La via cartesiana alla fenomenologia della soggettività trascendentale
La centralità teoretico-epistemologica assunta dalla soggettività nella costruzione di una conoscenza universalmente valida rappresenta uno dei tratti specifici sviluppati dalla modernità già a partire da Descartes, cui convenzionalmente (anche se non unanimemente) la storiografia filosofica tradizionale suole attribuire il titolo di iniziatore e inveratore di questo nuovo approccio speculativo. Nelle Lezioni sulla storia della filosofia Georg Wilhelm Friedrich Hegel, introducendo i caratteri della metafisica e della gnoseologia moderne e sottolineando i contributi apportati a tali branche da Spinoza e, ancor prima, da Descartes, così riferirà di quest’ultimo: «Cartesius segna un nuovo inizio in tutti i campi. Il pensare, il filosofare, il pensiero e la cultura moderna della ragione cominciano con lui»1. Secondo il pensatore francese, infatti, «il principio è il pensare, il pensare che prende le mosse da se medesimo»2 e che, attraverso un atteggiamento programmaticamente scettico, «scartando la morta esteriorità e la nuda interiorità»3, si presenta come puro. L’atto dubitativo, che investe la tesi di esistenza sia dell’esteriorità corporea sia delle certezze matematiche, permette a Descartes, nel Discorso sul metodo e, soprattutto, nelle Meditazioni metafisiche, di procedere alla delineazione di una soggettività pura, l’ego cogito, mediante la quale ricostruire in maniera evidente l’intero impianto metodologico delle scienze e unificarle in un sistema di fondazione del tutto razionale. In tal modo, l’operazione fondamentale cartesiana, che mette a punto la priorità gnoseologica del cogito, inteso come autoevidenza originaria frutto di un’intuizione immediata della mente, pone le fondamenta di un iter filosofico che, tramite il trascendentalismo di matrice kantiana e neokantiana, giunge fino all’idealismo trascendentale4 di Edmund Husserl ravvisabile già nei manoscritti e nelle opere prodotte all’incirca dal 19085.
In effetti, il rapporto che intercorre tra l’impostazione fenomenologica e i suoi prodromi razionalistico-cartesiani è spesso discusso dallo stesso Husserl, in particolare nelle Lezioni parigine, che rappresentano la trascrizione di quattro conferenze che egli tenne presso l’Anfiteatro Descartes della Sorbonne il 23 e il 25 febbraio del 1929, e nelle Meditazioni cartesiane, un’opera che vide per la prima volta la luce nel 1931 in lingua francese e che si configura come un ampliamento delle tematiche trattate, seppur nella loro fase germinale, nelle Lezioni parigine. Qui il pensatore di Prossnitz, rivolgendosi al suo uditorio, afferma che il razionalismo cartesiano ha rivestito un ruolo di primaria importanza, che consiste nel tentativo di conferire alla nascente disciplina fenomenologica una struttura e una configurazione ben precise; una rilevanza tale che essa potrebbe essere considerata «un nuovo cartesianesimo, un cartesianesimo del Ventesimo secolo»6. Risulta dunque chiaro che «la fenomenologia deve rendere onore a Descartes come al suo vero e proprio patriarca»7, dal momento che in lui essa trova il proprio retroterra filosofico nonché alcuni assunti epistemologici e di ricerca, tra i quali figura certamente il tentativo di offrire, sulla base di un soggettivismo trascendentale, il fondamento primo e unitario sul quale erigere l’intero sistema delle scienze. Su questa chiave di lettura va concepita la convinzione husserliana secondo cui alle Meditazioni metafisiche «spetta […] un significato eterno»8, una proposta teoretica che la fenomenologia deve ereditare e, al contempo, tuttavia, sottoporre a un esame critico, che metta in luce le aporie logico-filosofiche che emergono da essa, al fine di capovolgerle e riconfigurarle nell’ottica di un nuovo metodo e di una nuova teoria della conoscenza. Una comparazione tra Husserl e Descartes è dunque attuabile se e solo se si tiene in considerazione il carattere precipuamente dialettico che sussiste tra i due pensatori, accomunati sì da una condivisa e manifesta aspirazione fondazionalista dell’epistemologia, ma differenziata per quanto concerne gli aspetti specifici di tale atto fondazionale.
Prima di procedere oltre, però, è necessario enucleare i punti di convergenza a cui si faceva riferimento in precedenza. In primo luogo, Husserl condivide l’idea cartesiana di una «completa riforma della filosofia che coinvolge tutte le scienze, poiché queste sono parti non autonome dell’unica scienza universale: la filosofia»9. In altri termini, le singole scienze, per costituirsi come scienze autenticamente e razionalmente fondate, necessitano di un’organizzazione unitaria e di un sistema di evidenze assolute di cui sono state prive sin dal momento nel quale furono concepite. Proprio a tal proposito, emblematiche sono già le Regulae ad directionem ingenii, un’opera incompiuta di Descartes e pubblicata postuma nel 1701. Sebbene si presenti con un andamento non uniforme e sistematico10, essa permette di delineare in maniera chiara la concezione e le aspirazioni del pensatore francese sul tema dell’unitarismo scientifico – già indirettamente rinvenibili nelle Olympica11, uno scritto giovanile andato perduto di cui tuttavia dà testimonianza Adrien Baillet nel 1691. Nella prima regola, infatti, Descartes prende le mosse da una esplicita critica nei confronti di coloro i quali, distinguendo le discipline scientifiche «secondo la diversità degli oggetti, hanno ritenuto che si debba cercar di acquistarle una per una indistintamente e mettendo da parte tutte le altre»12; ciò è dovuto, secondo l’autore, a una marcata consuetudine (corroborata anche da un’errata impostazione di fondo, consistente in una indebita equiparazione tra scienze e arti) diffusa tra gli uomini, i quali, «ogni qualvolta scoprano qualche somiglianza tra due cose, giudichino di ambedue, anche per ciò in cui esse sono differenti, quello che hanno verificato dell’una o dell’altra»13. Al contrario, dal momento che «tutte le scienze non sono nient’altro che l’umano sapere»14, che per definizione è ritenuto unico, risulta infecondo sia da una prospettiva pratica sia da una prospettiva teoretica non valutarle nella loro connessione unitaria e nella loro matrice comune, che nella fase aurorale15 del pensiero cartesiano è identificata con la mathesis universalis, ossia con una scienza matematica universale che sia sovraordinata a tutte le singole discipline di natura matematica e che abbia per oggetto di indagine16 i principia communia di tali discipline. Questa concezione sarà poi parzialmente superata nelle riflessioni filosofiche della maturità, nelle quali il pensatore francese si mostrerà alla ricerca di un dispositivo metodologico che, pur strutturandosi in chiave matematica, potesse contemplare a sé ogni branca dello scibile. In tal modo, se è certamente vero che l’ideale di una mathesis universalis debba rappresentare il punto di avvio verso l’acquisizione dei saperi e della loro unificazione, in quanto «definisce, in generale, i rapporti quantitativi tra grandezze di qualsiasi tipo»17, allo stesso tempo è altrettanto vero che è proprio per questa ragione che essa mostra alcuni limiti e incongruenze, giacché non tutto è passibile di un processo di quantificazione. È bene precisare che, nonostante nella terza, nella settima e nella dodicesima regola Descartes fa menzione del tema dell’intuitus18, come facoltà conoscitiva distintiva dell’intellectus puro che consente, più della deductio, di approdare a verità stabili e indubitabili, tuttavia risulta pressoché assente un’effettiva teorizzazione sistematica della soggettività come momento fondativo dell’epistème.
In uno scritto cronologicamente successivo alle Regulae, La recherche de la vérité par la lumiére naturelle, articolato secondo lo stile dialogico-socratico e anch’esso rimasto incompiuto, l’autore ritorna, questa volta in modo più approfondito (ma ancora distante rispetto alle opere della piena maturità) sull’argomento dell’intuitus mentis come evidenza originaria dell’esistenza. Nell’esporre al suo interlocutore Poliandro il punto di avvio di qualsiasi analisi condotta razionalisticamente con il solo ricorso al lume naturale, senza alcuna interferenza esterna di tipo teologico-dogmatico, Eudosso sentenzia che, poiché «voi non potete negar di dubitare, e al contrario è certo che voi dubitate […] è vero puranco che voi, il quale dubitate, esistete, e ciò […] è così vero, che non potete più dubitarne»19. Emergono, dunque, dalla Ricerca – che sembra riassumere, pur nel suo carattere inequivocabilmente aporetico, l’intero percorso compiuto da Descartes sino a quel momento – i prodromi di quella formalizzazione del soggetto che costituirà il nucleo essenziale delle Meditazioni. Un elemento, tuttavia, di originalità che contraddistingue il suddetto scritto è quello dello scetticismo, la cui elaborazione era stata in precedenza solo timidamente accennata. Nella prime due Meditazioni metafisiche Descartes invece sottopone, avendone appurato l’intrinseca fallibilità, al metodo della scepsi integrale o iperbolica ogni branca della conoscenza umana, investendo criticamente non solo la validità del sensibile, ma anche le pretese di legittimità delle scienze fisico-matematiche, giacché i loro oggetti di indagine sono stati precedentemente privati della tesi di effettiva esistenza. Solo attraverso il dubbio integrale, che estende universalmente a tutti i campi le conseguenze logiche del dubbio metodico, è possibile pervenire alla conclusione del cogito ergo sum: riferendosi al caso probabile di un’entità ingannatrice, il filosofo francese afferma infatti che «nel caso in cui lui mi inganni, allora non c’è dubbio che esisto anch’io; e, mi inganni pure quanto ne è capace, non potrà mai far sì che io non sia niente, fintantoché penserò di essere qualcosa»20. Il cogito rappresenta quindi un ricavato di esperienza non falsificabile, dal momento che anche l’ipotesi di un genio maligno non riuscirebbe a inficiarne la validità universale, e il principio primo intorno al quale erigere l’intero edificio della conoscenza umana. È necessario, tuttavia, chiarire le varie accezioni secondo cui il cogito si configura come principio primo. In realtà, esistono infatti «assiomi più generali del cogito, da cui il cogito può essere dedotto»21: ciò spiega il motivo per il quale Descartes non di rado è solito affermare che, per afferrare adeguatamente la natura del cogito, si deve poter preliminarmente afferrare cosa siano le nozioni di pensare, di esistere e di certezza, nonché del postulato in base al quale ciò che pensa è impossibile che non esista. Quest’ultimo, inoltre, come sostenuto da Sergio Landucci22, rimanda a un assioma ancor più generale: il nulla non fa nulla; ma ciò non mina la natura strettamente intuitiva e non argomentativa del cogito, poiché la proposizione universale secondo cui il nulla non fa nulla non ha alcuna correlazione logica e semantica con la nozione di esistenza23. La primarietà del cogito non può, d’altronde, essere neppure di carattere ontologico, in quanto, come traspare dalla lettura della terza Meditazione, l’idea di imperfezione che il soggetto si autoattribuisce (perché suscettibile al dubbio) scaturisce da una particolare presa di coscienza: quella di dipendere da una «una sostanza infinita, indipendente, sommamente intelligente sommamente potente»24, da cui sia il mondo esterno sia il soggetto sono stati creati25. Rimane, allora, un unico percorso da seguire per poter concepire il cogito come primum: esso consiste nell’identificarlo con la certezza prima e ultima nell’ordine della conoscenza, con quella prima philosophia che figura anche nel titolo originale latino dell’opera cartesiana stessa. Il cogito è, dunque, l’elemento più elementare e semplice a partire dal quale riferire tutte le altre conoscenze ricavate per via deduttiva e ricostruire nuovamente tutte le scienze secondo dei chiari e distinti criteri di validità.
La proposta di Descartes è inequivocabilmente ripresa anche dalla fenomenologia husserliana. Per attuare una ricostruzione ex novo dell’intero impianto metodologico delle singole scienze è indispensabile, sostiene infatti Husserl sulla falsariga cartesiana, attuare una curvatura del sapere in senso soggettivistico che consenta un ritorno teoretico all’«ego delle cogitationes dei singoli cogitata»26, ovvero all’io puro inteso come campo di evidenze certamente apodittiche e come «terreno di giudizio ultimo»27 che costituisca il sostrato di ogni possibile radicale filosofare. Il fulcro principale intorno al quale deve svilupparsi questa operazione è lo stesso scetticismo che aveva caratterizzato il pensiero cartesiano, sebbene con alcune specificità. In effetti, anche se l’intera sua produzione mira a contrastare lo scetticismo, mostrandone l’assurdità e la falsità28, al dubium Husserl riconosce un aspetto positivo, consistente proprio nel fatto che esso rende l’individuo cosciente «di come ogni validità e ogni senso siano qualcosa solo in quanto si manifestano alla soggettività»29. L’atto dubitativo (nel contesto fenomenologico è più corretto parlare di epoché), vale a dire, mostrando come tutto ciò che è posto come reale e a sé stante è in realtà un costituito dalla coscienza, rende possibile il superamento di ciò che il filosofo moravo denomina naturalismo, ossia la concezione, comune a ogni impostazione lato sensu filosofico-scientifica di ascendenza empiristico-positivistica, che postula acriticamente l’esistenza di un mondo esterno indipendente dalla mediazione della soggettività. Più specificamente, nella seconda sezione del I libro di Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, e in particolare nel par. 27, Husserl presenta l’epoché come la considerazione fenomenologica fondamentale e la definisce come uno strumento atto a mettere «fuori gioco la tesi generale inerente all’essenza dell’atteggiamento naturale»30 e, con essa, «tutto quanto abbraccia sotto l’aspetto ontico: dunque l’intero mondo naturale»31. In altri termini, l’epoché si configura come un dispositivo metodologico a carattere euristico la cui funzione è quella di sospendere e neutralizzare32 ogni forma di apoditticità concernente la tesi di esistenza del mondo naturale, inteso come «unità delle connessioni spazio-temporali»33 governata da rapporti di causalità, e dunque ogni forma di appercezione empirico-psicologica della coscienza, permettendo di delineare in «modo metodicamente puro»34 il dominio di ricerca della scienza fenomenologica, che è quello della coscienza trascendentale (nella sua specifica essenza) e delle sue datità. In tal modo, questa operazione ha quale fine ultimo quello di costituire un nuovo terreno scientifico che, a differenza dell’obiettivismo, non interpreta la realtà esterna come ingenua e immediata, e di riconfigurare in chiave anti-riduzionistica il concetto di io da entità psicofisica a entità trascendentale. L’io, allora, non ha una natura ontologica ma è una regione che «l’epoché in quanto “operazione metodica” rende possibile considerare nella sua correlazione intenzionale con il senso intrinseco al darsi delle regioni esperienziali del nostro mondo circostante»35.
Quanto appena asserito permette di comprendere i punti di divergenza tra Husserl e Descartes. Sebbene il primo riconosca al secondo l’inestimabile merito di essere pervenuto alla formulazione di una prima epoché, che fosse in grado di delegittimare i presupposti epistemologici dell’intero universo delle conoscenze tradizionalmente acquisite al fine di rintracciare nel cogito il fondamento di ogni evidenza apodittica, tuttavia è possibile ancora rinvenire nella teoria cartesiana del soggetto alcuni residui della tradizione scolastica36. Descartes, infatti, rifacendosi allo schema sostanza/attributo di origine aristotelico-tomistica, in base al quale ogni facoltà presuppone ontologicamente una res o substantia, sostiene che la nozione di pensiero non si identifica con quella di atto del pensare, quanto con quella di res cogitans37: il pensiero, cioè, è un attributo della sostanza pensante. Nella Prefazione per il lettore alle Meditazioni metafisiche, il filosofo francese dichiara, a sostegno di questa tesi, di essere «una cosa pensante, ossia una cosa che ha in sé la facoltà di pensare»38, ipostatizzando il soggetto, che diviene, alla stregua agostiniana, mens sive intellectus sive anima, e rendendolo ipso facto solo ed esclusivamente un piccolo residuo di mondo sine extensione. Ma, afferma Husserl, il far coincidere l’ego puro con l’anima rappresenta uno degli errori fatali del razionalismo cartesiano: quanto si designa con anima, infatti, è solo «il residuo di una astrazione preliminare del puro corpo [il corsivo è nell’originale]; dopo questa astrazione essa non è, almeno apparentemente, che un elemento integrativo del puro corpo»39. È importante precisare che tale astrazione, tuttavia, non scaturisce dall’epoché ma è più frutto di quell’approccio filosofico precedentemente indicato come obiettivismo fisicalistico di cui si avvalgono la fisica, nonché la psicologia sperimentale, le quali fondano le proprie convinzioni sul postulato realistico della datità ovvia dell’essente, inteso o come natura/mondo esterno (nel caso della fisica) o come psiche/io naturalizzato (nel caso della psicologia sperimentale). Descartes, sovrapponendo erroneamente la dimensione immanente dell’ego puro-trascendentale con quella dell’io psichico, ha falsificato in senso psicologistico la scoperta rivoluzionaria attinta dalla sua epoché, facendo permanere la sua teoria della soggettività, in ultima istanza, nella sfera dell’appercezione naturalistica e deviando tutte le altre filosofie successive.
A ciò, secondo Husserl, si aggiunge un altro errore fatale commesso da Descartes. Il pensatore francese, con il suo radicalismo metodologico, sottopone, è vero, al vaglio della scepsi non solo la validità di ogni scienza (matematica inclusa), ma anche la vita pre-concettuale ed extra-scientifica (Lebenswelt) in ogni sua pre-datità; critica, cioè, il «mondo, dato in un’ovvietà inindagata, dell’esperienza sensibile, di tutta la vita concettuale che di esso si nutre, della vita non-scientifica e infine di quella scientifica»40 con l’obiettivo di conferire, in primo luogo, una nuova validità epistemica al terreno sul quale si sviluppano, nel loro complesso, tutte le scienze che puntano a un’aspirazione apodittica. Nel momento in cui, tuttavia, fattualmente persegue questo compito, Descartes resta influenzato dalla concezione galileiana di un «mondo universale e assoluto di corpi e dalla distinzione di ciò che rientra nella sfera dell’esperienza meramente sensibile e di ciò che, in quanto matematico, è oggetto del pensiero»41, dando luogo ad alcune conseguenze teoretiche estremamente limitanti. Una tra queste è chiaramente l’accettazione totale del paradigma deduttivistico, che conduce in modo erroneo e fuorviante l’autore delle Meditazioni metafisiche a trasformare il soggetto puro, riducendolo ai soli atti noetici, in una proposizione apodittica di natura geometrica a partire dalla quale costruire una scienza nomologico-deduttiva che inferisca dal soggetto stesso, mediante il principio di causalità, elementi trascendenti come l’esistenza di Dio, della realtà esterna dei corpi, del dualismo delle substantiae. Viene a delinearsi in Descartes ciò che il filosofo di Prossnitz denomina realismo trascendentale, ovvero quella posizione filosofica contraddittoria che, pur puntando sulla natura trascendentale della conoscenza, «incorre nell’obiettivismo fisicalistico della “trascendenza” naturalistica della realtà “estesa” rispetto all’io»42. Occorre, dunque, per Husserl, rimodulare in senso fenomenologico la fisionomia della proposta cartesiana, nata come idea rivoluzionaria, ma successivamente tradita dagli interessi prevalentemente obiettivistici del suo fondatore, e ritornare, attraverso l’epoché a un io puramente intuitivo e meditante, che permanga nell’epoché, che funga da centro nevralgico di ogni evidenza apodittica originaria e che dispieghi una «sfera ontologica nuova e infinita, una sfera d’esperienza del tutto nuova, l’esperienza trascendentale»43.
Note
1 G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, Laterza, Roma-Bari 2022, p. 468.
2 Ibidem.
3 Ibidem.
4 Questa terminologia, nonostante abbia sollevato alcune riflessioni critiche relativamente al significato da attribuire a essa, è impiegata frequentemente dallo stesso Husserl nella Quarta meditazione per descrivere le caratteristiche dell’autentica auto-esplicitazione dell’ego cogito; motivo per cui anche nella presente trattazione si utilizzerà la suddetta definizione. Cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane e Lezioni parigine, Scholé, Brescia 2017, pp. 139-163.
5 Per alcuni manoscritti husserliani (1908-1921) relativi al tema dell’idealismo fenomenologico-trascendentale, cfr. E. Husserl, Idealismo trascendentale, Scholé, Brescia 2022.
6 E. Husserl, Meditazioni cartesiane e Lezioni parigine, cit., p. 33.
7 Ibidem.
8 Ibidem.
9 Ibidem.
10 Cfr. G. Mori, Cartesio, Carocci, Roma 2010, p. 39.
11 Secondo quanto riportato dal teologo e biografo Baillet, Descartes nella notte tra il 10 e l’11 novembre del 1619 ebbe tre sogni che gli rilevarono l’iter speculativo da cui prendere avvio per ricostituire le fondamenta dell’intera conoscenza umana. Di particolare rilievo in questa sede, anche per il simbolismo e il metaforismo impiegati ai fini esplicativi, è il terzo sogno, nel quale il filosofo fa menzione di un Dizionario che alluderebbe proprio all’unità dei saperi. Cfr. R. Cartesio, Opere filosofiche, Laterza, Roma-Bari 2009, vol. 1, pp 3-7.
12 G. Mori, Cartesio, cit., p. 17.
13 Ibidem.
14 Ibidem.
15 Come affermato da G. Mori, sebbene in alcune pagine delle Regulae viene occasionalmente citato il concetto di mathesis universalis, già in questa fase della propria riflessione sui fondamenti Descartes sembra rimodulare questo paradigma metodologico. Cfr. G. Mori, Cartesio, cit., pp. 39-42.
16 La costruzione (o, più esattamente, il progetto di costruzione) di una scienza matematica universale, che sia in grado di unificare tutte le branche del sapere scientifico, è in Descartes imperniata sulla riduzione, in chiave astratta e formale, della categoria di quantità a proprietà misurabile con le sue proporzioni e relazioni. In Husserl, l’idea di una mathesis universalis si identificherà, invece, con quella di una logica pura intesa come scienza generale dell’essenza dell’oggetto. Cfr. E. Husserl, Fenomenologia e teoria della conoscenza, Bompiani, Milano 2000, pp. 75-77.
17 G. Mori, Cartesio, cit., p. 41.
18 Proprio riferendosi alla natura intuitiva del procedere intellettivo, il Descartes della terza regola, anticipando questioni ampiamente sviluppate in opere successive, quali il Discorso sul metodo e le Meditazioni metafisiche, sosterrà che «ognuno può intuire con l’animo che egli esiste, che egli pensa, che il triangolo è delimitato soltanto da tre linee». Per un confronto diretto con il testo a tal proposito, cfr. R. Cartesio, Opere filosofiche, cit., p. 23.
19 R. Cartesio, Opere filosofiche, cit., p. 109.
20 R. Descartes, Meditazioni metafisiche, Laterza, Roma-Bari 2016, p. 41.
21 G. Mori, Cartesio, cit., p. 117
22 Cfr. R. Descartes, Meditazioni metafisiche, cit., p. XXVI.
23 In altri termini, il soggetto cartesiano è una identità immediata di pensiero ed essere, che dà luogo a una esperienza esistenziale che non è scaturita deduttivamente dai postulati di cui sopra, pur rappresentando essi il terreno logico “generalissimo” di legittimità sul quale è radicato.
24 R. Cartesio, Meditazioni metafisiche, cit., p. 75.
25 L’acritica assunzione cartesiana della prospettiva creazionistica e dei principi della religione cristiana tradizionale è uno dei principali motivi per il quale il cogito non può detenere una primarietà ontologica o assiologica, che rischierebbe di equivocare, se non invertire il rapporto tra Dio, soggetto e mondo esterno.
26 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 2015, p. 103.
27 Id., Meditazioni cartesiane e Lezioni parigine, cit., p. 37.
28 È bene precisare che i due termini, assurdità e falsità, non sono esattamente sinonimi: una teoria è falsa se non è congruente ai fatti, mentre è assurda se è formalmente contraddittoria, ossia se le conseguenze da essa scaturite o scaturibili collidono con le premesse iniziali.
29 V. Costa, Husserl, Carocci, Roma 2009, p. 24.
30 E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino 2002, vol. I, p. 71 (il corsivo è nell’originale).
31 Ibidem (il corsivo è nell’originale).
32 È possibile qui individuare una prima differenza tra il metodo cartesiano e quello husserliano: Descartes, infatti, nelle Meditazioni aveva giudicato arbitrariamente tutto ciò che fosse vulnerabile al dubbio anche come falso, mentre Husserl non intende negare con l’epoché la verità del mondo, bensì ricondurla alla sua correlazione pura e intenzionale con la coscienza trascendentale (in ciò la fenomenologia si discosta anche dalle concezioni classiche dello scetticismo antico di ascendenza pirroniana).
33 E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 13.
34 R. Bernet, I. Kern, E. Marbach, Edmund Husserl. Un’introduzione alla fenomenologia, Pgreco, Milano 2021, p. 84 (il corsivo è nell’originale).
35 E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, cit., p. XIX.
36 Husserl nelle Lezioni parigine farà propria la stessa osservazione, richiamandosi agli studi di E. Gilson e A. Koyré. Cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane e Lezioni parigine, cit., p. 39.
37 Cfr. R. Descartes, Discorso sul metodo, Laterza, Roma-Bari 1998, p. XXXVIII.
38 Id., Meditazioni metafisiche, cit., p. 15.
39 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, cit., p. 108.
40 Ivi, p. 104.
41 Ivi, p. 107.
42 F. Bosio, L’inizio cartesiano della filosofia in Husserl e Heidegger, in Segni e comprensione, a. XVIII n. s., n. 52 (2004), pp. 53-66.
43 E. Husserl, Meditazioni cartesiane e Lezioni parigine, cit., p. 99.
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