Un Parmenide epistemologo?

Di: Alberto Giovanni Biuso
1 Settembre 2022

 

Una filosofia come quella di Parmenide, così totalizzante, avvolgente, risolutiva delle contraddizioni dolorose del mondo, può costituire una tentazione teoretica che illude sulla soluzione dei molti enigmi che ogni riflessione coglie nella realtà. È quello che sembra essere accaduto anche al curatore di questa ricca edizione di ciò che rimane del poema di Parmenide – 160 esametri su almeno un migliaio –, filologo di grande competenza e studioso attentissimo dei versi e della tradizione eleatica. Cerri è convinto, e spesso ripete, «che nessun critico moderno sia finora riuscito a comprendere il pensiero di Parmenide. Nessuno, né filosofo o storico della filosofia né filologo o storico della letteratura greca»1.
Anche a causa di tale entusiasmo per quella che evidentemente ritiene essere una serie di scoperte ermeneutiche che per la prima volta sono da lui fornite, Cerri nella sua brillante introduzione e nell’ampio commento all’opera cade in alcuni anacronismi di fondo. Il più consistente è anche una delle ragioni di maggiore interesse di questa edizione. Per Giovanni Cerri, infatti, il poema parmenideo non va letto – come è stato fatto di solito – in una chiave metafisica e dialettica ma in una prospettiva rigorosamente scientifica sia dal punto di vista del metodo sia dei contenuti. Scientifica proprio nel senso galileiano e contemporaneo.
A sostegno di una simile ipotesi ci sono certamente molte importanti testimonianze. Parmenide è infatti un filosofo dell’intero, dai presupposti metafisici assai forti e consequenziale in ogni sua tesi e ragionamento. Ma, a parte ogni altra considerazione, il suo pensare non segue le «sensate esperienze e matematiche dimostrazioni». Farne quindi un collega di Galilei, di Einstein o di Planck significa non rendere a Parmenide l’onore filosofico che merita.
Vediamo quali sono i più significativi e fecondi risultati delle ricerche che qui confluiscono.
Il primo è la tesi del tutto corretta che a rivolgersi a Parmenide, a prospettargli quali vie di ricerca sono possibili, a delineare una sintesi metodologica, cosmologica, biologica, antropologica, gnoseologica che doveva essere «un’enciclopedia scientifica onnicomprensiva» (14) non è stata Dike, la quale svolge soltanto la funzione di introdurre e scortare il filosofo nell’Ade ma, appunto, la dea dell’Ade: Persefone2.
Il secondo è che questa dea delinea una metafisica (ché tale è, anche se a Cerri la parola non piace) e una cosmologia di impronta fortemente materialistica. Intuizione che mi sembra condivisibile e feconda, con la specificazione che il materialismo di Parmenide è lo stesso di Eraclito e di Empedocle; viene dunque prima di ogni dualismo tra spirito e materia o altre analoghe opposizioni: «L’Essere, di cui egli parla, deve essere concepito come materia, materia che occupa spazio» (65), «come sostanza indistinta di tutte le cose» (229), anche «la psiche non è altro che una funzione del corpo, e la sua qualità dipende dalla qualità di esso» (281).
Il terzo è che questo sapiente è rivolto «εἰς φάος, verso la luce» (fr. 1, v. 10, p. 146) che è luce dell’essere nel doppio senso del genitivo, è dunque rivolto verso la pienezza ontologica con la quale la filosofia coincide, se vuole essere filosofia e non soltanto teoria della conoscenza o teologia o uno qualunque dei saperi parziali:

Μόνος δ’ ἔτι μῦθος ὁδοῖο
λείπεται ὡς ἔστιν· ταύτῃ δ’ἐπὶ σήματ’ἔασι
πολλὰ μάλ’, ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν,
ἐστι γὰρ οὐλομελές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ’ ἀτέλεστον
οὐδέ ποτ’ ἦν οὐδ’ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν,
ἕν, συνεχές·

Allora di via resta soltanto
una parola, che ‘è’. Su questa ci sono segnali
molteplici, che senza nascita è l’Essere e senza morte,
tutto intero, unigenito, immobile, ed incompiuto
mai è stato o sarà, perché tutt’insieme adesso,
uno continuo.
(Fr. 7/8, vv. 6-11, pp. 150-152).

L’entusiasmo del seguace, per quanto dotato di rigorosi strumenti filologici, ecdotici, eruditi, spinge tuttavia Cerri ad accentuare poi le più dogmatiche tesi del Maestro, in particolare quella che nega in tutti i modi la realtà della Differenza: «‘Ciò che non è’, con una cosa anche in ultima istanza diversa da un’altra, non può esistere (v. 1): se esistessero anche due sole cose veramente diverse nella loro più intima essenza, una delle due risulterebbe originata dal nulla, rispetto all’altra, contro l’assioma che ‘nulla nasce dal nulla’» (61). Conclusione alquanto arbitraria poiché che nulla possa nascere dal nulla è del tutto vero ma questo non significa affatto che ‘l’identico nasce dall’identico e come identico sempre rimane’.
Che poi «fenomeni, in apparenza diversi» siano «in realtà identici l’uno all’altro» (69-70) mostra una tale sfiducia nella seppur minima capacità dei sensi e della percezione da precludersi ogni fenomenologia e da aprire invece le porte alle più arbitrarie conclusioni e tesi. Se «le cose infinite e mutevoli sono solo parvenze false e nomi vuoti, che nascondono l’unica realtà esistente, l’Essere» (237) si dissolve anche ogni possibile differenza ontologica e a dominare è un’ontologia dell’identico con l’identico che è di fatto incapace – in Parmenide come in Severino o in Cerri – di rendere conto della varietà, complessità e ricchezza dei fenomeni, sempre e sistematicamente ricondotti a un Essere ridotto a pura e semplice parola.
Il commento e le analisi di Cerri sembrano infatti prepararci di continuo a un definitivo svelamento della questione uno/molti che però non si presenta mai, che mai viene enunciato, rifiutando anche la raffinata lettura – che pure viene riportata nelle ‘pagine scelte di critica moderna’ –  di Patricia Curd, la quale distingue tra monismo numerico e monismo predicazionale, sostenendo che il «monismo predicazionale» di Parmenide «è compatibile col pluralismo numerico» (126), vale a dire: il fatto che ogni ente possa essere soltanto la cosa che è e null’altro non significa che esista soltanto una cosa.
Cerri rifiuta anche la tesi di Platone, di Guido Calogero e di molti altri per la quale il limite logico e linguistico dell’eleatismo consiste nella mancata distinzione del significato copulativo dell’essere (che attribuisce una qualche caratteristica all’ente) e del suo significato esistenziale (che dell’ente afferma soltanto l’esistenza). Questa mancata distinzione è proprio quella che può far comprendere sia il fondante contributo parmenideo alla filosofia sia i limiti di tale contributo; limiti ‘legittimi’ nel senso che Parmenide ha perfettamente ragione a richiamare il pensiero al rigore della totalità ma sbaglia nell’intendere questa totalità come «principio di identificazione/equazione ovvero di ‘invariante’» (8), volto a escludere ogni pur evidente differenza, molteplicità, trasformazione.
Contro il divenire, Parmenide infatti afferma tesi che se hanno dato grande forza alla fiducia umana nella potenza dei propri dispositivi concettuali, l’hanno anche distolta in modo teoreticamente ed empiricamente drammatico dall’accogliere l’apparire come si dà e nei limiti in cui si dà, vale a dire dal principio senza il quale ogni raggiungimento della verità sul mondo risulta di fatto implausibile:

ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ,
γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί,
καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν.

Le cose supposte dagli uomini, fidenti che siano vere,
nascano, muoiano, ‘siano’ una cosa, ‘non siano’ quest’altra
cambino posto, mutino la loro pelle apparente.
(Frr. 7/8, vv. 44-46, p. 154)

Se numerosi versi del filosofo di Elea confermano la lettura epistemologica e attualizzante di Cerri, altri invece rimangono così addentro al mondo arcaico, splendente e mitico da rendere necessarie complesse ermeneutiche o persino espliciti capovolgimenti. E così nell’interpretare il tormentato frammento 16, l’esegeta rischia di negarne di fatto il contenuto: «Resta sottinteso che ben altra cosa è il pensiero scientifico, il quale procede sulla base dell’ ‘è’, cioè delle identificazioni successive acquisite con metodo matematico: è appunto quest’altra la ‘via’ che permette alla mente umana di sottrarsi ai condizionamenti impressionistici e di elaborare proposizioni dotate di ‘certezza’» (277-278).
E di fronte alla chiarezza di  un linguaggio sacro che somiglia a quello di Esiodo, quale appare nel frammento 19, Cerri non può che constatare come pronunciando «questo responso terribile, Parmenide, l’uomo sapiente in senso moderno, lo scienziato εἰδὼς φώς del fr. 1, v. 3, assume l’atteggiamento e la fraseologia della saggezza tradizionale, mantica e poetica: conosce passato, presente e futuro, come il profeta Calcante […], come Esiodo ispirato dalle Muse Eliconie» (290).
Posto dunque tra ciò che noi oggi chiamiamo ‘scienza’ e ciò che noi oggi chiamiamo ‘profezia’, Parmenide è uno scienziato ed è anche uno degli «sciamani razionalizzati» dei quali parla Eric R. Dodds3 . La forza del suo pensare abita anche in questa identità molteplice. 

 

Note

1 Parmenide di Elea, Poema sulla Natura (ΠΕΡΙ ΦΥΣΕΩΣ), introduzione, traduzione e note di Giovanni Cerri, Rizzoli, Milano 2018, p. 15.  I brani di Parmenide saranno citati nel corpo del testo da questa edizione.

2 Tesi sostenuta con ottimi argomenti anche da Peter Kingsley in Nei luoghi oscuri della saggezza, (In the Dark Places of Wisdom,1999), trad. di S. Lalìa, Marco Tropea Editore, Milano 2001. 

3 I Greci e l’Irrazionale (The Greek and the Irrational, 1950), trad. di V.Vacca De Bosis, La Nuova Italia, 1978, p. 248.

 

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