L’arte è una forma di conoscenza?

Di: Roberta Corvi
1 Novembre 2023

 

El Greco, Laoocoonte, in mostra al Palazzo Reale di Milano sino all’11 febbraio 2024.

«Il poeta è un essere leggero, alato, sacro, che non sa poetare se prima non sia stato ispirato dal dio, se prima non sia uscito di senno, e non abbia più in sé intelletto. Chi possegga intelletto è incapace di poetare e di vaticinare»1. Platone individua così in poche parole la caratteristica che assimila la poesia al vaticinio: la sua estraneità all’attività intellettuale, la sua mancanza di fondamento razionale, pur non escludendo che possa veicolare qualche verità, come ammette nel Menone. Nella Repubblica il giudizio, esteso anche ad altre forme di arte, come la pittura, si fa più severo, poiché l’arte in genere «elabora la propria opera lontano dalla verità. Essa è in intima relazione, compagna e amica di quel nostro interiore elemento che sta lontano dall’intelligenza, senza alcuna meta né sana né vera»2; l’arte, infatti, allontana dal vero «per il fatto di cogliere una piccola parte di ciascun oggetto, una parte che è una copia»3, anzi una copia di un oggetto che è a sua volta copia del vero essere che si trova solo nel mondo delle Idee.
Il verdetto platonico sfavorevole all’arte ha alimentato una tradizione, che arriva fino ai giorni nostri, secondo cui l’arte è estranea alla razionalità, alla verità e, dunque, alle attività che producono conoscenza del mondo che ci circonda e che si esauriscono nelle varie scienze, volte a indagare sia i fenomeni naturali, sia i fenomeni culturali. Ovviamente non è questa l’unica concezione dell’arte presente in Occidente, probabilmente non è nemmeno quella prevalente, ma certamente è stata molto influente se ha potuto contrastare e oscurare la tesi aristotelica secondo cui la poesia nelle sue varie forme è sì imitazione, ma da ciò non consegue un giudizio negativo, poiché, riferendosi specificamente alla tragedia, Aristotele nota che, avvalendosi di un linguaggio arricchito dall’armonia, dal ritmo e dal canto «mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni»4. Si potrebbe osservare che anche in questo caso il riferimento è alle passioni piuttosto che alla razionalità o a qualche attività cognitiva, in realtà poco più avanti Aristotele afferma che il compito del poeta «non è descrivere cose realmente accadute, bensì quali possono [in date condizioni] accadere: cioè cose le quali siano possibili secondo le leggi della verisimiglianza e della necessità. […] la poesia è qualche cosa di più filosofico e di più elevato della storia; la poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale, la storia il particolare»5. Insomma, nonostante il giudizio di Aristotele sia certamente limitato ad alcuni generi poetici e non possa essere esteso all’arte in generale, tuttavia offre uno spunto interessante, per aprire ad una prospettiva diversa, quando accenna alla rappresentazione dell’universale tramite elementi particolari, quali i personaggi nel caso della tragedia.
Dunque, il punto fin dall’antica Grecia riguarda il rapporto dell’arte con la verità da un lato e con la razionalità dall’altro. L’arte nelle sue svariate forme può essere portatrice di verità? Le arti contribuiscono alla nostra conoscenza del mondo, completando il lavoro delle scienze? Le arti offrono elementi costitutivi della nostra rappresentazione della realtà nei suoi molteplici, compositi e complessi aspetti? È possibile raggiungere questo obiettivo senza il soccorso della razionalità? 


Arte e verità 

Nel passato più recente l’arte è stata contrapposta alla scienza proprio per sancire la distinzione fra conoscenza razionale ed espressione emotiva; addirittura Wittgenstein nel suo Tractatus logico-philosophicus escludeva anche la filosofia dall’ambito della conoscenza, in quanto non sarebbe dottrina, bensì attività e, precisamente, analisi del linguaggio6. Il positivismo logico, che si è ispirato al Tractatus, ha sviluppato la tesi di fondo di Wittgenstein in direzione dichiaratamente antimetafisica, servendosi dell’arte per colpire la metafisica e al tempo stesso estromettendo l’arte dall’ambito epistemico.
Carnap riconosceva che l’uomo ha bisogno di «esprimere il proprio sentimento della vita, il proprio atteggiamento emotivo e volitivo verso l’ambiente, verso la società, verso i compiti e le traversie che deve sopportare. Questo sentimento si estrinseca per lo più inconsapevolmente in tutto ciò che l’uomo fa e dice, ma molti uomini avvertono l’esigenza di dare una particolare forma al loro sentimento della vita esprimendolo in modo più intenso e forse più visibile. Se hanno capacità artistiche creano opere d’arte»7. Di conseguenza, egli ritiene che l’arte, a differenza della metafisica, sia uno strumento adeguato per esprimere «il sentimento della vita», ma proprio come la metafisica anche l’arte «non asserisce nulla», pur utilizzando proposizioni enunciative. Rispetto alla metafisica, però, la poesia ha il vantaggio di non avere pretese conoscitive, infatti «il lirico […] non si cura di confutare con la sua poesia le proposizioni tratte dalla poesia di un altro lirico; egli sa, in effetti, di operare nell’ambito dell’arte e non in quello della teoria»8. Viene così sancita una divisione netta di ambiti: la conoscenza e la razionalità sono prerogative della scienza, l’arte può essere solo espressione del sentimento e dell’emotività.
Ancora più esplicito Michael Dummett: «un dipinto o un componimento musicale colpisce la nostra sensibilità. Può cambiare i nostri atteggiamenti, spesso anche profondamente, o arricchire le nostre emozioni, può perfino portarci a riconoscere come vera una proposizione che avevamo inizialmente scartato, ma di per sé non comunica conoscenza. La conoscenza consiste nell’apprensione della verità delle proposizioni e le proposizioni possono essere comunicate solo mediante il linguaggio»9. A questo proposito si impongono però due rilievi: in primo luogo l’affermazione di Dummett sembra rivolta alle arti visive che, non usando proposizioni, non utilizzano il linguaggio verbale, quindi, trascura l’esistenza di arti il cui strumento è esclusivamente il linguaggio verbale, come la poesia o la narrativa. Inoltre, pur volendo restare nell’ambito delle arti visive, non si può negare che anche opere di questo tipo siano in grado di comunicare idee, basti pensare alle riflessioni suscitate da un dipinto come Las Meninas di Velasquez10. Ovviamente, si potrebbe obiettare che avere idee e comunicarle non è ancora conoscenza, ma in tal caso si farebbe riferimento ad una nozione di conoscenza che escluderebbe proprio l’origine di gran parte della conoscenza umana che, come vedremo più avanti, non si sviluppa in una sola direzione.
Non a caso nel pensiero contemporaneo non è mancato un punto di vista alternativo rispetto all’impianto positivista che vedeva nella scienza la sola legittima descrizione della realtà, contrapposta all’espressione emotiva dell’arte. Nelson Goodman, per esempio, in quanto difensore di un’ontologia pluralista e relativista, ritiene che ci siano molti modi in cui il mondo è, perciò nessuna descrizione potrà rappresentare il mondo come è; infatti, essendoci molte angolature, ogni descrizione vera ne coglie uno. Goodman contro Carnap ritiene che non ci sia un dato che costituisce la roccia extralogica su cui basare l’edificio incrollabile del sapere; di conseguenza, per lui non regge la «dispotica dicotomia» tra cognitivo o scientifico da un lato ed emotivo o artistico dall’altro, tipica del positivismo logico. «Da un lato mettiamo sensazioni, percezioni, inferenze, congetture, ogni ricerca e investigazione inerte, fatto e verità; dall’altra parte piacere, pena, interesse, soddisfazione, disappunto, ogni risposta affettiva senza la partecipazione del cervello, apprezzamento, disgusto. Ciò impedisce precisamente di cogliere che nell’esperienza estetica le emozioni funzionano cognitivamente»11.
Secondo il filosofo americano, la posizione rappresentata dall’area che comprende il positivismo logico e parte della filosofia analitica prende in considerazione solo il mondo delle scienze fisiche, mentre esiste una pluralità di prospettive, poiché ognuno di noi in contesti diversi costruisce il proprio mondo12. Goodman ritiene che il mondo non abbia una struttura propria, bensì che la struttura si costituisca a partire da ciò che rileviamo nel flusso dell’esperienza e da ciò che facciamo; la creatività estetica è per lui il modo per eccellenza per realizzare questa costruzione e interazione con il mondo. L’esperienza estetica e quella scientifica hanno entrambe «un carattere fondamentalmente cognitivo», infatti anche l’arte contribuisce a costruire i mondi in cui abitiamo non meno della scienza e della storia. «La rappresentazione è così sottratta alle concezioni deformate che la assimilano a un processo peculiarmente fisico quale il rispecchiamento, ed è riconosciuta come una relazione simbolica, relativa e variabile»13.
Lo stesso Goodman affronta un’obiezione prevedibile: come si può affermare il carattere cognitivo dell’esperienza estetica, quando è evidente che la verità non conta nulla nel dominio dell’arte, mentre è fondamentale per la scienza? Il filosofo americano fa notare però che in realtà il ruolo della verità in ambito scientifico è sopravvalutato, poiché «le leggi scientifiche più nobili sono raramente del tutto vere. […] Dato un insieme qualsiasi di fatti, infinite ipotesi alternative si possono adattare. Non possiamo fare una scelta tra di esse sulla base della verità; la loro verità non è infatti direttamente accessibile. Semmai, le giudichiamo sulla base di tratti quali la semplicità e la forza»14. D’altra parte, si potrebbe considerare la questione relativa alla verità dell’arte anche da un altro punto di vista, come fa notare Biuso commentando Nietzsche, il quale aveva rivelato «l’intrinseca natura metaforica e quindi artistica di ogni concetto di verità», poiché la verità è il risultato di un lungo lavoro su metafore e relazioni umane che si sono consolidate retoricamente fino ad apparire vincolanti15. Insomma, la verità non si manifesta semplicemente nel dato empirico, ma si fa strada anche con mezzi diversi, infatti giudichiamo vera la ricostruzione di un evento o un’ipotesi scientifica quando manifestano un’aderenza ai dati disponibili, che però sono spesso integrati da interpretazioni in modo da costituire una struttura di senso; ma lo stesso, secondo Goodman, accade con il simbolo estetico. Ovviamente la differenza tra scienza e arte permane, ma «non è quella fra sentimento e fatto, intuizione e inferenza, diletto e deliberazione, concretezza e astrazione, passione e azione, mediatezza e immediatezza o verità e bellezza, ma semmai una differenza nel predominio di certe caratteristiche dei simboli»16. Goodman abbraccia così l’idea centrale di Cassirer, secondo cui le arti e le scienze sono attività che utilizzano sistemi simbolici e che si differenziano nella creazione, nell’applicazione e nell’interpretazione dei simboli stessi, facendo comunque emergere un lembo di verità.
Anche secondo Cassirer, dunque, l’arte è conoscenza, sia pure di un genere particolare, in quanto fa affiorare un lato della verità che sfugge alla scienza: la scienza cerca di riportare i fenomeni alle loro cause prime e a leggi e principi generali, «nell’arte si assumono invece le cose nel loro modo immediato di manifestarsi e si gode di questa loro manifestazione in tutta la sua ricchezza e varietà»17. Rifiutando la concezione mimetica dell’arte, Cassirer afferma che «come tutte le altre forme simboliche, l’arte non è […] la mera riproduzione di una realtà data. È una delle vie che conducono ad una visione oggettiva della vita umana. Non è imitazione ma scoperta della realtà. Ovviamente attraverso l’arte non si scopre la natura negli stessi termini della scienza»18; mentre la scienza astrae per scoprire le leggi naturali, l’arte scopre le forme della natura in un processo di concretizzazione, teso a valorizzarne la varietà e il dinamismo. Insomma, l’arte propone «una verità non di cose empiriche bensì di forme pure»19.

 

Arte come organizzazione concettuale 

Pur ammettendo con Cassirer che l’arte sia condizione essenziale della vita umana20, visto che gli esseri umani fin dalla preistoria hanno sempre praticato qualche forma di arte, si potrebbe comunque ritenere che l’arte nulla abbia a che fare con la conoscenza, la quale ha la funzione di rappresentare il mondo in modo oggettivo, utilizzando categorie e concetti che sono sottoposti a controllo pubblico, generando teorie che devono essere giustificate con ragionamenti sulla base di dati empirici ed esperimenti che possano essere condivisi dalla comunità scientifica. Tali procedure sono ovviamente estranee all’arte, che dunque non sarebbe una forma di conoscenza. Questa conclusione pone però un problema relativo alla definizione di conoscenza che si intende adottare, come già è emerso commentando le parole di Dummett. Non è questa la sede per sviluppare un tema che richiederebbe una lunga trattazione finalizzata a sviscerare sia gli aspetti storici sia quelli teoretici, pertanto mi limito a fornire una definizione che non potrò giustificare21, ma che mi pare sufficientemente generale da includere diversi tipi di conoscenza e capace di individuare lo scopo fondamentale e irrinunciabile di ogni attività cognitiva, che certamente mira all’adattamento alla realtà, come ha sottolineato il pragmatismo, ma d’altra parte risponde all’esigenza di comprendere i fenomeni di cui facciamo esperienza in una unità di senso. In questa direzione ci è utile, ancora una volta, la riflessione di Cassirer, che indica una via opposta a quella prevalsa a partire dall’età moderna nel pensiero scientifico e filosofico, tendente alla frammentazione dell’oggetto e dello scopo stesso del conoscere. Il filosofo neokantiano punta invece a far emergere un obiettivo comune, quello di strutturare i diversi fenomeni e i loro diversi aspetti in un’unità di senso, che deriva dalla connessione delle singole forme tra loro, creando nell’intreccio delle molteplici relazioni che si instaurano tra le diverse forme simboliche un sistema complesso22. Se tutte le attività della cultura concorrono alla formazione di un mondo comune, tutte in qualche misura danno un apporto alla conoscenza del mondo e quindi le varie attività della cultura costituiscono un sistema di cui la conoscenza scientifica è solo una parte.
Quindi, se definiamo la conoscenza come organizzazione dei fenomeni di cui facciamo esperienza, non si può negare che l’arte realizzi un’organizzazione della realtà che si colloca su un piano diverso da quello della scienza, alla quale interessa soprattutto scoprire come avvengono i fenomeni, mentre l’arte pone una domanda diversa, che riguarda, come sintetizza Roberto Diodato, la precarietà e la contingenza delle cose23, su cui si applica il logos estetico, che è pur sempre una forma di logos, cioè di razionalità. Di una razionalità intesa à la Cassirer non come sostanza ma come funzione, grazie alla quale è possibile l’oggettivazione anche al di fuori del concetto, anche nell’intuizione24. In realtà, come nota anche Chiurazzi, l’arte non è estranea all’attività concettuale, anzi il concetto «è la sua origine, il suo atto di nascita»25, poiché con le opere d’arte si compie uno sforzo di oggettivazione, che è tipico di tutta la cultura e che richiede l’utilizzo di concetti, dal momento che l’arte non è solo ispirazione. Anzi, «un grande sforzo intellettuale, un lavoro di chiarificazione, intensificazione e concentrazione del nucleo originario, un giudizio solido, un severo spirito critico: tutto ciò è indispensabile alla nascita di una grande opera d’arte»26.
Ancora più radicale la posizione di Feyerabend, il quale non solo riconosce che l’arte ha una valenza conoscitiva, ma addirittura ritiene che la scienza stessa abbia molto in comune con l’arte, in quanto «la scienza è senz’altro un serbatoio di conoscenza, ma lo stesso vale per i miti, le favole, le tragedie, i componimenti epici e molte altre creazioni delle tradizioni non scientifiche»27. Prendendo come spunto un esperimento di Brunelleschi, sul confronto fra un dipinto e l’oggetto reale, Feyerabend osserva che l’artista agisce secondo regole, presupponendo una teoria generale della pittura e risolvendo anche problemi geometrici. L’autore di Contro il metodo conclude che «la pittura è dunque una scienza che si salda senza soluzione di continuità alla compagine delle altre scienze»28. A sostegno di questa tesi, si può citare l’opera di un pittore come Viktor Vasarely, che costituisce un esempio emblematico di contaminazione fra pittura, geometria e teoria del colore. D’altra parte è vero anche il contrario, cioè che non è possibile, né in via di fatto né in via di diritto, ricondurre gli atteggiamenti umani sempre e soltanto a una logica razionale, anzi escludere dalla cultura l’apporto di ciò che non è riconducibile ad un ragionamento esclusivamente logico significa «defraudare la vita di molti elementi che contribuiscono a conferirle valore»29. Riprendendo ancora Nietzsche, Biuso rammenta che il senso dell’arte consiste nel ricomporre i tanti frammenti in cui l’uomo moderno si è diviso, creando antagonismi fra politica e arte, scienza e mito, vita e sapere30. L’artista, invece, vuole rappresentare la realtà in una prospettiva che tenga insieme i contributi di scienziati, teologi, politici, facendo emergere così l’interdipendenza tra i vari settori delle attività umane. Esempi di tale interdipendenza sono noti a tutti, basti ricordare l’influenza di Freud sulla letteratura, testimoniata dalle opere di Svevo, Joyce o Pirandello, per tacere delle ricadute sul cinema, di cui Hitchcock è stato forse l’interprete più noto ma non certo il solo, e ancora gli esiti della pittura surrealista da Breton a Dalì. D’altra parte, lo stesso Freud ha ampiamente utilizzato contenuti e suggestioni provenienti dalla mitologia greca per formulare alcune tesi portanti della psicoanalisi, che si sono strutturate sul mito di Edipo, di Medea, di Narciso, per menzionarne solo alcuni. Ne consegue, come affermava Cassirer, che «il sistema della conoscenza non ammette alcuna isolata determinazione “formale” che non influisca su tutti i problemi e su tutte le soluzioni della conoscenza»31. 

 

Arte come sapere della contingenza 

Insomma, filosofia, scienza e arte sono spesso così intrecciate da rendere poco plausibili gli steccati con cui vengono tenute artificialmente separate. Occorre ripetere che non si tratta di confondere attività che sono diverse, come già si è detto, ma piuttosto di riconoscere che perseguono con mezzi differenti un fine comune, che non è quello di rispecchiare fedelmente una realtà oggettiva, bensì quello di radunare in un’immagine comprensibile e coerente gli elementi eterogenei e difformi che si danno alla nostra esperienza. In questa prospettiva l’arte, mediante il logos estetico, si impone come «struttura originaria del sapere, esperienza che è sintesi di immediatezza logica e di immediatezza fenomenologica, [che] attesta la presenza di una negatività veramente altra rispetto al regime non solo della comprensione concettuale, ma della rappresentazione e della ragione. […] è insieme esperienza dell’andar nel nulla: il fuggire delle cose, il loro spegnersi. Segnata dalla dimensione della perdita, attestazione della radicale contingenza dell’ente, la domanda filosofica che da questo logos proviene non è primariamente domanda sull’essere (sull’imporsi dell’essere sul nulla), ma sul nulla: dell’imporsi del nulla sull’essere»32.
La contingenza è una dimensione strutturale dell’esistenza umana, sia nella sua forma radicale, in quanto ogni esistenza è, ma potrebbe non essere più in qualunque momento, sia nella sua forma circoscritta alle possibili situazioni della vita, che possono cambiare e venir meno anche senza un motivo razionalmente riconoscibile e accettabile. La ricerca di un senso che abiti questa contingenza ci appartiene come esseri umani, ma sfugge alle scienze, in quanto non compete alle scienze nelle loro determinate specializzazioni, benché ogni teoria scientifica contribuisca a generare lo sfondo che fa da cornice alla ricerca di senso, la quale trova nell’arte un terreno particolarmente fecondo, in cui cercare di superare le contraddizioni vissute nell’esperienza e che non sempre la razionalità classica riesce a ricomporre33. L’esperienza dell’arte genera allora pensiero e genera un “sapere” «che precede quale trascendentale ogni sapere determinato, testimonia nell’esperienza della bellezza che la nostra esperienza originaria è essenzialmente doppia: esperienza dell’essere e del suo annullarsi, del sorgere dal nulla dell’ente e del suo dileguare nel nulla»34.
In altre parole, l’arte consente di mettere a fuoco e comprendere, mediante il particolare, quegli aspetti trasversali della realtà e dei diversi fenomeni che la compongono e che non emergono nell’indagine scientifica, permettendo di cogliere la contingenza nella sua valenza universale: «l’emergenza della singolarità è esperienza di contingenza ma sottratta per un momento al suo passare nel nulla, esperienza per dir così di una contingenza eterna, di una quiete dell’atto di essere»35.
Rorty, forse proprio perché aveva messo a tema l’aspetto contingente dell’esistenza umana, è giunto ad affermare che da Hegel in poi la filosofia è stata rimpiazzata dalla letteratura, dall’arte e, più in generale, dalla critica della cultura, auspicando che la filosofia possa «fare pace» con la letteratura, piuttosto che scimmiottare le scienze36, affinché il filosofo arrivi a considerarsi «un collaboratore del poeta piuttosto che del fisico»37. Tuttavia, credo che ci sia una sfasatura tra la posizione di Rorty e la proposta che è stata costruita fin qui. Infatti, pur essendo uno dei più agguerriti avversari della teoria della conoscenza come rispecchiamento, Rorty non accetta l’idea di una conoscenza intesa, per dirla con Cassirer, come costruzione di un mondo comune; egli ritiene piuttosto che non ci siano procedure valide universalmente e che esistano soltanto pratiche sociali e culturali inevitabilmente etnocentriche.
Per Rorty il principale dovere degli esseri umani non deve essere la conoscenza – come l’Occidente ha sostenuto da Platone in poi – ma la responsabilità verso gli altri38. Quindi, probabilmente riterrebbe priva di senso la domanda iniziale se l’arte possa essere una forma di conoscenza, poiché l’arte, e in particolare la letteratura, non deve aumentare il sapere, ma ha il compito di suscitare solidarietà, come è accaduto per esempio con La capanna dello zio Tom di Harriet Beecher Stowe. A differenza di Rorty, penso che la conoscenza sia un bisogno per gli esseri umani e un bisogno che viene soddisfatto in modi diversi, proprio come si può soddisfare il bisogno di nutrimento con cibi diversi, e ritengo che ogni forma di conoscenza contribuisca a creare un tassello di quel mosaico complesso e mai concluso che è la nostra rappresentazione del mondo, intesa non come risultato di un rispecchiamento fedele della realtà, bensì come organizzazione delle nostre esperienze in una struttura dotata di senso. 

 

Note 

1 Platone, Ione, in Opere complete, vol. V, Laterza, Bari 1971, 534b, p. 375. Nel Menone i poeti sono assimilati agli indovini e ai vati, che dicono molte verità, «ma nulla sanno di quello che dicono», poiché non hanno intelletto (Opere complete, vol. V, cit., 99c, p. 303).
2 Id., Repubblica, in Opere complete, vol. VI, Laterza, Bari 1971, 603 a-b, p. 333.
3 Id., Repubblica, cit., 598b, p. 326.
4 Aristotele, Poetica, in Opere, vol. X, Laterza, Bari 1973, 1449b, p. 203.
5 Id., Poetica, cit., 1451a-b, p. 211.
6 Cfr. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus [1921], Einaudi, Torino 1974, § 4.112, p. 27.
7 R. Carnap, Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio, in A. Pasquinelli (cur.), Il neoempirismo, UTET, Torino, p. 529.
8 Id., Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio, cit., p. 530.
9 M. Dummett, La natura e il futuro della filosofia, il melangolo, Genova 2001, p. 21.
10 Per una sintesi e un approfondimento delle interpretazioni di Las Meninas, cfr. R. Diodato, Logos estetico, Morcelliana, Brescia 2012, pp. 11-38.
11 N. Goodman, I linguaggi dell’arte [1968], Il Saggiatore, Milano 2013, p. 213.
12 Cfr. Id., Vedere e costruire il mondo [1978], Laterza, Roma-Bari 1988.
13 Id., I linguaggi dell’arte, cit., p. 44.
14 Ivi, p. 226.
15 Cfr. A.G. Biuso, Chronos. Scritti di storia della filosofia, Mimesis, Milano 2023, p. 165.
16 N. Goodman, I linguaggi dell’arte, cit., p. 227.
17 E. Cassirer, Saggio sull’uomo [1944], Armando, Roma 1968, p. 289; cfr. anche Id. Simbolo, mito e cultura [1979], Laterza, Roma-Bari 1981, p. 215.
18 Id., Saggio sull’uomo, cit., p. 251.
19 Ivi, p. 281.
20 Cfr. Id., Simbolo, mito e cultura, cit., p. 149.
21 Per una più ampia e argomentata trattazione di questo tema rimando a R. Corvi, Frontiere aperte. Verso un’epistemologia transdisciplinare, Scholé, Brescia 2023.
22 Cfr. E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche [1923], La Nuova Italia, Firenze 1976, vol. I: Il linguaggio, p. 33.
23 Cfr. R. Diodato, La bellezza non salverà il mondo, Morcelliana, Brescia 2020, p. 22.
24 Cfr. E. Cassirer, Simbolo, mito e cultura, cit., pp. 190-191.
25 G. Chiurazzi, Seconda natura. Da Lascaux al digitale, Rosenberg e Sellier, Torino 2021, p. 85.
26 E. Cassirer, Simbolo, mito e cultura, cit., p. 194; cfr. anche ivi, pp. 171-175.
27 P.K. Feyerabend, Dialogo sul metodo, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 95.
28 Id., Scienza come arte, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 110.
29 A.G. Biuso, Chronos, cit., p. 169.
30 Cfr. ivi, p. 171.
31 E. Cassirer, Sostanza e funzione [1910], La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 5.
32 R. Diodato, Logos estetico, cit., p. 5.
33 A questo proposito, cfr. le acute riflessioni di Diodato sul tragico come espressione della crisi contemporanea tanto della ragione metafisica quanto della ragione dialettica (Logos estetico, cit., cap. III, in particolare pp. 130-156).
34 R. Diodato, La bellezza non salverà il mondo, cit., p. 26.
35 Ivi, p. 28.
36 Cfr. R. Rorty, Intellectual Autobiography, in R. E. Auxier-D. R. Anderson-L.E. Hahn (eds), The Philosophy of Richard Rorty, Open Court, Chicago (Ill.) 2010, pp. 19-20.
37 R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia [1989], Laterza, Roma-Bari, p. 15.
38 Cfr. Id., Verità e progresso [1998], Feltrinelli, Milano 2003, pp. 171-173. 

(roberta.corvi@unicatt.it)

 

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