Rinaldi, Pagani e cristiani

Di: Alberto Giovanni Biuso
1 Settembre 2022

 

Giancarlo Rinaldi
Pagani e cristiani
La storia di un conflitto (secoli I-IV)
Carocci Editore, Roma 2020
Pagine 492
€ 21,00

 

C’è una vicenda, fondamentale per l’Europa, nella quale il detto secondo cui ‘la storia la scrivono i vincitori’ appare con evidenza in tutte le sue pervasive e immense conseguenze. Questa vicenda è quella assai complessa che si racchiude nel termine Cristianesimo.
Studiare la genesi del modo in cui questa religione si è presentata nei secoli e continua a presentarsi oggi significa comprendere sino in fondo l’importanza della metapolitica, dell’egemonia culturale, della scrittura che sopravvive e della scrittura che si inabissa. È noto che migliaia di testi della cultura greca e romana sono andati perduti1. Meno noto è che la misura di questa perdita arriva sino a novanta testi su cento, forse meno noto ancora è che gran parte di tale perdita sia stata progettata, voluta e realizzata coscientemente dai gruppi, individui, istituzioni che vanno sotto il nome di ‘Chiesa’, la quale iniziò il IV secolo dell’e.v. «come soggetto perseguitato e lo chiuse come agente persecutore» (187), una persecuzione contro l’intera civiltà antica che venne attuata 

con una violenza al confronto della quale i rumores che erano circolati sul conto dei cristiani nei primi tre secoli, o anche gli strali degli intellettuali anticristiani, potevano apparire ben poca cosa, talché qualcuno avrebbe poi osservato, non senza malizia, che i martiri di questa ‘inquisizione’ sarebbero stati ben più numerosi di quelli che erano precedentemente caduti per decreto delle autorità pagane (214-215).

Il rogo dei libri, la loro damnatio memoriae – un esempio per tutti il trattato di Porfirio Κατὰ Χριστιανῶν – venne attuato con strumenti molteplici e tenaci, a partire dal Concilio di Nicea (325), poi con l’editto di Tessalonica del 28 febbraio 380, a firma congiunta di Teodosio I, Graziano e Valentiniano II, per finire con il 435, «che è l’anno della constitutio di Teodosio II e Valentiniano III, con la quale ogni edificio di culto era condannato alla distruzione, con conseguente purificazione del luogo tramite il segno della croce (CTh 16,10,25)» (219). Nel 448 un’appendice dedicata esplicitamente ai trattati di Porfirio decretava che le sue opere venissero «gettate nel fuoco» (144).
Opere di scrittura, opere figurative, opere di architettura. A queste ultime provvidero i monaci con le loro eversiones, identiche a quelle praticate oggi dall’ISIS: 

Vi fu un complesso di leggi che offrì ai cristiani più fanatici, specialmente in Oriente, il pretesto per depredare o distruggere i templi pagani. […] Da connettersi con l’epopea di Israele nel corso del suo insediamento nella terra di Canaan, così come narrato dalle Scritture. Infatti, le guide cristiane di quell’epoca lo presentarono come una provvidenziale impresa da Dio affidata al Novus Israel, la Chiesa. Si colpivano edifici di grande dimensione, pensiamo a colossali santuari egizi, ma anche a mosaici con temi mitologici (specialmente di argomento bacchico) e minuti oggetti di culto, sovente di mitraisti, spesso sottratti dai fedeli e riposti in nascondigli dai quali sarebbero riemersi secoli dopo grazie al piccone dell’archeologo (201).

Subito dopo, Rinaldi compila un impressionante elenco di azioni distruttive degli edifici e delle persone, perpetrate dai monaci.
Monaci la cui realtà è ben diversa rispetto a quella che secoli di agiografia hanno sostenuto. Persino i vescovi furono preoccupati della violenza e dell’avidità con le quali bande di monaci vestiti di nero assaltavano edifici, depredavano terre, massacravano i non cristiani e anche i cristiani di fede cristologica diversa dalla propria. Emblematica l’affermazione di Teodosio I – il promulgatore dell’editto di intolleranza del 380 – il quale è costretto a scrivere al vescovo milanese Ambrogio di Milano che «monaci multa scelera faciunt» (382).
Diffusa corruzione politico-finanziaria al tempo degli imperatori cristiani (ad esempio con la moltiplicazione e il traffico di reliquie e con la depredazione e la vendita dei manufatti artistici sottratti ai templi); ‘soluzione finale’ contro i pagani, come quella invocata e praticata da Firmico Materno; stragi tra fazioni cristiane sia per questioni dottrinarie sia per la successione alla carica di vescovo di Roma (nel conflitto tra i pretendenti Damaso e Ursino del 366 si contarono 137 morti).
Questi e altri eventi e situazioni mostrano come il cristianesimo fu un vero e proprio tumore del quale la civiltà antica ebbe ad ammalarsi e morire, un corpo estraneo nato alla periferia dell’impero e capace però di moltiplicarsi ed estendersi all’intera Europa sino a distruggerne credenze, luoghi, antropologia.
Rinaldi insiste infatti giustamente sulla circostanza che «quel che noi chiamiamo ‘cristianesimo’ fu una forma di giudaismo caratterizzata da una fortissima spinta proselitistica» (11); sul fatto che la realtà «della piena ‘ebraicità’ di Gesù e del carattere pienamente giudaico della predicazione sua e dei suoi seguaci» (25) era evidente ai polemisti sia pagani sia cristiani dei primi secoli dell’e.v. e invece fatica ancora ad affermarsi nel senso comune, dopo essere stata accolta assai lentamente dagli studiosi di storia del cristianesimo. Emblematico di questa consapevolezza è l’interrogativo dell’imperatore Giuliano (Galil. fr. 20) il quale si chiedeva come si potesse «proclamare il Dio giudaico Signore dell’universo quando egli, al contrario, per secoli aveva trascurato l’umanità intera dedicandosi a un solo popolo relegato in un cantuccio della terra?» (365).
La natura geograficamente e culturalmente provinciale dell’ebraismo-cristianesimo è confermata da molte situazioni e circostanze. Ne ricordo soltanto due: il chiaro antigiudaismo di Paolo di Tarso – «i giudei non piacciono a Dio, sono nemici dell’uomo» (in 1 Tess 2,13-16) – il quale fu consapevole dei limiti che la tradizione ebraica avrebbe comportato per la diffusione della nuova corrente religiosa; l’influsso che le critiche dei filosofi e teologi pagani esercitarono sulla formazione della dottrina cristiana, in particolare l’importanza che il platonismo assunse in essa, proprio per dare al cristianesimo un fondamento concettuale e teoretico del quale esso era completamente privo. Agostino è naturalmente il vertice e il fondamento di tale assimilazione della teoresi greca dentro la corrente cristiana del giudaismo.
Nei primi secoli della vicenda galilea, comunque, la distanza tra grecità e cristianesimo fu e rimase incolmabile. Basti osservare gli ambiti antropologico e cosmologico, vale a dire due questioni fondanti di qualunque cultura. Per quanto riguarda l’antropologia, rispetto al volontarismo cristiano è evidente, in Celso e in molti altri, «la convinzione dell’impossibilità di un mutamento effettivo della natura umana, tipica del pensiero antico per il quale le virtù sono acquisite per nascita e soltanto sviluppate e nutrite con la pratica di buona vita e della cultura» (345); anche per questo «Giuliano aveva da ridire sulla qualità pessima delle persone a cui Gesù (e poi la predicazione cristiana) si rivolgeva e l’indignazione montava quanto più egli poteva ricordarsi degli alti requisiti che dovevano caratterizzare chi si candidava alle iniziazioni misteriche» (346). Nell’ambito cosmologico la concezione eterna della materia, degli astri mai creati e coincidenti con gli dèi, era evidentemente incompatibile con il creazionismo giudaico-cristiano. «Giuliano (ad Hel. reg. 5,132c) andava in estasi contemplando lo splendore dell’universo divino e, contro i cristiani, ne predicava la provvidenzialità ed eternità. Anche gli oracoli accusavano i cristiani di stoltezza per la loro credenza nella fine di questo mondo» (357).
Il compimento della filosofia greca con Plotino si esprime anche nella polemica verso gnostici e cristiani – da lui sostanzialmente accomunati – proprio per il loro anticosmismo. Plotino difende la bellezza e l’eternità della materia cosmica rispetto al disprezzo cristiano, pur sostenendo la resurrezione dal corpo e non con il corpo, tanto che «sembra possibile anche cogliere un accostamento tra Plotino e la dottrina gnostica della risurrezione intesa come risveglio della propria consapevolezza e non come riassunzione di un corpo di carne e ossa» (128).
Rispetto alla complessità e razionalità del pensare greco, il credere giudaico-cristiano appariva ed era una espressione barbarica. Si trattava non tanto di una religio quanto di una superstitio: per i pagani la conoscenza del divino «costituiva l’ultimo passo di un percorso della mente, potremmo dire l’ultimo capitolo del loro ragionar filosofico, dove la definizione di Dio e dei suoi attributi scaturiva da elementi di logica e di cosmogonia. Per i cristiani, sulla scorta dell’esperienza  d’Israele, la visione di Dio si nutriva di fede ed era rivelazione che si basava sul ritratto che della divinità fornivano le Scritture» (309).
Nonostante tale abisso, nonostante le singolari caratteristiche esotiche e barbariche del culto cristiano, l’impero romano era pronto ad assimilare il fondatore di tale culto nel proprio pantheon, come una divinità tra le altre. Fu esattamente questo, invece, il punto di rottura poiché i cristiani, come i giudei, nutrivano invece una concezione esclusiva ed escludente del loro Dio, disprezzando ogni altro culto, concezione, divinità. Ma ancora una volta, e nonostante un atteggiamento così pericoloso, la romanità cercò varie forme di conciliazione. Anche nei periodi – brevi – di persecuzione giuridica, molti governatori delle province fecero di tutto per mandare assolti i cristiani che venivano loro consegnati. Traiano rispose a Plinio il Giovane, governatore della Bitinia, che i cristiani non dovevano essere ricercati e che non si dovesse dare credito a denunce anonime. «Successivamente, in ogni processo ai cristiani, il magistrato si sarebbe avvalso spesso della facoltà di indurre l’imputato all’apostasia al fine di dimostrarne l’estraneità all’accusa e, magari, di mandarlo via assolto» (64). Emblematico fu quanto accadde ad Arrio Antonino, proconsole d’Asia dal 187 al 188, «al quale si era presentata una schiera di cristiani ansiosi di andare incontro al martirio. Così egli, probabilmente stanco di dover provvedere a situazioni del genere, li apostrofò: ‘sciagurati, se proprio volete morite, potete buttarvi giù dai burroni o impiccarvi’» (75). Ma a quanto pare l’irrazionalità di questi credenti non ebbe a cessare: «Flaviano finse che i cristiani avessero sacrificato per mandarli liberi (Eus., mart. Pal. 1,4); Urbano, che si recava ad assistere alle venationes, si meravigliò quando si accorse di essere inseguito da alcuni cristiani che gli correvano incontro con le mani legate poiché desideravano il martirio (3,3-4); Firmiliano (9,1-3), mentre sacrificava, fu assalito da cristiani ansiosi di martirio» (370).
Alla luce delle testimonianze e dei documenti – e non della propaganda che ha troppo spesso preso il loro posto –, Rinaldi invita a «respingere quel diffuso luogo comune secondo il quale la storia del cristianesimo antico sarebbe coincisa con una lunga serie di persecuzioni» (59); afferma che «possiamo essere pressoché sicuri che Domiziano non abbia mai promulgato un provvedimento anticristiano» (56) e osserva che «sembra strano che di questa importante pagina della storia [le persecuzioni di Diocleziano] siano soltanto le fonti cristiane a parlarcene, se si fa eccezione per qualche papiro egiziano» (168); conferma che gli episodi di persecuzione furono circoscritti sia nello spazio sia nel tempo e dipendenti dall’orientamento e dalla discrezionalità dei governatori delle diverse regioni. In ogni caso «soltanto indirettamente ai cristiani derivarono castighi e problemi e ciò non per la loro professione di fede in sé e per sé, ma per la loro indisponibilità a unirsi alla popolazione sacrificante» (118).
Di fronte a questa ostinata volontà di accoglienza del mondo antico si erse l’ancora più ostinata volontà dei nazareni di non essere accolti, che si trasformò poi in volontà omicida nei confronti del paganesimo, perseguitato sino alla sua scomparsa dall’Europa e alla distruzione di gran parte delle sue testimonianze letterarie e architettoniche2.


Note

1 C. Nixey, Nel nome della Croce. La distruzione cristiana del mondo classico (The Darkening Age. The Christian Destruction of the Classical World, Macmillan 2017), trad. di L. Ambasciano, Bollati Boringhieri, Torino 2018. 

2 Cfr. il mio «Le persecuzioni contro i pagani», Vita pensata, anno IX, n. 18, febbraio 2019, pp. 5-12.

 

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