Arte e scienza barocche

Di: Alberto Giovanni Biuso
1 Aprile 2023

 

Arte, scienza, libertà

Un dramma è la costante tendenza dei corpi collettivi a imporre una ortodossia e una ortoprassi volte a comprimere, reprimere, controllare, sopire e troncare, troncare e sopire quanto la fantasia, l’intelligenza e la libertà costantemente generano dentro le collettività umane. La fantasia, l’intelligenza e la libertà che dentro tali collettività gli individui più dotati di talento sanno esprimere, inventare, difendere, generare, diffondere. La tendenza securitaria dei gruppi umani è invece quella di chiudersi dentro un recinto ben organizzato di verità e di valori che giudica inevitabilmente pericolosa ogni prospettiva che non si confà ai valori praticati e alle verità credute da gruppi, partiti, chiese e regimi di volta in volta diversi ma costanti nella loro tendenza a catturare e distruggere il pensare.
Michelangelo Merisi, detto Caravaggio (1571-1610) e Giordano Bruno (1548-1600) furono due vittime di questa tendenza. Un recente film dedicato a Caravaggio li fa incontrare in carcere.
L’arte di Merisi e il suo talento furono così grandi da convincere parte del potere – in questo caso quello di famiglie e cardinali della Chiesa Romana – a proteggerlo e a finanziarne l’opera. Il fasto, lo scetticismo e il libertinismo di molti esponenti di tale Chiesa garantivano il lavoro degli artisti e la sopravvivenza delle loro opere. Peggio accadde in ambito protestante e luterano dove, almeno agli inizi, non era neppure possibile che sorgessero artisti e filosofi affrancati dai valori e dalle verità bibliche alle quali si ispiravano il monaco agostiniano Lutero e il gelido teologo Calvino.


Giordano Bruno

«Per amor della mia tanto amata madre filosofia e per zelo della lesa maestà di quella»1 agisce la passione ‘eroica’ di Bruno a favore di un sapere non più in mano a pedanti ripetitori del già detto ma volto a una scienza capace di mostrare la radice unitaria degli opposti. E per conseguire questo obiettivo Bruno applica la tonalità mistica agli oggetti naturali, in primo luogo al sapere stesso, che costituisce il fine e il senso del furore eroico. Ciò a cui Bruno mira è una forma d’essere nella quale si possa diventare «megliori, in fatto, che uomini ordinario», sino a porsi all’altezza del divino, dimensione nella quale il sapiente «niente teme, e per amor della divinitade spreggia gli altri piaceri, e non fa pensiero alcuno della vita»2,, come il filosofo confermò con la sua tragica fine.
In Bruno vive un profondo distacco, una liberazione non per rinuncia ma per oltrepassamento, nella convinzione che il male e il bene, i piaceri e le pene, il già e il non ancora, siano mutevole manifestazione di una struttura dell’essere della quale l’umano è parte consapevole ma analoga a ogni altra. L’unità dell’essere è la sua stessa molteplicità, è la ricchezza incomparabile di una Identità che in ogni istante è la propria Differenza.
Se una è «la omniforme sustanza, uno essere il vero ed ente, che secondo innumerabili circostanze e individui appare, mostrandosi in tanti e sì diversi suppositi», l’unità e identità si coniugano con la molteplicità e la differenza: «Quel che si vede di differenza negli corpi, quanto alle formazioni, complessioni, figure, colori e altre proprietadi e comunitadi, non è altro che un diverso volto di medesima sustanza; volto labile, mobile, corrottibile di uno immobile, perseverante ed eterno essere»3.
Il panteismo si coniuga a un profondo immanentismo poiché tutto è materia e la materia è tutto. Noi vediamo infatti «che tutte le forme naturali cessano dalla materia e novamente vegnono dalla materia; onde par realmente nessuna cosa esser costante, ferma, eterna e degna di aver esistimazione di principio, eccetto che la materia»4. La continuità delle strutture materiali è intrinseca alla estrema varietà delle loro forme; la molteplicità degli enti si fonda sul loro esser tutti enti naturali ed espressione dell’energia che genera incessantemente la differenza.
All’essere è intrinseca la forma temporale, la struttura diveniente, la differenza inseparabile dall’identità, la molteplicità coniugata all’unità, la permanenza degli enti nell’incessante trasformazione che li rende esistenti e vivi. Se l’universo in quanto tale è uno, infinito, immobile ed eterno, le sue modalità d’essere sono molteplici e temporali. Non ci si muta in altro essere – perché nulla si crea dal nulla – ma si diviene in altri modi di essere, una dinamica fondata sulla differenza ontologica tra l’essere e gli enti:

E questa è la differenza tra l’universo e le cose de l’universo; perché quello comprende tutto lo essere e tutti i modi di essere: di queste ciascuna ha tutto l’essere, ma non tutti i modi di essere […]. Però intendete tutto essere in tutto, ma non totalmente e omnimodamente in ciascuno. Però intendete come ogni cosa è una, ma non unimodamente5. 

Bruno sostiene dunque che tutti gli enti sono nell’universo e l’universo è in tutti gli enti. La struttura unitaria dell’essere è una struttura di differenze. Il nucleo logico e ontologico di tale differenza è il Tempo.
Rispetto all’infinità spaziale e temporale, ogni misura parziale non può che essere identica a tutte le altre: «Alla proporzione, similitudine, unione e identità de l’infinito, non più ti accosti con essere uomo che formica, una stella che un uomo; perché a quello essere non più ti avicini con esser sole, luna, che un uomo o una formica; e però nell’infinito queste cose sono indifferenti»6. Anche tale struttura logico-ontologica conferma dunque la molteplice unità di tutte le cose tra di loro.

L’universo è la potenza stessa, è – in termini contemporanei – energia che si dispiega in una varietà lussureggiante di forme, espressioni, leggi, forze. Un universo animato da trasformazioni incessanti all’interno di una forma che non muta. Intessuta di principi, cause e tempo, la materia è viva, animata, sacra. Come ogni altro ente, l’umano partecipa di tale vita e di questa sacralità. Diventarne consapevoli è condizione per non temere più di tanto la fine del composto che si è, in quanto 

si mostra chiaro che ne le cose naturali quanto chiamano sostanza, oltre la materia, tutto è purissimo accidente; e che da la cognizione de la vera forma s’inferisce la vera notizia di quel che sia vita e di quel che sia morte; e, spento a fatto il terror vano e puerile di questa, si conosce una parte de la felicità che apporta la nostra contemplazione, secondo i fondamenti de la nostra filosofia: atteso che lei toglie il fosco velo del pazzo sentimento circa l’Orco ed avaro Caronte, onde il più dolce della nostra vita ne si rape ed avelena7.

L’umano è parte di un cosmo molteplice e insieme unitario. Ponendosi al di là del tradizionale dualismo – aristotelico ma non solo – tra mondo lunare e mondo sublunare, l’indagine si può aprire a dimensioni inaudite e sconosciute, la cui infinità fa sì che in qualunque punto e luogo ci si trovi dell’universo, esso dà sempre l’impressione di costituire il centro dell’intero. Tra gli innumerevoli soli, terre, astri, non esiste vuoto e vi sono 

innumerabili ed infiniti globi, come vi è questo in cui vivemo e vegetamo noi. Cotal spacio lo diciamo infinito, perché non è raggione, convenienza, possibilità, senso o natura che debba finirlo: in esso sono infiniti mondi simili a questo, e non differenti in geno da questo; perché non è raggione né difetto di facultà naturale, dico tanta potenza passiva quanto attiva, per la quale, come in questo spacio circa noi ne sono, medesimamente non ne sieno in tutto l’altro spacio che di natura non è differente ed altro da questo8.

La materia è perfetta e dunque necessaria; il determinismo è semplicemente la presa d’atto che la materia coincide con le sue stesse leggi, immutabili ed enigmatiche, delle quali l’umano è parte. Di queste leggi è struttura fondamentale il tempo, vale a dire la potenza stessa del divenire che genera, dissolve e rigenera. Il corpo umano è anch’esso corpotempo. È infatti evidente «che giovani non abbiamo la medesima carne che avevamo fanciulli, e vecchi non abbiamo quella medesima che quando eravamo giovani; perché siamo in continua trasmutazione»9.
Nella barocca e mistica gioia della conoscenza abita la luce che la filosofia offre a chi la coltiva. Luce che invade chi la ama e che produce inevitabilmente odio in chi non ne comprende natura, fondamenti, scopi.
Figlio della filosofia e della sua libertà, Giordano Bruno così rispose ai giudici del Tribunale dell’Inquisizione cattolica che l’8 febbraio 1600 lo condannarono a essere bruciato vivo: «Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam; ‘Avete forse più paura voi a pronunciare contro di me questa sentenza che io a riceverla’».

 

Bruno a teatro

Uno spettacolo andato in scena al Piccolo Teatro di Milano assume di Bruno questa prospettiva, questo coraggio. La prospettiva è infatti l’infinità del tempo, dello spazio e della materia. E dunque l’infinità degli enti, degli eventi e dei processi. Il coraggio è l’elemento più proprio di un tentativo di tradurre il pensiero in gesti. L’autore e regista Filippo Ferraresi cerca infatti di far recitare gli oggetti, far recitare i concetti. Lo fa attraverso fili che si tendono, sfere e cerchi che danzano, maschere apotropaiche, luci generate dai moti, e mediante i movimenti atletici e di danza di Jérémy Juan Willi, che veramente sembra volteggiare nell’aria, muoversi con la leggerezza di un uccello, comporre geroglifici con il corpo.
De infinito universo, questo il titolo dello spettacolo, ha una struttura triadica. Inizia con una lezione di astrofisica chiara e coinvolgente, durante la quale a poco a poco emerge la smisurata misura della materia cosmica e l’essere nulla della Terra in essa. Appare poi un pastore che sente, pensa e recita il Canto notturno di Leopardi, dall’iniziale interrogativo: «Che fai tu, luna, in ciel? dimmi che fai / Silenziosa luna?», transitando per il nascere dell’uomo a fatica, «ed è rischio di morte il nascimento», attraversando la «stanza smisurata e superba» dell’universo, sino al conclusivo ed esatto «è funesto a chi nasce il dì natale». Si chiude con un’attrice che canta note gelide e antiche, trasformandosi poi nella collaboratrice di un potente personaggio politico, l’attuale e infausta presidente della Commissione Europea, Ursula Gertrud von der Leyen alla quale chiede se ci si possa accontentare dei bilanci finanziari trimestrali e della crescita o meno del PIL o se si debba cercare un significato diverso al nostro stare al mondo. Alla signora che dirige assai male il governo dell’UE vengono rivolte altre critiche che mi ha sorpreso ascoltare in uno spettacolo messo in scena in uno dei luoghi più istituzionali di Milano.
I tre monologhi sono intersecati dai movimenti atletici del danzatore e da un insieme bello e necessario di luci che fendono lo spazio, che sorgono dalla terra, che indicano e insieme si dissolvono, esattamente come fa ogni luce nel mondo.
Nella lezione dell’astrofisico, nell’interrogare di Leopardi, nella lettera ai potenti, si percepisce tutta la forza della materia e del tempo, dell’entropia e della dissoluzione. Un «teatro transdisciplinare», come lo definisce l’autore/regista, fatto di testo, immagini, energia dei corpi.
Al centro e ovunque l’infinito della materia, che come abbiamo visto è uno dei concetti fondamentali della filosofia e delle scienze che vennero dopo Giordano Bruno. Fu infatti in gran parte il concetto bruniano di infinito a mettere in crisi il paradigma antropocentrico – confermato per millenni dalla cosmologia tolemaica e aristotelica – e poi ad ampliare gli spazi della mente e della materia verso misure impreviste e impensabili. Se l’astronomia antica dava conforto alla mortalità umana ponendo la nostra specie in ogni caso al centro del cosmo, la scienza contemporanea ha aperto agli astronomi e a tutti gli umani «il regno delle galassie e relegato la Via Lattea a semplice esemplare di un universo isola»10, dentro il quale l’esistenza e il millenario lavoro delle menti coscienti non hanno peso e significato maggiori del rotolare di un sasso sulla Luna. Pervenire a tale consapevolezza, essere lieti dei propri limiti dentro la perfezione del cosmo, anche questo e soprattutto questo credo sia la filosofia.

 

Caravaggio al cinema

Come Bruno, neppure Caravaggio ebbe requie e pace da parte di coloro che o con l’apparato dottrinale o con la violenza dei pugnali ripudiavano la metamorfosi che nei suoi capolavori accadeva di gente miserabile, mendicanti e prostitute in santi e madonne. Cosa che veniva ritenuta non etica, come non è etico oggi utilizzare il maschile neutro per rivolgersi a un gruppo di persone o apprezzare il pensiero di David Hume e di Voltaire nonostante il primo accettasse la schiavitù e il secondo fosse antisemita. E sono soltanto due esempi di una tendenza che non lascia in pace niente della storia dell’Europa, tendenze nichilistiche quali la Cancel culture e l’ideologia Woke.
Il film di Michele Placido ha reso vivide ai miei occhi le conseguenze e le forme di ogni ondata di moralismo con la quale si intende cancellare fantasia, intelligenza e libertà in nome di un qualche valore supremo. Per questo l’ho apprezzato, per il suo costante intersecare «un immenso talento» (parole dell’inquisitore) con «tuttavia» il pericolo che l’arte di Caravaggio disvelasse al popolo la tragedia dell’esistere e l’inconsistenza delle promesse redentive.
Mi sembra che il regista e gli sceneggiatori facciano propria l’ipotesi di Vincenzo Pacelli e Tomaso Montanari secondo la quale l’artista lombardo non morì di febbri e infezione da piombo ma assassinato da emissari dei poteri a lui avversi. Al di là di vari elementi controversi della biografia, il film mostra in ogni caso l’inquietudine costante, il carattere difficile, il bisogno di libertà e il genio davvero sconfinato di Caravaggio.
Se ci chiediamo da dove venga la luce dei suoi quadri, una possibile risposta è che provenga dalla sapienza delle mani febbrili nel lavorare e dipingere per poi ‘darsi al bel tempo’, come si diceva allora; viene da un carattere inquieto, votato allo svelamento e al possesso totale della vita; viene dalla dismisura di un uomo violento, permaloso, passionale, facile al pugnale; viene dalla forma, cercata negli anfratti più scuri dell’essere, quelli in cui si conserva l’eco della sapienza primordiale, del non dicibile ma raffigurabile; viene dall’ombra, perché anche quest’ombra è la filosofia.
Importante nella trama del film è La morte della Vergine, un capolavoro rifiutato dall’Ordine Carmelitano – che pure a Caravaggio lo aveva commissionato – e che oggi si trova al Louvre. La madre di Gesù ha le sembianze terree di un vero cadavere, non destinato a essere assunto in cielo, e sembra raffigurare con il suo ventre gonfio una donna incinta o almeno morta annegata nel Tevere. I valori della fede mariana non potevano accettare una simile sconcezza. Ma il dipinto è mirabile. Essere liberi, esserlo davvero dentro il cuore, significa difendere la bellezza, l’immaginazione, il pensare e la differenza da ogni cupo controllo dei valori morali, che si tratti di quelli del cristianesimo nella sua gloria o dei «diritti umani» i cui fanatici sostenitori sono pronti a privare di diritti i cittadini che non si conformano ai loro valori, alle loro credenze, alle loro interpretazioni del mondo, al loro bisogno di apparire «buoni e giusti».
Questo è uno dei drammi che percorre le società umane. Dramma pervasivo anche del nostro presente epidemico e politico. 

 

Piccolo Teatro Studio – Milano
De infinito universo
Testo, ideazione visiva e regia Filippo Ferraresi
Scene Guido Buganza – Luci Claudio De Pace – Musiche Lucio Leonardi (PLUHM)
Con: Gabriele Portoghese, Elena Rivoltini, Jérémy Juan Willi
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa; coproduzione Théâtre National Wallonie – Bruxelles

 

L’ombra di Caravaggio
di Michele Placido
Italia, 2022
Con: Riccardo Scamarcio (Caravaggio), Louis Carrel (L’inquisitore), Maurizio Donadoni (Paolo V), Isabelle Huppert (Costanza Sforza Colonna), Lolita Chammah (Anna), Micaela Ramazzotti (Lena Antonietti), Michele Placido (Cardinale Del Monte)

 

Note

1 G. Bruno, De la causa, principio e uno, in «Dialoghi italiani / Dialoghi metafisici», a cura di G. Gentile e G. Aquilecchia, Sansoni, Firenze 1985,  I volume, p. 202.
2  Id., De gli eroici furori, in «Dialoghi italiani / Dialoghi morali», cit., II volume, Parte I, Dialogo III, pp. 986 e 988.
3 Id., De la causa, principio e uno, cit., pp. 184 e 326-327.
4 Ivi, p. 273.
5 Ivi, pp. 322-323.
6 Ivi, p. 320.
7 Ivi, pp. 179-180.
8  Id., De l’infinito, universo e mondi, in «Dialoghi italiani / Dialoghi metafisici», cit., I volume, p. 518.
9 Ivi, pp. 412-413.
10 M. Capaccioli, L’incanto di Urania. Venticinque secoli di esplorazione del cielo, Carocci, Roma 2020, p. 278.

 

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