che incombe.
Ares e Afrodite, progenitori della stirpe tebana, stanno al centro della scena: i due princìpi generatori della πόλις e della stessa κρίσις che la proietta in una possibile distruzione. A loro il coro dedica la processione, la supplica e la sosta più estese. Ma nel πάνθεον della tragedia vi sono pure Zeus, come si è già detto, ed Era, Atena e Poseidone, Apollo e Artemide: tutti a testimoniare che la triadica relazione del servizio divino greco riti-culti-sacrifici è il patto fondante che lega la città ai suoi dèi.
Il campo semantico dei suoni, presente in misura maggiore nella prima parte della tragedia, attraversa comunque tutta la scena generando il πάθος dell’ascolto da cui scaturiscono ἔλεος e φόβος, elementi che rimandano alla Poetica di Aristotele. Terrore suscitato dall’avvicinarsi della morte, «rapido è il passo di Erinni» (v. 791, p. 171), presso la settima porta dove i due fratelli stanno per scontrarsi. E nel dramma sonoro, anche il duello fratricida sembra propagare le proprie onde tonanti che echeggiano danzando nell’aria fino a divenire un «infausto suono» (v. 839, p. 175). Qui uno dei temi principali della tragedia: il destino della città di Tebe accanto al destino di Eteocle e Polinice, discendenti della stirpe di Laio il quale, «cedendo a chi gli era caro, generò a se stesso il suo incosciente destino di morte: generò Edipo, il parricida, che il puro solco della madre, dove lui stesso era stato nutrito, osò inseminare: e fu una radice di sangue» (vv. 750-757, p. 169). Il πάθος dell’ascolto genera quel πάθος dell’azione (Nietzsche) che accoglie il passo avvicinantesi della morte. Quale δρᾶν potrà corrispondere al rapido passo di Moira?
Approfondendo la questione della colpa, si evince che per i Greci le intenzioni, che pertengono alla sfera sentimentale, psicologica, hanno rilevanza per l’analisi del reale solamente in connessione ai fatti: ciò che conta sono le azioni; solo queste sono oggetto di una colpa che nessun discorso coscienzialistico ha il diritto di cancellare e attenuare: la stirpe di Laio è colpevole. Il duello che ha luogo presso la settima porta è l’epilogo di una colpa che condurrà inevitabilmente all’estinzione del γένος. Dalla parte di chi starà Δίκη? Nell’agone tragico la giustizia è giustizia di consanguineità – «Δίκη δʼὁμαίμων» (v. 415, p. 145) –, non sta dalla parte di Polinice e neppure da quella di Eteocle, essa non è spartibile poiché giusto è solo ciò che il destino ha deciso, ovvero lo scontro tra i due. L’ineluttabile si fa strada – la tragedia diviene Schicksalstragödie –, e in forza di esso le parole di chi governa la città muovono dall’evento che mostra l’implacabile potenza del destino20, forza magmatica e illimitata della vita contro la vita.
Il coro dà voce al sentire della città che, una volta giunta la propria salvezza – «πόλις σέσωσται» (v. 804) –, esperisce la dura perdita dei due re-fratelli-nemici offuscante i fasti della vittoria. Adesso è il tempo e lo spazio del peana di lutto. Qui la pietà. La terra ha bevuto il sangue fratricida che una volta versato ha realizzato l’estinzione del γένος di Laio, presupposto necessario per la salvezza della città. Il demone comune dei fratelli inseparabili è comune destino di morte elargito dalle Erinni per il ferro della lama. Nella sinfonia per il compianto – μέλος dionisiaco – riecheggia la voce della sapienza tragica, l’intuizione del grande σκοτεινός: «Lo stesso è Ade e Dioniso»21. E allora, quando il dolore raggiunge il suo apice non vuole più lamenti, più parole, sia il canto delle donne pervase dal dio a continuare il racconto: «Noi intanto, prima di sentire la loro voce, dobbiamo far risuonare il lugubre inno all’Erinni e per Ade cantare l’odioso peana» (vv. 866-869, p. 177).
Ritmi, suoni, melodie, armonie, rumori accompagnano la quotidianità dell’esistenza di ogni essere umano, ed echeggiano continuamente nelle emozioni che scaturiscono dai ricordi capaci di far sentire/ri-sentire tutta la loro potenza all’incedere di una sola melodia, cosicché il dramma dell’esserci è anche un dramma nel suono, nell’infausto suono. Per questa tragedia, riprendendo un verso del poeta John Keats in Ode on a Grecian Urn, è possibile formulare una fondata constatazione esistenziale, ma trasfigurata in domanda: «Heard melodies are sweet, but those unheard | Are sweeter»22. E dunque: «dolci le udite melodie: più dolci le non udite?». Il non-udito spesso accompagna l’esistenza come angoscia di ciò che poteva essere e che non fu. Il suono del dramma è anche la non irruzione di quella melodia, del possibile che avrebbe spezzato il silenzio più angosciante, il silenzio che oltremodo ha fatto patire: «ἀκούετ’ ἢ οὐκ ἀκούετ’ ἀσπίδων κτύπον;» (v. 100, p. 123).
Ciò che la storia richiede nell’istante giusto
Dove risiede la cogente questione – τὸ πρόβλημα – posta dal poeta e filosofo di Eleusi in Sette contro Tebe? Corrispondere all’evento, a ciò che il tempo richiede allo scoccare dell’istante nella πόλις; e questo incombere dell’istante è tutto nella storia. Eschilo pone un fondamento filosofico che anche gli altri poeti tragici seguiranno23. Si tratta di cercare, indagare e comprendere la verità a partire dall’evento, non da assunti logici pretendenti validità universale e aprioristica. L’hic stans diviene l’origine del filosofare, l’origine della domanda tragico-filosofica – «τί δ’ἐστι πρᾶγμα νεόκοτον πόληι πλέον;» (v. 803) – che sorge all’irrompere della παρουσία e che esige il corrispondere di tutta la città alla necessità del καιρός. Dunque, al centro del problema eschileo vi sarebbe lo scontro tra il nucleo del mito – l’oracolo di Apollo enunciante la punizione della stirpe di Edipo – e l’hic stans nel suo ampio margine d’imprevedibilità che si manifesta all’inizio della tragedia. È chiaro che qui è messa in discussione la centralità dell’interpretazione più ricorrente, ovvero quella che rileva il centro nevralgico del dramma nel dissidio tra i due fratelli per contendersi la città, prospettiva che certamente risulta fondamentale ai fini della comprensione della tragedia in questione. In merito a ciò, Grassi pone una domanda: «bisogna attenersi alla mitologia tradizionale che comporta la morte di Eteocle al di là delle mura della città oppure adeguarsi alle nuove necessità dell’ora, secondo la formulazione situata all’inizio del dramma, combattendo? Salvare il mito implorando o salvare la città storica»24. La tragicità dell’esistenza è determinata da un’apertura abissale a ciò che la necessità presenta all’incombere dell’istante, sicché l’esistere, per Homo sapiens, reclama l’essere disposti (essere pronti a fare fronte) ad accogliere le istanze sempre nuove dell’evento. Un solo mito non basta, non è sufficiente a rendere ragione della complessità degli eventi che vedono i mortali come protagonisti e abitanti della città, del cosmo. Questo Eschilo lo ha colto con grande acribia esistentiva e lo ha donato all’Occidente. Ecco perché una lettura meramente estetica25 del dramma eschileo, o la prospettiva secondo cui la tragedia sarebbe un discorso tutto interno all’arte, non può che costituire una triste riduzione di ciò che, prima di tutto e dopo tutto, è un’indagine filosofica sull’esistenza, uno sguardo poliedrico (metafisico, ontologico, teologico, etico-politico), come poliedrica è la parola dei filosofi-poeti tragici, sull’uomo e sulle dinamiche che determinano il tratto caratterizzante il suo esserci: essere-con, laddove il con indica la connessione di Homo sapiens con la propria storia, con la πόλις in cui dimora e con le istituzioni che la strutturano, con la giustizia che invoca nell’ora dell’ingiustizia, con il sacro, con la sciagura, con Τύχη, con la ὕβρις, con la misura, con la pietà, con il terrore, con l’imprevedibile Ἀνάγκη che tutto governa e con Μοῖρα: «pesante e crudele è il suo dono» (v. 986).
Note
1 Cfr. U. von Wilamowitz-Moellendorff, Cos’è una tragedia attica? [Was ist eine attische Tragödie?, 1889], trad. di G. Ugolini, La Scuola, Brescia 2015.
2 Cfr. C. Gentili, G. Garelli, Il tragico, Il Mulino, Bologna 2010, pp. 9-14.
3 Sui concetti di forma ed evento per interpretare e comprendere la grecità cfr. C. Diano, Forma ed evento. Principi per una interpretazione del mondo greco, Neri Pozza Editore, Vicenza 1952; M. Cacciari, «Filosofia e tragedia. Sulle tracce di Carlo Diano», in C. Diano, Il pensiero greco daAnassimandro agli Stoici, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 9-28.
4 Cfr. K. Jaspers, Del tragico [Über das Tragische, 1952], trad. di I. Alighiero Chiusano, SE, Milano 2008, p. 16.
5 Cfr. G. Garelli, «Pensare il tragico: ovvero l’antidoto», in Aa. Vv., La filosofia di fronte al tragico, a cura di M. Vero, Edizioni ETS, Pisa 2005, p. 5.
6 Platone, Repubblica, X, 607b.
7 G. Lukács, «Paul Ernst. Metafisica della tragedia», in L’anima e le forme [Die Seele und die Formen. Essays, 1910], trad. di S. Bologna, SE, Milano 2002, p. 252.
8 Cfr. K. Jaspers, Del tragico, cit., p. 21.
9 G. Lukács, Teoria del romanzo. Saggio storico-filosofico sulle forme della grande epica [Die Theorie des Romans, 1916/1920], trad. di F. Saba Sardi, Garzanti, Milano 1962, p. 61.
10 Ivi, p. 62.
11 A. Filannino Indelicato, Per una filosofia del tragico. Tragedie greche, vita filosofica e altre vocazioni al dionisiaco, Mimesis, Milano-Udine 2019, p. 22.
12 Aristotele, Poetica, 1451 a-b.
13 G. Piana. Filosofia della musica, Guerini e Associati, Milano 1991, p. 75.
14 Eschilo, «Sette contro Tebe» [Ἑπτὰ ἐπὶ Θήβας, 467 a.C.], in Le tragedie, traduzione, introduzione e commento a cura di M. Centanni, «I Meridiani», Mondadori, Milano 2003. I versi della tragedia e la pagina della traduzione dell’edizione critica di riferimento saranno citati tra parentesi nel corpo del testo.
15 H.C. Baldry, I Greci a teatro. Spettacolo e forme della tragedia [The Greek Tragic Theatre, 1971], trad. di W. Herbert e M. Beimore Laterza, Roma-Bari 1995, p. 121.
16 M. Centanni, in Eschilo. Le tragedie, cit., p. 768.
17 M. Pohlenz, La tragedia greca [Die griechische Tragödie, 1954], trad. di M. Bellincioni, Paideia, Brescia 1961, p. 110.
18 Sul tema della preghiera in Eschilo cfr. S. Amendola, Donne e preghiere dei personaggi femminili nelle tragedie superstiti di Eschilo, Adolf M. Hakkert Editore, Amsterdam 2006, p. 49. A p. 63 si legge: «La parodo, sebbene espressione del terrore femminile davanti all’avvicinarsi della guerra, è, fuori di dubbio, “une prière de sauvegarde, un modèle proposéau peuple assemblépour le spectacle […] elle donne aussi àentendre et àvoir, sous sa paroxystique, le rite de la bonne supplication”».
19 Cfr. M. Centanni in Eschilo. Le tragedie, cit., p. 776.
20 Cfr. S. Natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano 2002, p. 103: «La coscienza dell’ineluttabile risulta chiara ne I sette a Tebe quando Eschilo pone sulla bocca di Eteocle parole che perfettamente significano la potenza implacabile del destino».
21 Eraclito, DK 22 B 15. Cfr. anche M. Centanni in Eschilo. Le tragedie, cit., pp. 843-844.
22 J. Keats, «Ode on a Grecian Urn», in The Odes of John Keats, H. Vendler, Harvard University Press, 2003, p. 114.
23 Sul concetto di fondamento come punto di partenza per comprendere il pensiero di Eschilo collocato nella più vasta ramificazione teoretica della storia del pensiero occidentale cfr. A.G. Biuso, «Eschilo, il fondamento», in Chronos. Scritti di storia della filosofia, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 3-43.
24 E. Grassi, Il dramma della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli 1992, p. 67. Ben fondata risulta l’analisi filosofica della tragedia in questione proposta dall’autore e per la quale si consiglia la lettura del paragrafo La città assediata: la Tebe di Eschilo (pp. 61-71).
25 Cfr. K. Jaspers, Del tragico, cit., pp. 55, 68-70. Qui l’autore evidenzia un pericolo interpretativo molto diffuso ai nostri giorni, ovvero quando il tragico è ridotto a una distaccata contemplazione estetica che diverte lo spettatore rendendolo vuoto e insensibile.
(stefano.piazzese.s@gmail.com)
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