Escatologia ed ethos di Gesù

Di: Enrico Moncado
1 Aprile 2023

 

Giancarlo Gaeta
Il tempo della fine. Prossimità e distanza della figura di Gesù
Quodlibet, Macerata 2020
Pagine 128
€ 14,00

L’escatologia, alla radice del suo costituirsi, non è una dottrina teologica che concerne la vita eterna, l’aldilà, il destino dei morti, e altri dogmi che fondano ciò che il cristianesimo, nella sua molteplicità di indirizzi, è divenuto facendosi soltanto istituzione mondana e governo politico. L’escatologia, al contrario, esprime un nesso vitale e storico. Nesso che matura al cuore del singolo e insieme della comunità umana, producendo una forma di vita che trova la sua peculiare prassi abitante in una vocazione assoluta, la quale si confronta costantemente rispetto a ciò che si può definire la totalità del soggetto, del mondo, del tempo e, infine, della storia. Se questa può essere considerata come una comprensione plausibile delle radici dell’escatologia cristiana, tuttavia è necessario andare davvero all’origine del cristianesimo per cogliere la sua emotività escatologica. Per fare ciò è necessario rivolgersi a Gesù e al suo esserci abitante che ha istituito e incarnato, in tutto e per tutto, la difficoltà dell’escatologia.
Con grande finezza ermeneutica, Giancarlo Gaeta ne Il tempo della fine si è posto questo arduo compito di ritornarea Gesù secondo ‘prossimità’ e ‘distanza’. Espressioni, queste ultime, che, all’interno del testo, fungono da dispositivi ermeneutici attraverso i quali far emergere la prossimità e la distanza della figura di Gesù non soltanto rispetto al nostro tempo, ma anche rispetto al suo tempo, secondo la forma di vita abitante – la vocazione escatologica – che lo ha mosso nel profondo.
Chi è, dunque, Gesù nella sua storicità vivente? E in quali termini egli istituisce e incarna la difficoltà dell’escatologia? Per rispondere a queste domande, Gaeta, da un punto di vista metodologico, ricorre soltanto ai Vangeli canonici (Marco, Matteo, Luca e Giovanni), i quali non si pongono come obiettivo primario quello «di documentare storicamente i fatti principali relativi alla vita di Gesù né di fornire una coerente spiegazione teologica, […] bensì quello di rimettere in scena il dramma che la sua irruzione storica aveva determinato nell’esistenza di quanti vi furono coinvolti» (46). Se al cuore dei Vangeli vi è il bisogno originario di dare testimonianza dell’irruzione di Gesù – in quanto soggetto escatologico – nella vita dei credenti e insieme della comunità, è chiaro che per recuperare questo dramma vitale è necessario procedere al di là non solo della folta cortina di mascheramenti teologici che coprono questi testi, ma anche della necessità stessa degli evangelisti di dare un seguito alla figura di Gesù dopo la sua dipartita. Si delinea in tal modo l’intento originale di Gaeta di «liberare per quanto possibile l’autocoscienza escatologica di Gesù dalle riconsiderazioni e accomodamenti successivi» (34).
Gesù, infatti, è una figura estremamente radicale, un dispositivo vivente che, in funzione della sua parola istituente e insieme destituente, giudica e destabilizza l’ordine concreto, istituzionale e politico del tempo. È questo, ad esempio, il quadro che ci viene presentato dal Vangelo di Marco (3, 21), nel quale emergono le conseguenze concrete della vocazione escatologica: il rifiuto, la vergogna, la denigrazione perpetrate non soltanto dalla cerchia ristretta della famiglia ma anche da parte delle autorità religiose, vale a dire i rabbini dei farisei. Questo accade perché Gesù pone in crisi i fondamenti della società del suo tempo, usi e costumi quali sono soprattutto i legami familiari o le pratiche di seppellimento dei morti (Matteo 8, 22; Luca 9, 60), così collocandosi in «una dimensione sociale anomala, che ne faceva uno sradicato indegno di reputazione, ma socialmente e religiosamente pericoloso» (16). La vocazione escatologica, basata su una «concezione radicale della salvezza» (23), non può dunque che fare di Gesù un soggetto escatologico segnato da «una volontà di assoluto perseguita fino in fondo con totale determinazione, tale da imporre a chi non è disposto a sottomettervisi acriticamente un difficile discernimento, e un faticoso decidersi in relazione ad essa e al suo rapporto con il mondo» (27).
Il soggetto escatologico, costituendosi in forza della sua stessa volontà e del bisogno di trascendenza che lo anima, non è appunto un soggetto disincarnato e distaccato dal mondo. Al contrario, proprio perché la vocazione escatologica comporta una comprensione profonda del mondo, il risvolto di questa comprensione è un ethos abitante del contrasto, della lotta, della non pacificazione del proprio Sé con la mondanità, giacché il mondo o più esattamente il tempo del mondo in quanto tempo della storia, in funzione dell’annuncio escatologico, volge al termine. Più radicalmente, l’annuncio escatologico istituisce la finitudine del tempo, così destabilizzando ogni forma di concrezione mondana – le istituzioni, ad esempio – che al tempo vuole opporre resistenza.
Mondo e tempo, come si diceva sopra, sono dunque gli altri due poli di contrasto rispetto ai quali il soggetto escatologico si costituisce. Gesù incarna questa concretezza escatologica nella fatticità della sua persona storica, giacché ciò che «Gesù sembra chiedere è un movimento di fuoriuscita dalla mondanità considerata ormai per quello che è, l’opposto del Regno di Dio. Si tratta in definitiva di una decisione per la vita, e contro la morte», sicché, continua Gaeta, «il radicalismo escatologico di Gesù ha a che fare con questa decisione, ne è l’espressione esterna in parole e in gesti dirompenti difficili da capire, ancora più da accettare e infine destinati a rivolgerglisi contro» (34). Quando, infatti, è l’ordine mondano-istituzionale del proprio tempo che viene messo in crisi, la risposta al gesto messianico-escatologico o, più in generale, al gesto di ribellione, va da sé, è l’uccisione: la disattivazione violenta della fede escatologica, la cui colpa consiste nel disvelare il presente, il mondo presente, come posto sotto l’egida di un potere politico-mondano iniquo.
Questa radicalità di Gesù, che è diretta espressione di una fede indisponibile a ogni sorta di compromesso con il mondo o di accondiscendenza a una «concezione storico-salvifica buona a tutti gli usi» (44), ha subito un processo di disattivazione già a partire dalla traduzione che gli evangelisti hanno compiuto della figura di Gesù. Nei Vangeli, infatti, emerge chiaramente la difficoltà di armonizzare l’irruzione escatologica della parola di Gesù mediante una sua restituzione più accomodante, o si potrebbe dire, addirittura, più sobria, più gentile. Accodamento che ha visto il suo compimento nella teologia, nella cristologia, e soprattutto nella prassi mondana della Chiesa la quale ha dismesso, lungo la sua storia millenaria, il fondamento escatologico della vocazione del Messia, mostrandone la sua ‘primitività’ e facendone, dunque, una forma dimidiata di critica sociale.
Già Overbeck, nel suo Über die Christlichkeit unserer heutigen Theologie del 1873, aveva avvertito come la teologia si sia prodotta in guisa di un tentativo sistematico di coprire e di nascondere la dimensione messianico-escatologica della parola di Gesù. Più tardi, Schweitzer, come ricorda Gaeta, porrà alla teologia del suo tempo un «netto aut-aut: o l’escatologia o la sua negazione, perché Gesù non può aver pensato sia escatologicamente che non escatologicamente» (30-31). Più radicalmente, «se il mondo ideale messianico-escatologico non avesse penetrato dall’inizio alla fine la sua vita, agli occhi di Schweitzer la vicenda di Gesù non avrebbe senso e i racconti evangelici altro non sarebbero che assemblaggi incoerenti di materiali prodotti dalle comunità cristiane» (67).
Pertanto si fa davvero fatica, quando si va al là di ogni schermatura teologica mediante un contatto diretto con i testi, a coprire l’Einbruch, lo sfondamento escatologico che la presenza carismatica di Gesù genera e che trova diretta espressione in affermazioni – per citare quelle riportate da Gaeta – quali: «Chi è mia madre e i miei fratelli!» (Matteo12, 46-50); «Seguimi! E lascia i morti seppellire i loro morti» (Matteo 8, 22; Luca 9, 60); «Credete che io sia venuto a mettere pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione» (Luca 12, 52); «Ho desiderato di un desiderio grande mangiare questa Pasqua con voi prima del mio patire; perché vi dico che non la mangerò più finché non sia compiuta nel regno di Dio» (Luca 22, 15-16); «Il tempo è compiuto ed è vicino il regno di Dio: convertitevi e credete nell’evangelo» (Marco1, 14-15). Assumendo la vocazione escatologica quale principio guida di comprensione dell’esserci di Gesù, i Vangeli richiedono all’esegeta lo sforzo autentico, dunque, di penetrare in ciò che di effettivo concerne il suo ethos abitante, che è un ethos di giudizio e di contrasto con il mondo, con il tempo e con la storia.
Il tempo è il terzo nodo che definisce l’ethos abitante della vocazione escatologica e che ne determina la sua comprensione della storia. Nel settimo e ultimo capitolo, il cui titolo, richiamando il titolo generale dell’opera, è Il tempo della fine, Gaeta pone in luce come la concezione messianico-escatologica del tempo sia segnata dalla puntualità. L’escatologia di Gesù, e soprattutto la rielaborazione che Paolo ne ha offerto, restituisce una visione concentrata del tempo e della storia che si esprime nella ricapitolazione del tempo e della storia in funzione dell’annuncio del Regno. Annuncio che non rimanda la venuta del Regno a un giorno indeterminato, ma al contrario istituisce il finire della storia e del tempo del mondo nell’ora, nel καιρός escatologico che smaschera l’insensatezza dell’ordine mondano nel compimento che avviene nel giorno del giudizio. Sulla base di Marco deduce Gaeta che «tale giorno non è, come nell’apocalittica giudaica, un immaginifico evento futuro, ma una realtà che è già oggetto di esperienza, un evento attuale in cui è ricapitolata la totalità della storia. Tale è l’effetto dell’evento messianico annunciato da Gesù, in conformità con l’attesa escatologica giudaica, ma con la differenza decisiva che non più di attesa si tratta» (90).
Per dirla con Benjamin, l’annuncio escatologico di Gesù fa saltare il continuum della storia, la quale, secondo la sua triplice scansione temporale (passato, presente e futuro), assume un ‘senso’ soltanto nell’ora, nell’adesso del compimento in cui il tempo-storia volge al termine. Questa concezione del tempo puntuale sta chiaramente alla base dell’ethos abitante non solo di Gesù ma in generale del cristiano, e non può essere altrimenti. Giacché se all’ordine puntuale del tempo si sostituisce quello lineare – erroneamente attribuito al cristianesimo tout court –, è chiaro che i fatti del mondo assumono un significato, un senso che va a mondanizzare l’escatologia, rendendola parte del processo storico, sul quale, in realtà, l’annuncio messianico-escatologico pone una cesura che porta il marchio dell’eschaton. In questi termini, secondo Gaeta, è del tutto errato nonché mistificatorio parlare di una ‘storia della salvezza’, la quale, piuttosto, si configura come «il tentativo riuscito del cristianesimo, oramai assurto a religione autonoma, di collocarsi nel mondo con una propria visione della storia» (93). Al contrario,

la visione abbreviata della storia, il suo concentrarsi nel momento attuale, impedisce ogni fuga in avanti o all’indietro, toglie ogni giustificazione ai comportamenti che facciano ricorso al passato o al futuro. Una volta tolta l’illusione della linearità temporale, ci si può muovere solo nel senso della profondità, andando dunque alla radice delle cose, e perciò demistificando il gioco delle apparenze su cui si fonda ogni potere mondano (95).

Per il cristiano si tratta, come è chiaro, di non venire a patti con il potere; si tratta di riconoscere, parafrasando Paolo, che la scena del mondo, con le sue magie, i suoi potenti, le sue leggi, è destinata al termine. Non perché, come ogni processo, ha un inizio e una fine, ma perché, alla radice, la scena del mondo è marcata dalla finitudine, dal sigillo della morte, che il cristiano vuole – perché deve – vincere mediante il trascendimento del mondo, in quanto la sua dimora originaria non è qui ma è al di là.
Questo discorso assume ancora più senso se lo si applica alla Chiesa che, dopo e oltre Gesù, si è costituita secondo la sua missione nel tempo intermedio. Usando le parole di Simone Weil, è «come se con il tempo si fosse finito col considerare non più Gesù, ma la chiesa come Dio incarnato quaggiù» (cit. da Gaeta, 57). Esito da attribuire al fatto che la Chiesa non soltanto ha perduto la sua origine in Gesù, e dunque nell’escatologia, ma ha anche fatto della sua missione nel mondo un progetto politico-istituzionale da aggiornare secondo le necessità e i bisogni del proprio tempo, così dismettendo la radice polemica che la spiritualità, la vocazione escatologica comporta – come a voler catturare le anime dei fedeli non in funzione dell’annuncio escatologico-evangelico, ma attraverso una maggiore volontà di radicamento nel mondo che è appunto solo mondano e non spirituale. Volontà che dimostra, nei fatti, quanto ormai la Chiesa sia superata nella sua forma istituzionale. Ed è anche per questo che Gaeta, attraverso le parole del gesuita francese Michel de Certeau – al quale è dedicata l’Appendice conclusiva del testo –, nota che «se dunque la Chiesa è superata da quello che accade al di fuori, sta ai semplici credenti, nei luoghi e nelle condizioni del loro vivere, ristabilire il nesso tra il modello evangelico e il fare della fede» (115).
Tuttavia, conseguenza di questo discorso non è il dover negare al mondo il suo statuto, né, tanto meno, il cristiano deve esimersi dall’avere a che fare con il mondo, ma al contrario, come sostiene Gaeta in un passaggio del testo ispirato al Frammento teologico-politico di Benjamin, si deve riconoscere che

l’ordine del profano e l’ordine del messianico sono […] inscindibilmente connessi, ma altresì diversamente orientati: l’uno alla felicità, l’altro alla compassione. Non si tratta allora di passare dall’uno all’altro, come dall’inferiore al superiore, né, tanto meno, di imporre l’uno all’altro. La coscienza messianica è disincanto, che toglie ogni carattere magico all’azione. Non si tratta di salvare il mondo infilandolo nella camicia dello spirito, bensì di vederlo così come esso è, nel suo trapassare insensato ma altresì nella sua autonomia. Non si tratta di elevarsi al cielo o di affondare nell’interiorità, ma di sfamare gli affamati; e allora il Regno è presente, come un di più che un tutto. È infatti questa l’azione grazie alla quale, come è continuamente mostrato nei Vangeli, s’infrange la compattezza opaca del mondo, il suo cieco voler essere; ed appare, spezzati i vincoli sociali, l’essenziale solitudine di ciascuno, il grido di bene e lo stupore per il dono inaspettato (96).

Dopo questa ricognizione del testo di Gaeta, vorrei soffermarmi brevemente sull’espressione ‘ethos abitante’, che non viene usata dall’autore ma che più volte ho adoperato per pensare la figura di Gesù.
Mi pare infatti che dalla vicenda di Gesù non si debba trarre tanto un’etica, quanto un ethos, vale a dire una forma di vita vocata che sappia abitare il mondo, il tempo e la storia attraverso una profonda autocoscienza escatologica. Se appunto l’escatologia viene considerata non come una dottrina ma come una motilità della vita che, affondando nel mondo, si rende capace di innalzarsi sul mondo, si capisce allora che l’ethos abitante consiste in questa profonda capacità di pervenire a una prassi del proprio Sé sulla base di una vocazione giudicante, destituente, destrutturante che non conosce limiti, barriere, leggi. Sapere che la motilità escatologica della vita scaturisce sempre dall’adesso, inteso come il tempo della conoscibilità e insieme della dicibilità, nel quale le trame del passato si annodato per meglio dipanarsi nel futuro che già accade, significa saper stare sulla soglia del presente non in quanto eterno presente ma come tempo in cui la configurazione dell’oggi va contrastata e destituita in funzione della ricapitolazione del tempo. Sapere, inoltre, che la propria dimora è fatta di storia e che parimenti è alla storia che questa dimora deve resistere, significa sapere di quel taglio che divide e insieme pone i due poli mediante i quali l’unità del Sé non può che prodursi mediante il conflitto, la divisione, la frattura.
In conclusione, l’ethos abitante che è possibile distillare dalla figura storica di Gesù è un ethos di appartenenza in quanto disappartenza, di attivazione in quanto disattivazione, di prassi in quanto revoca della prassi che il mondo, il tempo e la storia impongono. Per tali ragioni, si tratta di un ethos che si dà, alla radice del nostro abitare, secondo prossimità e distanza. E allora, se questa lettura ha un minimo di legittimità, oggi, soprattutto oggi è necessario riscoprire il senso vivo e storico dell’escatologia di Gesù, per recupere questo ethos abitante, il quale affonda in qualcosa di intangibile, di incontrollabile e pertanto di irrevocabile.

 

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