Il concetto e i limiti della scienza nell’impianto della fenomenologia husserliana

Di: Daria Baglieri
1 Aprile 2023

 

In un’accezione generale e pertanto feconda, la parola ‘scienza’ potrebbe indicare l’attività di scavare nella complessità di ciò che si chiama, in varie accezioni, reale, per chiarire ogni aspetto dell’esperienza viva e articolata offerta dal mondo.
È una sfida e un’ambizione che nasce con la stessa specie umana e che mette subito in gioco una sostanziale e ineliminabile differenza, quella tra scienza e scienze: la prima indica un progetto da sviluppare, dei percorsi da esplorare per estendere non solo e non tanto il saputo, quanto lo scibile; le seconde, invece, individuano ciascuna un oggetto d’indagine per poi applicarvi una serie di operazioni teoriche, logiche e pratiche, delle procedure più o meno stringenti, volte a chiarirne strutture, funzioni, potenzialità. È pressoché intuitivo, inoltre, che sia connaturato alla prima lo sforzo di ricomprendere le seconde; in altre parole, il progetto di una scienza universale dovrebbe essere in grado di ricondurre a unità le sue stesse ramificazioni. Eppure ad oggi è raro che con la parola ‘scienza’ non ci riferisca alle ‘scienze’ nate in età moderna, quelle cioè di impianto fisico-matematico, trascurando la portata epistemologica e la proposta olistica della prima accezione.
Nel Novecento, una delle ‘scienze’ che ha raccolto la sfida della ‘scienza’ perseguendo un’intenzione squisitamente teoretica e sposando quindi la più ampia delle definizioni sin qui proposte è la fenomenologia. Husserl, che la fondò come “scienza dei vissuti” e come metodo, non soltanto colse l’invito al confronto con il dualismo moderno, associandolo a una ferma opposizione al positivismo otto-novecentesco, ma lo orientò alla ricerca di quel sistema di «concetti fondamentali che sono patrimonio comune di ogni scienza»1. Le critiche del fondatore rivolte inizialmente allo psicologismo a lui contemporaneo, che faceva dipendere questo sistema dalle strutture mentali umane, erano dunque mosse dall’aspirazione a guadagnare l’unità delle ‘scienze’ per spingere la scienza fino al terreno ultimo dell’universale, cui una la logica fondata empiricamente non poteva pervenire. La critica di Husserl al modello logico-matematico moderno appare sin dagli inizi orientata, più che alla dissoluzione, alla rifondazione della scienza su un terreno non inficiato da un giudizio prematuro su cosa sia e cosa non sia scientifico, onde ricongiungere la «sconnessione tra i problemi matematici e quelli del mondo supposto reale»2 e realizzare quell’ideale di scienza, cifra e paradiso perduto della modernità stessa, in cui il metodo avrebbe dovuto costituire il «nesso fondante unitario»3 e il confine tra l’opinione e la conoscenza autenticamente rigorosa al di là dell’oggetto d’indagine.
L’ideale in questione, invece, nel suo esito otto-novecentesco identificava ancora le scienze con i loro oggetti, finendo per «non vedere nei fatti altro che i fatti e non le domande che ci impongono»4. Rispetto alle conquiste della scienza moderna, infatti, a seguito della crisi dei fondamenti matematici e della controversia sullo statuto della logica erano però prepotentemente emersi i limiti metodologici di una scienza ormai positiva, una scienza del come ma non del perché dei fatti. Alla fine dell’Ottocento il sapere umano si era insomma spinto davanti al mondo fino a restituirne un’immagine chiara, ma era rimasto il “fotografo” di un’esperienza neutra, senza sfumature e senza chiaroscuri, uno spettatore che non coglie il senso dello spettacolo che si dispiega dinanzi ai suoi occhi. Il famoso motto delle Ricerche logiche indica il Leitmotiv e l’obiettivo principale della fenomenologia: ritornare alle cose stesse significa volgersi a quel livello di esperienza in cui il mondo e i suoi enti non si dimostrano ma si mostrano, e coglierli con un metodo che sia letteralmente un cammino per risalire alle essenze.
In questo cammino, la ridefinizione del concetto di scienza si inserisce in un più ampio e complesso tentativo di ripensare il cuore stesso del reale. Quando Husserl stesso pone la fenomenologia sotto il segno della modernità, definendo la sua fenomenologia «un cartesianesimo del XX secolo»5, con ciò sceglie di ereditarne la problematizzazione radicale di cui Cartesio era stato maestro. A differenza del procedimento cartesiano, tuttavia, quello fenomenologico mira a «includere la coscienza nel sapere senza che la coscienza [debba] essere intesa come naturalizzata»6, cioè matematizzata. Il proposito della fenomenologia è coniugare l’esperienza pre-teoretica, quotidiana, con l’esercizio rigoroso della teoresi al fine di ricomprendere nella loro originaria unità il mondo naturale e la conoscenza possibile intorno a esso; in ciò è indispensabile non ridurre il punto di vista “privilegiato” della coscienza sul mondo a uno soltanto dei fattori che rendono complessa e insieme unica ogni esperienza.  Si vede così che, nel condividere con la modernità l’aspirazione alla mathesis universalis, la fenomenologia se ne distacca ritenendo che per risalire fino alle strutture gnoseologiche e ontologiche sottostanti ogni esperienza occorre anzitutto rifiutare l’imposizione dei fatti ‒ del positum ‒ e ripartire dalle evidenze antecedenti e pre-teoretiche assumendo un atteggiamento anti-riduzionistico. Il metodo fenomenologico mira inoltre comprendere «che cosa fa sì che una scienza sia scienza»7 e superare il dualismo che si riflette nella separazione tra scienze della natura e scienze dello spirito. Infine, lo stesso metodo deve condurre a «un certo nesso obiettivo o ideale che conferisce [ai nessi psicologici] un riferimento unitario all’oggetto e, in questa unitarietà, anche una validità ideale»8.
Il quid in questione non è tanto l’unità delle teorie e delle leggi scientifiche, quanto il nesso che consente agli atti conoscitivi di cogliere questa unità, e ciò a sua volta non tanto sul piano reale, cioè empirico-dimostrativo, quanto sul piano teoretico, ideale: non tutte le scienze sono empiriche, ma tutte si fondano sulla coerenza e su un «nesso fondante unitario»9 che ne guida le ricerche. Si tratta, in breve, di rifondare la logica restituendole il senso di dottrina della scienza cui spetta «non soltanto il compito di occuparsi dei metodi del sapere che si presentano nelle scienze, ma di quei metodi che si chiamano essi stessi scienze»10.
L’impostazione husserliana si colloca in continuità con quella cartesiana anche perché, e nella misura in cui, interpella il nucleo personale del filosofo, il quale si ritrova in una condizione di «assoluta povertà conoscitiva»11; tuttavia, il fenomenologo arretra sino a escludere le conoscenze preliminari fornite dalla logica e dalla matematica. Husserl, insomma, partito a un passo da Cartesio, ne prende le distanze tradendone in un certo senso il concetto di epoché: mentre in origine si intendeva con essa la sospensione dei pregiudizi, della dòxa, in termini husserliani passa a indicare una “messa tra parentesi” che riguarda anche le pre-conoscenze scientifiche.
Nel punto in cui si incontrano, i due filosofi immediatamente divergono e puntano a differenti obiettivi: se nel contesto moderno era indispensabile reperire delle conoscenze assolutamente certe che la sola matematica sembrava in grado di garantire, nel Novecento si fa impellente la necessità di risalire fino a un criterio in grado di orientare qualunque indagine, l’a priori perduto eppure atto a spiegare l’apparire dei contenuti d’esperienza. Senza un simile criterio, l’intuizione dell’oggetto non consisterebbe in nulla più che una mera «presupposizione di poter rendere evidente qualcosa e di poter ripetere l’evidenza alla quale si è pervenuti»12 ‒ un’esperienza, cioè, incapace di innalzarsi al livello della conoscenza scientifica. D’altro canto, Husserl si sente in parte reduce dal tentativo ‒ fallito ‒ di individuare la condizione d’esistenza di tali contenuti nell’ego, ed è con questa consapevolezza che volge l’indagine non a una condizione di esistenza del mondo quanto, piuttosto, alla «condizione di possibilità di una conoscenza obiettiva in generale»13. Il fondamento del reale non è né il soggetto né l’oggetto in sé, perché entrambi sono già inseriti nell’esperienza e nel dinamismo del mondo e in questo senso già fondati; una conoscenza che abbia rispetto all’uno e all’altro «il carattere di una sintesi in cui vi è una coincidenza concordante»14 va allora ricercata nell’evidenza antepredicativa, cioè già nell’“atteggiamento naturale” ‒ appunto, pre-teoretico.
Nell’epoché Husserl scorge molto più che l’origine di un percorso scevro da pregiudizi, giacché vi individua lo spiraglio per risalire all’unità originaria tra il senso oggettuale ‒ la possibilità degli oggetti di manifestarsi ‒ e il cogito vivente. Prima che ogni conoscenza specialistica dissezioni il mondo come se fosse estraneo a chi lo conosce, prima che la riflessione metta a nudo la soggettività isolandola in quel mondo dove in origine è dispersa, mondo e coscienza sono inseparati e «concordanti» anche se differenti, conformi pur nella loro eterogeneità. Si tratta di una precedenza logica e soprattutto ontologica dell’appartenenza sull’estraneità o, con il termine di Husserl, della relazione intenzionale, il terreno nel quale il cogito è rivolto all’altro da sé. L’intenzionalità è la

proprietà […] di essere “coscienza di qualche cosa […] uno “sguardo” che si irradia dall’io puro, si dirige verso l’“oggetto” di quello che di volta in volta è il correlato di coscienza […] e realizza i differenti modi in cui la coscienza può essere coscienza di questo oggetto15.

La ricerca autenticamente scientifica, secondo Husserl, si fonda sulla sintesi ‒ sull’incontro, si direbbe ‒ tra manifestazione e intuizione, nel continuum epistemologico lungo il quale la coscienza si riferisce agli oggetti a partire dall’intuizione e in cui, per converso, l’intuizione trova riempimento in un concordante apparire oggettuale. Il “cogito intenzionale”, questa “coscienza-di” che rappresenta «la più grande scoperta della fenomenologia, grazie alla riduzione»16 è definito proprio «dal fatto che una cosa, uno stato di cose, una generalità, un valore, o altre oggettualità si-manifestano-in-se-stesse […] nella modalità ultima […] dell’esser dato in un’intuizione immediata originaliter»17.
Dalla sintesi è poi possibile dirigersi verso un perfezionamento progressivo che può legittimamente aspirare all’oggettività scientifica: il messaggio è che rigorosa non è la conoscenza che perviene all’assoluto, ma quella che raccoglie in unità significanti i nessi dell’accadere basandosi non sulla misurabilità dell’oggetto, ma sui rapporti tra quelle che Husserl, con un prestito significativamente platonico, chiama idee o essenze. La “visione di essenze” ‒ ancora con un calco greco, l’ideazione ‒ rientra nel genere di conoscenza chiara, distinta e adeguata che caratterizza lo schema generativo della realtà e, insieme, della conoscenza. Ma rispetto alla concezione moderna del rapporto tra gnoseologia e ontologia c’è in Husserl la consapevolezza del limite intrinseco alla coscienza e con essa al progetto della mathesis universalis: non potendo recepire l’infinità di informazioni possibili offerte dall’ambiente, la coscienza umana opera un discernimento ab origine, imponendo un limite a ciò che può essere percepito in modo da coglierne il senso, parziale ma quanto meno definito. È in ragione di questi limiti intrinseci che «nella stragrande maggioranza dei casi, noi siamo privi di questa conoscenza assoluta della verità: in sua vece ci serve l’evidenza relativa alla maggiore o minore probabilità dello stato di cose»18. L’intuizione delle essenze indica la possibilità di cogliere le strutture invariabili del reale a fronte delle possibili variazioni empirico-percettive; in questo modo, Husserl arriva a dimostrare che i preziosi dati di fatto delle scienze positive potrebbero sì essere innegabili, ma non per questo assoluti. Lo statuto del positumretrocede alla sola contingenza perché «identificare le totalità del reale con la totalità dell’essere, e quindi assolutizzare il reale, è una assurdità. Una realtà assoluta vale quanto un quadrato rotondo»19.
Il fenomenologo è prima di tutto il filosofo consapevole dei limiti della conoscenza, la possibilità della quale va chiarita nel mondo, in quanto essa è precipuamente costante coscienza di qualcosa, non esperibile che nella sua dispersione. Messo tra parentesi il mondo, con Cartesio, e l’io psicologico, contra Cartesio, Husserl ritiene indispensabile analizzare l’Io trascendentale senza identificarvi il presupposto ontologico dell’universo dei fenomeni. L’ego, piuttosto, va inteso in quanto continuum di senso e validità «delle molteplici appercezioni come strutture che permangono nella forma di un’abitualità propria»20 e come sostrato che non fonda il reale, ma ne lascia apparire elementi “fatti e finiti”. Ciò che accade nel cogito non è la fondazione ontologica del mondo, ma la sintesi tra coscienza e mondoche consente di giungere anche alla scienza rigorosa. Per rifondare quest’ultima, allora, la fenomenologia intende descrivere gli atti intenzionali con cui la coscienza chiarisce a sé stessa il senso di ciò che esperisce: che il mondo esista o non esista, resta fermo che nella relazione intenzionale, nell’esperire un mondo prima che me stesso, «io mi colgo come “puro io” insieme alla pura vita di coscienza che mi è propria»21. Con queste parole, e collocandosi su un sentiero che pure è cartesiano, nelle Meditazioni del 1931 Husserl descrive il cogito del XX secolo, la soggettività trascendentale radicata nel mondo, un nucleo di esperienza dentro «un orizzonte di determinata indeterminabilità»22 la cui unica certezza è l’asintoticità della conoscenza.
La più radicale definizione di coscienza è infatti Bewußtseinsleben, “vita di coscienza”, perché è dall’utilizzo di questo termine che emerge la distanza siderale da Cartesio. La coscienza fenomenologica non è un’intuizione puntuale: «vita» inserita nel proprio mondo vuol dire esperire prima di tutto il mutamento, il flusso, l’inquietudine della generazione e della corruzione ‒ in breve, il tempo. La percezione, che è l’atto intenzionale per eccellenza, è essenzialmente impressione dell’“ora” che, nell’attimo del suo stesso manifestarsi, subito si svuota, per riemergere sotto un’altra forma temporale, nei ricordi.
Queste dinamiche costituiscono «le due più grandi scoperte della fenomenologia husserliana del tempo: la descrizione del fenomeno di ritenzione – e del suo simmetrico, la protensione –, e la distinzione tra ritenzione (o ricordo primario) e rimemorazione (o ricordo secondario)»23. Inserendo il cogito in un mondo dall’essenza temporale, Husserl può proseguire tanto nella descrizione della coscienza quanto nella definizione dell’evidenza scientifica. Da un lato, infatti, nella rimemorazione appare quell’ego originariamente presentantenell’atto di esperire gli oggetti ormai trascorsi, giacché nel ricordare «we have [the apodictic certainty] that an identical self presents itself in our reflections upon the past»24. Dall’altro lato, stabilito che soltanto i vissuti sono assolutamente evidenti, agli oggetti che trascendono la coscienza si può invece attribuire solo un maggiore o minor grado di evidenza.
La gradualità con cui i fenomeni si manifestano alla coscienza conferisce alla scienza il suo carattere di progressività asintotica, mai definitiva. Il progetto husserliano, allora, è prima di tutto un invito a ripensare i metodi scientifici ‒ «quei metodi che si chiamano essi stessi scienze»25, si citava in apertura ‒ mettendo in discussione l’evidenza dei loro oggetti di indagine, che servono certo a definire la “regione ontologica” di una disciplina ma non ne firmano il certificato di scientificità. Ciò, infatti, significherebbe perimetrare un mondo di per sé caleidoscopico fino a «delimitare come mondo obiettivo solo ciò che corrispond[e] alla precisione del metodo adottato, quello delle previsioni logico-matematiche»26.
Il concetto di mondo come intero temporale a priori, l’insopprimibile «senso insito nel parlare di mondo»27 grazie a cui la coscienza stessa è desta, è centrale al punto che i problemi fondamentali della fenomenologia non sorgono in fondo dalla soggettività, ma dall’urgenza di spiegare come e perché qualunque esperienza presupponga un trascorrere e ogni coscienza abiti un tempo e sia un nocciolo di tempo. Quel che sfuggì a Cartesio, in definitiva, pare allo Husserl del 1931, quando ormai la fenomenologia era più un manifesto che un programma, «la realtà della natura, la realtà del cielo e della terra dell’uomo e degli animali, dell’io proprio e di quello altrui»28; un’immensità di fronte alla quale la pura cogitatio non è che un punto di vista. Ciononostante, come mostrano le numerose aporie irrisolte, neanche la fenomenologia supera del tutto il punto di vista immanente: mentre per un verso è sempre più necessario, nel progetto di Husserl, riconoscere un’attività anche agli enti mondani, alla materia sensibile ‒ ὕλη ‒ perché in essa “vive” qualcosa che richiama l’intenzionalità dell’ego, per altro verso egli fatica a concettualizzare la duplice direzionalità della relazione intenzionale.
Il chiarimento fenomenologico dell’esperienza, da questo punto di vista, più che una reale conquista, è un tentativo ispirato da una fiducia nella trasparenza della coscienza che probabilmente fa della fenomenologia l’ultimo baluardo della modernità. Pur entrando finalmente in relazione con ogni aspetto del reale, la coscienza fenomenologica non cessa di costituire il centro isotropo e il nucleo semantico del mondo.
Uno stacco dalla modernità si individua più in là, nella natura temporale che accomuna e congiunge la coscienza, il mondo e il senso che nasce dal loro intreccio e che segnala come il primato ontologico non venga in definitiva assegnato all’Io quanto piuttosto all’intero e a «ogni sentire, rappresentare, percepire, ricordarsi, aspettare, ogni giudicare, dedurre, ogni sentire emotivamente, desiderare, volere»29. L’io puro, infatti, non è il soggetto da cui Cartesio deduceva l’intero, ma l’attività che di quell’intero si riconosce parte e che perciò non lo riduce a sé. La prima consapevolezza dell’io non è la propria esistenza, ma il radicamento in una totalità di componenti interrelate che lo richiama non solo e non tanto a formulare giudizi scientifici: l’attività congenita all’Io è desiderare, ricordare, sperare, «in modo tale da essere, rispetto a tali componenti, interdipendente in modo continuo e unitario»30, esperendo in quest’unità

modi di vivere, modi di sentire lo spazio che ci circonda, e il tempo, nella nostra presenza, nei nostri ricordi, nelle nostre attese e […] le caratteristiche del nostro rapporto con gli altri, la possibilità o l’impossibilità, la realtà e l’irrealtà, la necessità e la contingenza di tale rapporto31.

Essenza dell’esperienza e scopo della scienza autentica è porre e indicare una trascendenza32, una differenza tra il percipiente e il percepito: se fossero la stessa cosa, non ci sarebbe possibilità di conoscenza, ma solo tautologia oppure contraddizione, insomma niente di sensato. La verità cui puntare per fondare la scienza non risiede né solo nel mondo né solo nell’Io, ma è il manifestarsi dell’Io e del mondo in un unico flusso la cui struttura insieme muta e permane e che è, in definitiva, l’orizzonte di unità e possibilità per ogni realtà esperibile, compresa quella della soggettività che sente il mondo come evidenza e vive il tempo come la più immediata di tali evidenze.

 

Note
1 E. Husserl, Logica, psicologia e fenomenologia. Gli «oggetti intenzionali» e altri scritti, a cura di S. Besoli e V. De Palma, Il Melangolo, Genova 1999, p. 173.
2 U. Ugazio, (Prefazione a) A. Altobrando, Husserl e il problema della monade, Trauben, Torino 2010, p. 9.
3 E. Husserl, Ricerche logiche [Logische Untersuchungen, 1900-1901], a cura di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 2015, Prolegomeni, § 10, p. 35.
4 R. De Monticelli, Il dono dei vincoli. Per leggere Husserl, Garzanti, Milano 2018, p. 44.
5 E. Husserl, Meditazioni cartesiane e Lezioni parigine [Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, 1931, in E. Husserl, Husserliana, Band I, herausgegeben von S. Strasser, pp. 1-183, Martinus Nijhoff, Den Haag 1950], trad. di A. Canzonieri, intr. di V. Costa, ELS La Scuola, Brescia 2017, p. 33.
6 U. Ugazio, (Prefazione a) A. Altobrando, Husserl e il problema della monade, cit., p. 8.
7 E. Husserl, Ricerche logiche, cit., Prolegomeni, § 62, p. 177.
8 Ibidem.
9 Ivi, Prolegomeni, § 10, p. 35.
10 Ivi, Prolegomeni, § 10, p. 36, corsivo aggiunto.
11 Id., Meditazioni cartesiane e Lezioni parigine, cit., § 1, p. 74.
12 Ivi, § 27, p. 134.
13 Id., Ricerche logiche, cit., Introduzione alla II Ricerca, p. 286.
14 Id., Meditazioni cartesiane e Lezioni parigine, cit., § 4, p. 82.
15 Id., Ricerche logiche, cit., § 84, pp. 209-210.
16 P. Ricœur, «Dell’interpretazione», in Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica [Du texte à l’action. Essais d’herméneutique II, 1986], Jaca Book, Milano 2016, p. 25.
17 E. Husserl, Meditazioni cartesiane e Lezioni parigine, cit., § 24, p. 132.
18 Id., Ricerche logiche, cit., Prolegomeni, § 5, p. 27.
19 Id., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro I: Introduzione generale alla fenomenologia pura [Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. I: Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, 1913], trad. di V. Costa, intr. di E. Franzini, Einaudi, Torino 2002, § 55, p. 140.
20 Id., Meditazioni cartesiane e Lezioni parigine, cit., § 38, p. 154.
21 Ivi, § 8, p. 92.
22 Ivi, § 13, p. 102.
23 P. Ricœur, Tempo e racconto. Volume terzo, Il tempo raccontato [Temp et récit III. Le temps raconté, 1985], Jaca Book, Milano 1999, p. 42.
24 Cfr. D. Chaffin, «Edmund Husserl, The Apodicticity of Recollection», in Husserl Studies, n. 2/1985, p. 4.
25 E. Husserl, Ricerche logiche, cit., Prolegomeni, § 10, p. 36, corsivo aggiunto.
26 U. Ugazio, (Prefazione a) A. Altobrando, Husserl e il problema della monade, cit., p. 9.
27 E. Husserl, I problemi fondamentali della fenomenologia. Lezioni sul concetto naturale di mondo (1910-1911) [Aus den Vorlesungen Grundprobleme der Phänomenologie. Wintersemester 1910-11], trad. e pref. V. Costa, Quodlibet, Macerata 2014, § 10, p. 27.
28 Id., Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo (1893-1917) [Zur Phänomenologie des Inneren Zeitbewusstseins, 1893-1917, 1966], trad. di A. Marini, Franco Angeli, Milano 2014, Nr. 51, «Il problema del tempo nella considerazione fenomenologica fondamentale», p. 329.
29 Id., I problemi fondamentali della fenomenologia. Lezioni sul concetto naturale di mondo (1910-1911), cit., § 15, p. 39.
30 Id., Ricerche logiche, cit., V Ricerca, § 6, p. 477.
31 E. Paci, Prefazione a Minkowski, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia [Le temps vécu. Études phénoménologiques et psychopathologiques, 1968], trad. di G. Terzian, a cura di A.M. Farcito, Einaudi, Torino 2004, p. XXXII.
32 Per la formulazione del problema della trascendenza cfr. E. Husserl., Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo (1893-1917), cit., p. 337, in cui questo Husserl osserva che «il problema di come la coscienza conoscente, nel suo flusso di atti conoscitivi variamente conformati e intrecciati tra loro, può trascendere se stessa e porre e determinare validamente un’oggettualità che non è possibile rintracciare in senso effettivo in nessuna parte costitutiva di essa, che in essa non giunge mai e in nessuna parte a una datità originale assolutamente indubitabile, mentre tuttavia, secondo il senso della conoscenza naturale dovrebbe esistere in sé, sia che per caso venga conosciuta, sia che no».

 

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