Ma chi potrà rubarci la tua luce?

Di: Gianni Rigamonti
1 Aprile 2023

 

Il passo non era altissimo, un millesette, e verso la cima la strada non scherzava né come tornanti né come pendenza, però era larga e ben tenuta. Lui l’aveva percorsa non sapeva più quante volte, anche in pieno inverno, anche sotto nevicate fitte, e mai aveva avuto difficoltà – ma poi difficoltà è una parola grossa. Mai problemi degni di questo nome. Certo ci stava attento, come arrivava dicembre metteva i pneumatici da neve, e se doveva partire, che in città ci tornava spesso, controllava e ricontrollava ogni dettaglio. E comunque, quella sera si era messo in viaggio che proprio doveva, proprio non poteva farne a meno. E perché non poteva? Be’, sono tante, davvero tante le fesserie, voglio dire non le tragedie vere ma le pure e semplici scocciature, che lì per lì prendiamo invece sul tragico. E poi la paghiamo. E non impariamo mai.
Nevicava forte fin dal principio, anche a fondo valle. Non era la prima della stagione ma le due precedenti si erano completamente squagliate e ora lì in basso la strada cominciava appena a imbiancare, un velo sotto il quale in diversi punti s’intravedeva ancora lo scuro dell’asfalto. E fin verso i milledue, metro più metro meno, era filato tutto liscio: l’unica seccatura era che scendeva la notte, addio visibilità fuori del fascio degli abbaglianti, e con quella neve fitta addio anche alle luci dei paesi, grandi e piccoli, ce n’erano diversi nella valle. Però la cosa davvero difficile sarebbe stata la discesa, e ancora ce ne voleva per arrivarci.
Naturalmente man mano che lui saliva il manto nevoso cresceva di altezza; ma più i problemi diventano difficili più si deve stare concentrati, così – ormai doveva essere verso i millecinque – aveva spento la radio e gli era dispiaciuto, la musica classica faceva compagnia anche se Brahms non era proprio fra i suoi preferiti, però adesso doveva pensare solo al volante e al cambio, già due volte aveva evitato per un filo di mettersi di traverso, con le ruote motrici a girare in folle nella neve fresca.
A scendere, una volta raggiunto il passo, ormai non ci pensava più. C’era un alberghetto lassù, a forse duemila forse tremila interminabili metri di strada, duemila o forse tremila istanti di vigilanza ininterrotta dei piedi – mai toccare il freno -, delle mani sul volante, degli occhi.
Ma non bastò. Quando ti accorgi che l’anteriore o magari il posteriore dell’auto, che importa quale dei due, non va dove dici tu ma dove dice lui hai un bell’evitare di frenare o controsterzare o fare altre cavolate, puoi solo sperare che non arrivino, i guai grossi, però sono loro ad arrivare oppure no, non sei tu, per quanto ti dia da fare, a evitarli – o no.
E arrivarono, anche se per metà. La macchina si mise di traverso però nella scarpata – invisibile in quel momento ma fonda cento metri buoni, e lui lo sapeva che c’era – non ci finì. Tirò un sospiro di sollievo, ma quando cercò di raddrizzarlo il bestione non si mosse di un centimetro. Qualsiasi marcia inserisse, comunque mandasse su di giri il motore o manovrasse il volante, le ruote turbinavano in folle nella neve fresca, ormai alta.
Era bloccato sotto una tormenta, nell’oscurità totale e completamente isolato. S’impose di ragionare proprio perché il guaio era serio.
Intorno c’era solo aria nera, e tempestosa, e gelida, ma per il momento dentro l’abitacolo stava al caldo. Il serbatoio era quasi pieno, il motore, tenuto al minimo, poteva andare per ore, riscaldandolo, e la ventola gli assicurava anche il ricambio dell’aria. Doveva solo stare attento che la neve, che si andava accumulando a una velocità preoccupante, non seppellisse la macchina. Niente dormire dunque, e a lungo andare sarebbe stato difficile tenersi sveglio; ma per il momento neanche avrebbe potuto prendere sonno, con quel vento che lo assordava pure attraverso i vetri dei finestrini e quello spavento di pochi secondi prima, lentissimo ad abbandonare i suoi nervi.
Restare calmo e ragionare era un’impresa, ma se lo doveva imporre, e in superficie riusciva perfino a non dare troppo peso al fatto che il cellulare era inservibile. Completamente scarico. A parte che lì in quella gola così infossata, gli venne in mente, probabilmente non c’era campo – e a quel pensiero, a tradimento, il cuore gli partì all’impazzata, non doveva ma che ne sa il cuore, muscolo involontario, di autocontrollo, o di dovere? E adesso il panico se lo stava mangiando, il cervello non ancora ma il cuore sì…
“Signore! Signore!”
Erano due, un uomo e una donna. Per quanto spaventato lo capì, che erano un uomo e una donna, lei giovane e probabilmente bella ma con qualcosa d’insolito che non riusciva a classificare, l’uomo invece più grande, doveva essere della sua età, o magari di più.
“Fortuna che guardavamo fuori, abbiamo visto le sue luci fermarsi, e poi non ripartivano più”.
“E fortuna che siete qui. Ma dov’è casa vostra?”
“A neanche cento metri, sulla sinistra. Non lungo la strada, c’è una deviazione. La vede quella luce?”.
Era vero. Pallidissima. Ma prima, mettendosi in tre, riuscirono a spostare la macchina, che di traverso com’era avrebbe bloccato il traffico, se traffico ci fosse stato. Solo dopo s’incamminarono, e in quella poca strada lui capì certi vecchi racconti di gente morta a pochi metri da casa perché nella tormenta non era riuscita a trovare la porta.

Ora però che bello starsene seduto al caldo, al sicuro, davanti a un buon brandy e quello era davvero squisito, insieme a due persone simpatiche e chi non sarebbe simpatico, se ti ha salvato la vita o poco meno?
Lei era sui trent’anni, scura come il cuoio, stupenda. Non semplicemente bella, proprio stupenda, e parlava un Italiano impeccabile. O è nata qui, pensò, o ci è arrivata da piccola. Ed è anche molto intelligente, non farebbe i discorsi che fa se non fosse intelligente.
In realtà lui non avrebbe più ricordato neanche a grandi linee le cose che si erano dette in quei primi minuti, ma lei comunque era intelligente quanto bella, e lui sarebbe vissuto ancora a lungo e non l’avrebbe più rivista, però sarebbe sempre rimasta intelligentissima e bellissima. Ora però che il brandy non solo era stato bevuto ma si era diffuso nel corpo e nella mente la bellissima prese il telecomando, disse “Voglio farle vedere una cosa”, e sullo schermo del televisore comparvero due sagome fluorescenti, identiche o quasi, che si muovevano lentamente. Tremolavano, un poco poco si deformavano ma poi tornavano quelle di prima, a tratti davano l’impressione di spostarsi ma era difficile dirlo, lo sfondo era troppo uniforme, troppo evanescente E anche loro: a parte i contorni, uno non distingueva altri particolari.
“Quanti ingrandimenti sono?”
“Allora, le immagini sono tutte e due sui dieci centimetri, loro sono poco più di un millesimo di millimetro, quindi, aspetti un momento…”
“Sui centomila ingrandimenti”
“Giusto, sui centomila. Ma adesso guarda bene”. Erano passati al tu senza neanche accorgersene.
Da quello più a destra uscì piano piano un filamento, lungo, sottile, non la finiva più di andare verso quello a sinistra e alla fine ci arrivò e poi cominciò a entrare. Per qualche tempo, anzi no, per un bel po’ di tempo, rimasero attaccati, col filamento che a un estremo usciva dal – “maschio”? – e all’altro entrava nella – “femmina”? Però non si vedeva nessuna differenza. E poi si esaurì, si staccò da uno, scomparve dentro l’altro.
“Ma – hanno fatto l’amore!”
“Non credo che si possa usare un’altra parola. Uno ha fatto da maschio e uno da femmina. Eppure sono unicellulari, noi non riusciamo a vedere differenze di nessun tipo, nemmeno con questi ingrandimenti, e si riproducono solo per scissione”.

Ora però l’amore non lo facevano più, si stavano allontanando, e neanche i grossi bipedi guardavano più, o avevano qualcosa da aggiungere. Finché fu il padrone di casa a riprendere l’iniziativa: “Vieni di là”, gli disse, “ti faccio vedere le cose che m’importano di più in questa casa, e magari nella vita. Ne sono molto orgoglioso”. E i due lo portarono in un’altra stanza, grande, interrata.
La vista era subito attratta da due enormi parallelepipedi di vetro – molto spesso, s’indovinava. Uno era riempito da una nebbia fitta, vorticante, che ad avvicinarsi emanava calore, nell’altro invece sembrava ci fosse solo acqua, acqua e acqua, limpidissima e che dava, al contrario, un senso di freddo. E molti, molti strumenti, spesso impossibili da capire, sporgevano dall’uno e dall’altro.
“Nel vapore ci sono i batteri termofili”, disse il padrone di casa.
“Quelli dei vulcani sottomarini sempre in eruzione, a duemila metri di profondità?”
“Bravo. Sì, proprio loro”.
“Ma duemila metri vogliono dire duecento atmosfere di pressione”.
“Esatto. Ma non ti preoccupare, il compressore è buono e il vetro è solido”.
Si fermò un attimo, poi riprese: “Preferisco non dire quanto ci ho speso e ci spendo, ma sono riuscito a prelevarli, metterli in un contenitore adatto, portarli fin qui sani e salvi e adesso stanno benone, in quella nebbia rovente e a quella pressione. Li osservo spesso, ho gli strumenti per farlo. Lì invece”, proseguì avvicinandosi all’altro contenitore, “tengo i criofili-alofili. C’è un sacco di caverne nel ghiaccio antartico, e in una di queste, che comunica con l’esterno, c’è un lago che sta perennemente a tredici gradi sotto zero, ma non gela perché ha una salinità quasi come il Mar Morto, più del venti per cento, solo che il Mar Morto è morto davvero, non ci vive niente, e invece nel lago antartico ci sono dei batteri adattati a quel gelo e quella salinità. Ma adesso stanno pure quì, in quell’altra vasca. Fuori morirebbero”.
“Be’, in fondo, a pensarci bene, è così anche per noi. Voglio dire, la nostra vasca è un po’ più grossa, un po’ più fredda di un cratere in eruzione e un po’ più calda del lago antartico, però è solo una differenza di quantità e fra un miliardo di anni il Sole diventerà talmente caldo che niente potrà più viverci, in questa vasca che chiamiamo Terra”.
“Proprio così. Bravo”.
C’erano dei monitor in entrambi i parallelepipedi. E niente nell’aspetto dei termofili, o in quello dei criofili, faceva sospettare che fossero adattati a condizioni così lontane da quella adatte a noi, mammiferi macroscopici, bipedi, forniti di polmoni.

Tornarono indietro. Fu lei ad afferrare il telecomando, ci trafficò qualche secondo, e audio e video partirono insieme. Un pezzo per coro e orchestra, bellissimo. Il coro, in particolare, era quanto di più maestoso lui – intendo l’ospite, quello che i due della casa avevano salvato dalla tormenta, ma anche dalla caduta senza fondo in se stesso – avesse mai udito.
“Che cos’è?”
“Mendelssohn, su parole di Goethe. Mille anni fa, o anche di più: è arrivato il Cristianesimo, la vecchia fede nelle forze della natura sta morendo, però non vorrebbe, cerca di resistere. Ecco, ascolta, proprio in questo momento – senti che voce straordinaria ha questo coro – i vecchi credenti si rivolgono al loro Dio supremo, il Sole:
Dein Licht,
dein Licht,
dein Licht, wer kann uns rauben?
che in una traduzione ritmica suonerebbe così,
Ma chi
potrà
rubarci la tua luce?”
Goethe e Mendelssohn non avevano mai cantato né il vapore rovente, né l’acqua satura di sale e incapace di farsi ghiaccio; e forse gli abitanti di quel vapore e quel gelo nulla capivano di religione, reverenza, maestà. Ma a ripensarci, che ne sappiamo noi? Di questa ignoranza i tre erano perfettamente consapevoli, anche se fra loro non ne stavano parlando: ma non ce n’era bisogno. E sapevano bene che le cose che stanno nell’universo possono essere molto più grandi di una vasca piena di vapore rovente o di acqua salmastra e gelida, e durare molto più a lungo, ma comunque finiranno.
“La sapete la storia di Melusina?” chiese lei.
“Io sì. Ma raccontala lo stesso”.
“Melusina ebbe la possibilità di scegliere fra l’immortalità dell’anima e l’amore. Se non avesse mai fatto l’amore, avrebbe avuto un’anima immortale. Se invece lo faceva, anche una volta sola, diventava mortale non solo nel corpo, ma nello spirito. Lei scelse l’amore”.
“Fece la scelta giusta”, disse uno degli uomini. Ma anche l’altro era d’accordo.

“Posso dire una cosa che non c’entra niente?” chiese l’ospite.
“E perché no? Questa è stata fin dall’inizio la notte delle cose che non c’entrano niente”.
“Io non sono credente, però quando sto in città mi piace andare in duomo a guardare le candele”.
“Anche a me, moltissimo. Vediamo se indovino perché ci piace tanto, a tutti e due”.
“Ti ascolto”.
“La chiesa è grandissima, molto scura, e le candele votive stanno in un angolo ancora più scuro. I devoti le rinnovano spesso perché durano poco, come noi. E ognuna fa questa luce così piccola, per così poco tempo. Ma che brillino, questo possono fare. E tenersi vicine, perché intorno il buio è così grande”.

“Sta tornando la luce”, disse il padrone di casa non molto tempo dopo.
“È vero. Il Sole è quasi all’orizzonte”.
“Anzi no, non quasi. Eccolo il primo raggio, arriva in questo momento”.
Era vero. Il perituro signore di un universo perituro era tornato in tutta la sua bellezza, della quale per noi ignorantissimi umani non esiste l’uguale.
“Ed è anche passato lo spazzaneve, non ce n’eravamo accorti ma è chiaro che è passato, vedi che la strada è libera? Puoi ripartire”

 

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